Capitalismo
Il capitalismo ha profonde radici nel nostro inconscio — o meglio, nella parte più antica, animale del nostro cervello. Per millenni la nostra specie ha dovuto combattere con la scarsità di cibo e di beni. È stata tormentata dallo spettro della fame, dal terrore della morte per inedia. Il capitalismo abolisce la scarsità, inaugura il regno dell'abbondanza. Esso è la realizzazione di quel regno della disponibilità assoluta la cui prefigurazione onirico-poetica è in quel sonetto in cui Dante sogna d'essere con i suoi amici e le donne amate “in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio”, senza alcun impedimento. È il sogno di un mondo da cui sia stata bandita qualsiasi negatività, in cui un desiderio si realizzi senza mediazioni, il cui il volere sia senz'altro realtà. Nella società dei consumi il volere si realizza prima ancora di essere espresso. La disponibilità di beni è tale da anticipare il desiderio. E la tecnica guida la specie verso la facilità assoluta: davvero il mondo è una nave che va secondo il nostro desiderio. La vista — anche la sola vista — dell'abbondanza di beni suscita un immediato senso di benessere e di rassicurazione. Può essere, naturalmente, che non si abbiano i soldi per acquistare tutti quei beni, che si sia esclusi dalla festa del benessere. Ma intanto si vive circondati da ogni bene. Il povero in una società capitalista è come l'ateo in una società nella quale la rassicurazione — in modo infinitamente meno efficace — sia affidata alla fede. Se non crede, è colpa sua. Basta che si converta per essere redento.