100820

Girando per Foggia senza alcuna meta precisa, con lo scopo, forse – non ho osato confessarlo a me stesso – di far respirare i ricordi, questa sera ho pensato per la prima volta che forse la morte di Giuseppe è stata sensata. Era due cose, Giuseppe. Era, dentro, un rocker, un ribelle, la reincarnazione di Jimi Hendrix. Era, fuori, il figlio di un impiegato della Posta: con la faccia del figlio di un impiegato della Posta. Sembrava comico, quel contrasto tra interno ed esterno, e infatti lo prendevano in giro; era invece tragico. Ora, se fosse vissuto, sopravvissuto, l'impiegato della Posta avrebbe ucciso il rocker, per sempre. L'avrei incrociato, questa sera, e non lo avrei riconosciuto. Non avrei riconosciuto la sua rabbia, il suo profondo disgusto verso tutto ciò che ci circondava, l'ansia di lanciarsi al di là di tutto con un assolo di chitarra. E lui, credo, non avrebbe riconosciuto me. Ma Giuseppe è morto. Si è fermato. Ha fatto della sua contraddizione tragica un momento non superabile, un inciampo, una piccola pietra miliare. Ha deciso di non essere incontrabile in futuro se non in quella forma: la forma di un rocker imprigionato nel corpo del figlio di un impiegato della Posta. Noi siamo andati avanti. Perché non avevamo, noi, la faccia di un impiegato delle Poste. Come se facesse qualche differenza. Ci siamo illusi di poter procedere con coerenza, senza uccidere, senza sacrificare noi stessi al mondo che ci premeva addosso. Ci siamo uccisi mille volte, mille volte siamo stati infedeli a noi stessi. E oggi paghiamo quella hybris con la disperante consapevolezza di essere ormai un mistero per noi stessi, di non poter trovare nel nostro percorso un qualsiasi senso, di non sapere dove siamo, dove andiamo, e come e quando ci siamo smarriti. [10.08.20]

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