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filosofia

La tensione tra religione e filosofia è la tensione tra storia e sistema. La religione inserisce la vicenda umana – e le dà senso – in una narrazione. In principio Dio creò il mondo, poi ha fatto altre cose; c'è stata la caduta, ma c'è la salvezza. Come ogni storia che funzioni, la vicenda umana inizia con l'idillio, poi si complica, trova il dramma: e quindi si risolve nella pace. La filosofia passa dal piano storico-narrativo al piano cosmico. Pone l'essere umano in relazione con l'universo, in una apertura orizzontale che non ha sviluppo alcuno. La filosofia per eccellenza è, da questo punto di vista, quella di Spinoza. A mezzo tra la religione e la filosofia sono quei sistemi che combinano narrazione e riflessione sistematica sulla natura delle cose. Pitagora e Platone (la cui filosofia non è che uno sviluppo del pitagorismo), il Samkhya, Hegel, eccetera.

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Spinoza e Pascal. Il primo pretende di spiegare l'essere umano, il secondo cerca di comprenderlo.

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L'essere umano, per Spinoza, può vivere in due modi: o secondo la ragione o secondo il desiderio (TP, II, 5: seu ratione, seu sola cupiditate ductus). In entrambi i casi, la sua azione si iscrive nelle natura. L'essere umano razionale non ha alcun primato sull'altro, sul desiderante. Est enim homo, sive sapiens, sive ignarus sit, naturæ pars. Entrambi sono parte della natura. Qualunque cosa si faccia, è parte della natura. Ma perché allora seguire la ragione e non piuttosto il desiderio?

L'essere umano, come qualsiasi essere vivente, cerca la potenza. Nel caso dell'essere umano, la potenza più grande è data non dalla cupiditas, ma dalla ragione. Chi segue la ragione è più potente di chi segue il semplice desiderio: humana potentia non tam ex Corporis robore, quam ex Mentis fortitudine æstimanda est (TP, II, 11). Ma questo potere della ragione non è a disposizione di tutti; non è in nostro potere seguire la ragione, così come non è in nostro potere avere un corpo sano (TP, II, 6).

La conclusione è che la natura ha fatto alcuni deboli, altri forti, e che i primi non possono fare nulla per fortificarsi. E poiché la ragione è anche la via per la libertà, la natura ha fatto alcuni liberi e altri schiavi — di sé, in primo luogo. Le conseguenze politiche di una simile visione non possono che essere terribili.

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Spinoza dissolve l'aristotelismo spostando la sostanza al di là delle cose. Questa cosa qui, questa persona qui non sono sostanze, ma modi delle sostanza. La sostanza è ciò che può concepirsi per sé. Questo vuol dire che tutto il mondo che conosciamo è fatto di cose che non possono concepirsi per sé; e noi stessi siamo tali. Esattamente come nel buddhismo, ogni cosa esiste — e può essere pensata — solo grazie ad altro. In Spinoza resta una sostanza, ma rigettata nel fondo oscuro delle cose. Qualsiasi cosa se ne dica, è arbitraria. Partendo dal conatus, Schopenhauer potrà farne una Volontà cieca; ma il conatus non è che una espressione periferica di questo Inconosciuto Primo.

Si tratta, alla fine, dell'ipotesi di un Incondizionato che sia alla base del Condizionato. Ma questo è proprio, nel buddhismo, il nibbana. Ogni dhamma è condizionato. Ma dev'esistere un Asankhata Dhamma, un dhamma incondizionato.

Come nel buddhismo, in Spinoza la liberazione dal condizionato consiste nello spingersi oltre il mondo delle cose, consapevoli al contempo della necessità che caratterizza tutto ciò che è condizionato, inclusi noi stessi.

