Judith Butler, o la banalità della nonviolenza
Note a margine di La forza della nonviolenza di Judith Butler (Nottetempo, Milano 2020). Per Butler la nonviolenza va (ri?)fondata su: 1) la percezione del valore di qualsiasi vita, compresa quella non umana, 2) e dunque l'“impegno per un'uguaglianza radicale” (p. 90). Sullo sfondo della sua riflessione c'è il movimento Black Lives Matter. Non solo le vite delle persone afroamericane contano. Tutte le vite contano. E che contino vuol dire, per Butler, che sono ugualmente degne di lutto, che è un modo discutibile per dire che hanno valore: perché il lutto è un fatto antropologico, culturalmente variabile, ed è tutt'altro che certo che essere degno di lutto significhi la stessa cosa in Europa, Africa e Cina. Soprattutto, Butler lascia completamente al di fuori della sua trattazione la questione del valore della vita. Ha più di qualche ragione quando afferma che la sinistra non può lasciare il valore della vita ai movimenti pro-life, ma non dedica nemmeno un cenno alle complesse questioni filosofiche legate ad un'etica della vita. Tutte le vite hanno un eguale valore? La zanzara è degna di lutto quanto un essere umano? Non esiste nessuna gerarchia di valore tra esseri viventi? In nessun caso la soppressione della vita — di qualsiasi vita — è accettabile? E poi: se la nonviolenza ha bisogno di riconoscere il valore di ogni vita (in questo Butler è d'accordo con Capitini, che naturalmente ignora; così come sembra ignorare gran parte del pensiero nonviolento), della prassi nonviolenta non dovrà far parte anche la lotta per la liberazione delle vite non umane? Anche su questo Butler tace. Quanto all'uguaglianza, Butler ha presenti tre gruppi vulnerabili: i neri, i popoli colonizzati e le donne (e le persone transessuali). Razzismo, colonialismo, maschilismo e sessismo. Ma è proprio tutto qui? È sufficiente combattere queste forme di violenza per ottenere l'uguaglianza radicale di cui parla? Murray Bookchin non è tra gli autori di Butler. Se si fosse confrontata con il suo The Ecology of Freedom (1982) avrebbe potuto riflettere sulla violenza strutturale insita nei sistemi gerarchici che creiamo ad ogni livello e in ogni ambito della vita sociale; e non c'è nessuna possibilità di uguaglianza, e dunque di nonviolenza, senza una critica radicale e una radicale lotta contro questa tendenza culturale e dare una forma piramidale alla società. Ha ragione da vendere, Butler, quando afferma che è errato considerare gruppi come gli afroamericani, le donne e le persone queer (in Italia potremmo dire: i migranti) come gruppi vulnerabili da difendere paternalisticamente, e bisogna scorgere in essi piuttosto gruppi di persone resistenti. Ma che forma prende questa resistenza? Anche qui in Butler c'è poco o niente. Appena l'osservazione disperatamente superficiale che “La connessione della pratica nonviolenta con una forza e una resistenza che si distinguono dalla violenza distruttiva e si manifestano nelle alleanze solidali di resistenza e persistenza corrisponde al rifiuto della categorizzazione della nonviolenza come debolezza e inutile passività” (p. 269). Parlare di “alleanze solidali di resistenza e persistenza” significa far retorica, se non si dice poi come si costituiscono queste alleanze, come si articolano interiormente, quale forma di potere esercitano, in che modo perseguono i loro scopi con efficacia.