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anarchismo

Durante la nostra giornata attraversiamo spazi pubblici e luoghi privati. E' spazio pubblico la strada, è pubblico il parco, sono pubbliche le piazze. Sono spazi privati quelli che richiedono un biglietto d'accesso, o una tessera, o l'appartenenza a un gruppo o un atto di proprietà. Diamo per scontato che la nostra vita quotidiana debba avvenire anche in spazi privati. Nessuno pretende di entrare al cinema senza pagare il biglietto. Il problema però è l'equilibrio tra spazi pubblici, comuni, e spazi privati. Gli spazi comuni sono, in quanto tali, spazi che non generano ricchezza privata. Nessuno trae guadagno dalla frequentazione di una piazza o dall'occupazione di una panchina. In quanto tale, lo spazio pubblico e comune, in mancanza di una adeguata azione di resistenza, è destinato ad essere residuale. La logica stessa del capitalismo, che è quella della mercificazione totale dell'esistente, lo esige. Ed accade così che la semplice occupazione di una piazza, di una scalinata, di una panchina vengano combattute, apparentemente in mode della lotta al degrado. Di fatto, si trasformano le piazze e le strade da luoghi pubblici in spazi privati e commerciali, che è possibile fruire solo se si acquista qualcosa (sia pure solo un aperitivo al bar che ha i tavolini nella piazza).

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Il capitalismo ha profonde radici nel nostro inconscio — o meglio, nella parte più antica, animale del nostro cervello. Per millenni la nostra specie ha dovuto combattere con la scarsità di cibo e di beni. È stata tormentata dallo spettro della fame, dal terrore della morte per inedia. Il capitalismo abolisce la scarsità, inaugura il regno dell'abbondanza. Esso è la realizzazione di quel regno della disponibilità assoluta la cui prefigurazione onirico-poetica è in quel sonetto in cui Dante sogna d'essere con i suoi amici e le donne amate “in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio”, senza alcun impedimento. È il sogno di un mondo da cui sia stata bandita qualsiasi negatività, in cui un desiderio si realizzi senza mediazioni, il cui il volere sia senz'altro realtà. Nella società dei consumi il volere si realizza prima ancora di essere espresso. La disponibilità di beni è tale da anticipare il desiderio. E la tecnica guida la specie verso la facilità assoluta: davvero il mondo è una nave che va secondo il nostro desiderio. La vista — anche la sola vista — dell'abbondanza di beni suscita un immediato senso di benessere e di rassicurazione. Può essere, naturalmente, che non si abbiano i soldi per acquistare tutti quei beni, che si sia esclusi dalla festa del benessere. Ma intanto si vive circondati da ogni bene. Il povero in una società capitalista è come l'ateo in una società nella quale la rassicurazione — in modo infinitamente meno efficace — sia affidata alla fede. Se non crede, è colpa sua. Basta che si converta per essere redento.

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Il capitalismo fa dell'uomo un consumatore. Acquistare, consumare, acquistare di nuovo, e di nuovo consumare, all'infinito, è l'atto antropologico più significativo dell'homo sapiens nell'era del capitalismo. Le radici di questa passione consumistica — nel duplice semplice del termine: come movente e come sofferenza — vanno cercate nel cristianesimo. Che è la religione — l'unica — che fa di Dio un prodotto di consumo e dell'uomo un consumatore di Dio. L'ordine del mondo, notava con raccapriccio il pagano Celso, viene sconvolto. Non è l'uomo che va a Dio, come è giusto che sia, poiché l'uomo è uomo e Dio è Dio. È Dio che va all'uomo. E muore per lui. E viene smembrato, mangiato, bevuto. E ancora, e ancora, all'infinito. Lo smembramento del Divino naturalmente non è un tema nuovo nelle religioni, da Zagreus a Prajapati eccetera, ma è il cristianesimo che ha fatto del consumo di Dio una pratica quotidiana, condivisa al di fuori dei circoli iniziatici. Il cristianesimo offre all'occidente la pratica del consumo assoluto, definitivo: il consumo di Dio stesso. Dopo la morte di Dio e la fine del cristianesimo, la pratica e la pretesa del consumo assoluto sopravvivono appunto del capitalismo, con il quale è l'essere stesso, inteso come totalità di quello che è esperibile, che si offre sotto forma di cosa consumabile. Essere è essere disponibile al consumo. E l'essere dell'uomo consiste nell'approfittare di questa disponibilità, nell'incorporare ciò che si offre. La lunga pratica della teofagia ha messo capo alla morte di Dio: perché nemmeno Dio è infinitamente consumabile. La lunga pratica dell'ontofagia condurrà alla semplice distruzione del mondo in cui viviamo.

