di Ken Wilbertraduzione dallo spagnolo di @guaspito con il supporto di chatGPTdownload pdf
Dopo aver letto Lo spettro della coscienza di Wilber ho trovato questa illuminante sintesi di alcuni concetti che egli propone, che condivido a beneficio di ogni ricercatore. Il titolo del blog fa riferimento proprio a considerazioni come queste, che indicano la possibilità e la necessità di una nuova prospettiva sulla realtà.
La Filosofia Perenne è quella visione del mondo condivisa dalla maggior parte dei principali maestri spirituali, filosofi, pensatori e perfino scienziati di tutto il mondo. Viene chiamata “perenne” o “universale” perché appare implicitamente in tutte le culture del pianeta e in tutte le epoche. La ritroviamo tanto in India, Messico, Cina, Giappone e Mesopotamia, quanto in Egitto, Tibet, Germania o Grecia. E ovunque essa si manifesti, presenta sempre gli stessi tratti fondamentali: un accordo universale su ciò che è essenziale.
Per noi, uomini contemporanei, che siamo praticamente incapaci di metterci d’accordo su qualsiasi cosa, ciò risulta difficile da credere. Come ha riassunto Alan Watts: “Siamo appena consapevoli dell’eccezionale singolarità della nostra stessa posizione, e perciò ci risulta assai difficile ammettere il fatto evidente che sia esistito un consenso filosofico unico, di ampiezza universale, sostenuto da molti (uomini e donne) che hanno condiviso le stesse esperienze e trasmesso essenzialmente gli stessi insegnamenti, oggi come seimila anni fa, dal Nuovo Messico nel lontano Occidente fino al Giappone nel lontano Oriente.”
Durante il periodo della laurea, ragionavo sul modo in cui far costruire ai robot una mappa dell'ambiente, partendo per esempio da immagini tridimensionali (che contengono una informazione sulla profondità) che si possono ricostruire da una semplice coppia di foto binoculari.
Coppia di immagini stereo, una immagine displacement, e la relativa immagine di profondità. In basso una la ricostruzione 3d della parte vista, dalla quale si possono percepire le parti nascoste
Ogni vista parziale permette di ricostruire una parte “istantanea” del modello dell'ambiente, che poi va aggiunta e contestualizzata in una mappa più ampia, che in qualche maniera definisce il “ricordo” del robot.
La maggior parte delle persone ha dei geni che aiutano ad adattarsi a ogni situazione. Altre sono fragili e instabili, ma nell'ambiente giusto riescono meglio di tutti. Lo sostiene una nuova teoria genetica.
Nel 2004 Marian Bakermans-Kranenburg, docente di studi sull'infanzia e la famiglia all'università olandese di Leida, ha filmato la vita di un gruppo di famiglie con bambini di età compresa tra uno e tre anni che avevano un comportamento antagonista, aggressivo, non collaborativo e irritante. Un comportamento che gli psicologi chiamano esternalizzazione: i bambini piangono, urlano, picchiano, fanno capricci, lanciano oggetti e respingono ostinatamente qualsiasi richiesta ragionevole. Un atteggiamento abbastanza normale a quell'età. Ma, secondo alcune ricerche, i bambini che lo fanno troppo spesso rischiano in seguito di essere stressati e confusi, di avere difficoltà nell'apprendimento e nei rapporti con i compagni e di diventare adulti asociali e aggressivi.