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Tra gli aspetti che Deleuze considera rivoluzionari in Spinoza c'è la “trasvalutazione di tutte le passioni tristi”: “Quali che siano, in qualunque modo vengano giustificate, esse rappresentano il più basso grado della nostra potenza: il momento in cui siamo separati al massimo dalla nostra potenza di agire, alienati al massimo, in balia dei fantasmi della superstizione, delle mistificazioni del tiranno” (Spinoza. Filosofia pratica, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, cap. II). Ma nel Trattato politico Spinoza afferma che la moltitudine è spinta ad associarsi non dalla ragione, ma per una qualche passione comune (sed ex communi aliquo affectu), come una comune speranza, o paura, o desiderio di vendetta. Si aspira allo stato civile per la paura della solitudine (solitudinis metus) (TP, VI. 1). Speranza, paura. Le passioni tristi per eccellenza. Tutto ciò che riguarda la società e la politica porta il segno di questa tristezza originaria. Se una gioia è possibile, va cercata altrove.

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Difficile trovare nella storia della filosofia qualcosa di più cupamente pessimistico del Tractatus Politicus di Spinoza. È la riflessione di un uomo i cui amici sono stati linciati e squartati in piazza da una folla inferocita. E dunque: homines natura hostes, e questa loro natura feroce tende a venir fuori anche quando sono ristretti in una società civile (VIII, 12). Qualunque cosa l'essere umano faccia, fa parte della natura: che uccida o ami. Il sapiente e l'ignarus sono del tutto uguali davanti alla natura; quello che fa il primo non si distingue da quello che fa il secondo (II, 8). Nell'Etica ha indicato una via d'uscita, la possibilità di una vita libera e razionale. Ora sembra che la sua fiducia si scontri con un paradosso che non è diverso dal paradosso della fede cristiana. Perché per salvarsi occorre la fede, ma nessuno può acquisire da sé la fede; è grazia divina. Lo stesso vale per la ragione (ed è significativo che il paradosso emerga proprio in un passo in cui polemizza con i credenti). Alcuni, scrive, pensano l'essere umano come una creatura diversa dalle altre — veluti imperium in imperio concipiunt —, ma l'esperienza insegna quod in nostra potestate non magis sit, Mentem sanam, quam corpus sanum habere (II, 6). Non abbiamo il potere di rendere sana la nostra mente, più di quanto non abbiamo il potere di darci da soli la salute del corpo (un argomento che nell'Anattakhalana Sutta il Buddha usa per dimostrare che non c'è identità né nel corpo né nella mente). Nessuno può fare in modo che vi sia in lui ragione, se la ragione non c'è. Non si può scegliere la ragione più di quanto si possa scegliere la fede. E tutto quello che c'è da dire, alla fine, è che trahit sua quemque voluptas: ognuno è trascinato dal piacere.

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Policrate accusava Socrate, oltre che di essere stato il maestro di due criminali come Crizia e Alcibiade, di aver sostenuto che “era insensato eleggere con sorteggio i governanti della città, quando nessuno vorrebbe servirsi di un pilota scelto con sorteggio, né di un costruttore, né di un flautista, né di alcuno scelto per un'attività di questo tipo nella quale gli sbagli producono danni molto minori di quelli commessi nella guida dello Stato” (Senofonte, Memorabili, Libri I, 2). Socrate sarebbe stato, dunque, il primo teorico della meritocrazia. O, se si preferisce, il più confuciano dei filosofi occidentali. Perché, come è noto, nell'ottica confuciana non è l'elezione a legittimare il potere, ma il merito personale, sancito poi dal decreto celeste, che si esprime però attraverso il popolo. La garanzia consiste nel fatto che quando uno stato è governato male, il popolo di ribella, e ciò dimostra che il governante ha perso il tian ming, il decreto celeste. Probabilmente la crisi della nostra democrazia – che è sotto gli occhi di tutti, e in particolare in Italia, un paese in cui il metodo democratico ha portato al potere una successione impressionante di soggetti inadeguati, a voler essere buoni – renderà sempre più suggestiva l'alternativa meritocratica (si pensi a Il modello Cina di Daniel Bell). C'è una terza via? Qualche riga dopo il passo citato, Senofonte difende Socrate dall'accusa di far diventare violenti i giovani, con simili ragionamenti. E lo difende osservando che ragionamento e violenza sono incompatibili. “Perciò l'essere violenti non è proprio di chi esercita il ragionamento; di coloro che hanno forza senza intelligenza proprio invece compiere azioni di questo genere.” L'unica via per salvare la nostra democrazia è qui: opporre il ragionamento alla violenza. Diffondere socraticamente la pratica del ragionamento nella società. Lavorare per creare una società razionale e ragionante. Ma è un'impresa disperata, perché tutto va nella direzione opposta.