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Non c'è posizione che si collochi agli antipodi della mistica più dell'individualismo anarchico. Per il quale bene è sviluppare il proprio io, cercare il piacere e la gioia di vivere, moltiplicare le proprie esperienze. Scrive Émile Armand: “L'individualista, l'al-di-fuori, apprezza la gioia di vivere, la vita del cervello, del sentimento, dei sensi, la vita delle grandi città come quella del casolare sperduto nella campagna. Tutto egli gusta e nulla respinge all'infuori di ciò che non coincide col suo temperamento, il suo carattere, le sue asprazioni, la sua sete di realtà” (Iniziazione individualista anarchica, Amici Italiani di Armand, Firenze 1956, p. 127). Costante è, in Armand, la polemica contro il pessimismo, l'ascetismo, l'annullamento dell'io. E tuttavia se il bene è l'esperienza, perché negare questa unica esperienza – il trascendimento, appunto, l'attraversamento dell'io, l'estasi? Si potrà contestare che questa sia l'esperienza più alta per un essere umano, che in essa consista la liberazione, che essa ci metta in contatto con qualcosa di decisivo. Non si può negare che essa sia tuttavia una esperienza. Ed una esperienza che non comporta alcun dominio dell'uomo sull'uomo – unico limite all'esperienza per Armand: non si è liberi di dominare l'altro – ma che al contrario appartiene da sempre a quegli en-dehors che sono gli eretici e i mistici e gli eretici: l'azzardo che ha portato sul rogo Margherita Porete e sulla croce Al-Hallaj.

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Rileggo, nel giorno in cui giunge la notizia della morte di David Graeber, i suoi Frammenti di antropologia anarchica (Elèuthera, Milano 2004; e scopro peraltro che la traduzione è del compagno Alberto Prunetti). Mi ero segnato allora questo passo (p. 47):

[...] “Che cos'è un'azione rivoluzionaria? Ecco la nostra risposta: un'azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali, anche all'interno della collettività.

A rileggere ora, quello che manca è la distinzione tra potere e dominio, che per me è un punto fondamentale per pensare oggi l'anarchia. Se potere è male, come il dominio, allora non devo esercitare io nemmeno alcun potere; e dunque devo accettare il potere/dominio senza alcuna ribellione. Ma il dominio, come insegna Dolci, è la degenerazione del potere; e l'azione politica urgente è appunto questa: costruire una società nella quale le relazioni di potere sostituiscano le relazioni di dominio.

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Anarchism seeks radical freedom, and believes that it is freedom from the State, from bourgeois law, from exploitation, from convictions, from the constraints of custom. Buddhism teaches that radical freedom is freedom from the ego: and therefore freedom from the very idea of ​​freedom. And freedom from buddhism, freedom from anarchism.

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L'anarco-individualismo è ancora archismo. All' ἀρχή esterna – all'Origine divina e a qualsiasi entità esteriore che poggi su di essa – contrappone l' ἀρχή interna, ignorando che essa in Occidente si è formata nell'armatura di quell'Origine, senza della quale non esisterebbe. Tolta l'armatura, pretende di prenderne il posto, piuttosto che riconoscere la sua inconsistenza, dopo aver riconosciuto, proclamato l'inconsistenza dell'Origine. L'annuncio della morte di Dio è ancora poca cosa. Quel che occorre sapere è che la morte di Dio comporta altre due cose: la morte della sostanza, la fine della cosa come l'abbiamo sempre intesa in Occidente, e la fine dell'io. Il più rivoluzionario dei filosofi moderni è Hume, ben prima di Nietzsche; e Nietzsche solo negli ultimi scritti giunge a cogliere la morte dell'io. Anarchismo è la negazione di ogni fondamento. Dio, la sostanza, l'io.

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@naciketas@mastodon.uno

Chiamo archismo la concezione di una Origine da cui il mondo proviene e su cui poggia. Questa origine è Bene, e il mondo, fondato su di essa, è stabile. Questa stabilità è sancita dal concetto di sostanza. Chiamo anarchismo la negazione di questa Origine, che può avvenire in due modi: negare semplicemente che esista o opporsi ad essa. Poiché in Occidente questa origine è Dio, l'anarchismo è ateismo. Ma è possibile pensare Dio anche come anti-origine (Ferdinando Tartaglia). In questo caso l'anarchismo può essere conciliabile con una fede; ma parlare di Dio può essere in questo caso inopportuno. Se togliamo l'Origine, togliamo anche la sostanza. Tre posizioni: considerare l'io un correlato soggettivo della sostanza, di cui liberarsi dopo essersi liberati della prima (buddhismo, advaita vedanta); muoversi, appunto, verso un'antiorigine (Tartaglia, appunto, e Capitini; Lévinas); considerare (ancora: buddhismo) irrilevanti tutte le questioni ontologiche, affrancarsi da esse con la consapevolezza che le categorie metafisiche non erano che appoggio alla violenza sociale, e cercare una società che scaturisca fuggendo (per dirla con Heidegger) dalla negazione dell'Origine.

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