Il giusto mezzo
Da una mail a un maestro zen.
Il pensiero del Buddha va interpretato, mi pare, in relazione con tre cose: Una concezione rituale, sacrificale e in qualche modo misterica della salvezza. Una concezione gnostica della salvezza. Una concezione ascetica della salvezza. La prima è quella della tradizione brahmanica, contro la quale l'opposizione del Buddha è dura e decisa. Da un lato, rifiutando apertamente qualsiasi linguaggio oscuro, evocativo, qualsiasi trasmissione esoterica, ed enfatizzando il carattere verificabile – ehipassiko – del suo messaggio. Dall'altro, eticizzando i rituali. Sono non pochi i sutra nei quali un brahmano interroga il Buddha su questo o quel rituale, e il Buddha propone una nuova versione del rituale che consiste nel compiere azioni etiche. Ashoka farà la stessa cosa, ma con l'autorità di un imperatore. Dunque: non ci si salva con i rituali; piuttosto occorre fare il bene. La seconda concezione è quella del Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano. La salvezza si ottiene grazie alla conoscenza del carattere illusorio di questo mondo e alla discriminazione di Spirito (Purusha) e Natura (Prakriti). Su questa base si innesta la terza concezione, quella ascetica dello Yoga classico di Patanjali. Non basta la conoscenza, occorre separare lo Spirito dall'elemento materiale attraverso una serie di pratiche di riduzione. Ora, è impossibile appurarlo, per via dei noti problemi di datazione dei testi indiani, ma è probabile che il giovane Siddhattha, prima di diventare il Buddha, sia entrato in contatto con tutte queste concezioni. Stando ad Ashvagosha, i maestri di Siddhattha gli avrebbero insegnato ad entrare in stati di assorbimento meditativo sempre più raffinati, in modo da svincolare lo Spirito dal corpo. Il Buddha rifiuta questa via, perché – sempre stando ad Ashvagosha – ritiene che la credenza nell'esistenza di uno Spirito sia fonte di nuovo attaccamento. E tuttavia resta, per così dire, nei paraggi: anche per il Dharma del Buddha la liberazione è questione, insieme, di conoscenza e di ascesi (nel senso etimologico di esercizio). Se ne differenzia in due punti, che hanno a che fare con il giusto mezzo. Il primo è appunto quello dell'ascesi. Dal momento che non esiste uno Spirito da liberare dal corpo, non c'è in realtà nessuna necessità di mortificare il corpo. Per questo il Buddha condanna le rigide pratiche ascetiche diffuse al suo tempo. Mi pare che la funzione dell'ascesi nel buddhismo sia solo quella di evitare la proliferazione del desiderio, che è fonte di eccitazione ed agitazione e impedisce la meditazione. Da questo punto di vista, la via del Buddha sembra essere realmente una via di mezzo tra l'ascesi mortificante e la vita dell'uomo e dalla donna comuni. L'altra questione è quella della conoscenza. Qui il Buddha, come lei nota giustamente, si pone al di fuori di ogni estremo, né si può dire che si collochi nel mezzo. Al tempo del Buddha – lo vediamo dai sutra – c'erano infiniti dibattiti, in particolare tra i seguaci dei diversi shramana, primi fra tutti quelli di Mahavira, che appare come il principale interlocutore/avversario del Buddha. La salvezza è questione di conoscenza, ma non di teoria. Per questo il Buddha resta in silenzio quando gli fanno domande che richiedono risposte teoriche. E la ragione non è diversa da quella che lo ha condotto a rifiutare la soluzione dei suoi primi maestri: come la concezione di un Sé o di uno Spirito, così qualsiasi teoria diventa fonte di attaccamento e si risolve in un ostacolo alla liberazione. Quindi né A né non A. Né eternalismo né nichilismo, né affermazione né negazione del Sé, eccetera; e nemmeno la posizione intermedia tra questi due estremi.