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L'ateismo non nega che esista qualsiasi Dio. Nessuno può negare l'esistenza di Dio se lo si concepisce spinozianamente come la natura o l'universo. L'ateismo nega il Dio persona, creatore e salvatore dell'uomo, ossia il Dio dei monoteismi. Ugualmente, lo scetticismo non nega qualsiasi verità. Nega il Discorso su cui si fonda la civiltà occidentale: che esistono cose, che le cose si compongono in un mondo, e che questo mondo ha una origine e una destinazione. A questo testo ontologico corrisponde il testo grammaticale: la parola corrisponde alla cosa, solida e certa. Il vero fondamento dello scetticismo di Pirrone è la negazione che la cosa sia cosa. Dall'India Pirrone riporta questo dubbio: non è possibile dire le cose, perché le cose né sono, né non sono, né sono né non sono (formula tipica della meontologia buddhista). Le cose sono fragili, e fragili sono le parole con le quali tentiamo di dire le cose. Il Discorso è il delirio di un pazzo. O di un ignorante. Questo è dunque scetticismo: negare la cosa e il nesso tra la cosa e la parola.

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Note a margine di La forza della nonviolenza di Judith Butler (Nottetempo, Milano 2020). Per Butler la nonviolenza va (ri?)fondata su: 1) la percezione del valore di qualsiasi vita, compresa quella non umana, 2) e dunque l'“impegno per un'uguaglianza radicale” (p. 90). Sullo sfondo della sua riflessione c'è il movimento Black Lives Matter. Non solo le vite delle persone afroamericane contano. Tutte le vite contano. E che contino vuol dire, per Butler, che sono ugualmente degne di lutto, che è un modo discutibile per dire che hanno valore: perché il lutto è un fatto antropologico, culturalmente variabile, ed è tutt'altro che certo che essere degno di lutto significhi la stessa cosa in Europa, Africa e Cina. Soprattutto, Butler lascia completamente al di fuori della sua trattazione la questione del valore della vita. Ha più di qualche ragione quando afferma che la sinistra non può lasciare il valore della vita ai movimenti pro-life, ma non dedica nemmeno un cenno alle complesse questioni filosofiche legate ad un'etica della vita. Tutte le vite hanno un eguale valore? La zanzara è degna di lutto quanto un essere umano? Non esiste nessuna gerarchia di valore tra esseri viventi? In nessun caso la soppressione della vita — di qualsiasi vita — è accettabile? E poi: se la nonviolenza ha bisogno di riconoscere il valore di ogni vita (in questo Butler è d'accordo con Capitini, che naturalmente ignora; così come sembra ignorare gran parte del pensiero nonviolento), della prassi nonviolenta non dovrà far parte anche la lotta per la liberazione delle vite non umane? Anche su questo Butler tace.

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Il re greco Menandro, che regnò nel secondo secolo a.C. su un territorio che comprendeva l’India del nord e l’attuale Pakistan, fu con ogni probabilità uno dei primi occidentali convertiti al buddhismo, grazie ai lunghi dialoghi con un saggio buddhista, Nagasena, registrati in uno dei testi più importanti del buddhismo antico, il Milindapañha (Milinda è il nome greco del re). Al re che gli chiede il suo nome, il saggio buddhista risponde di chiamarsi Nagasena, ma precisa che si tratta solo di una convenzione, “perché nessuna persona è presente qui” (Milinda’s Questions, Luzac & Company, London 1969, vol I, p.34). Il re resta sconcertato. Come può essere che Nagasena dica una cosa del genere? Come può essere che lì, di fronte a lui, dica di non esistere?

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