Il Buddha, Schopenhauer, Nietzsche

Il Buddha avrebbe disapprovato per più ragioni il pensiero di Schopenhauer; prima fra tutte, per la metafisica del Wille. Il Buddha resta sempre sul piano pragmatico: c'è la sofferenza, la sofferenza nasce dal desiderio, il desiderio nasce dall'ignoranza. Qualsiasi questione metafisica è inopportuna. Pensare che esista un Dio, un Essere o un Qualsiasi-altro non aggiunge nulla al lavoro per la liberazione, e rischia di togliere molto: perché questo fondamento metafisico, qualunque sia, diventa nuova fonte di attaccamento. Schopenhauer compie dunque una operazione occidentale sul tema buddhista — ma più generalmente indiano — della liberazione dalla sofferenza. Sposta l'origine della sofferenza su un piano metafisico. Ma fa anche una cosa profondamente innovativa: fa di questo fondamento metafisico della nostra sofferenza un Principio dal quale allontanarsi. L'etica del Mitleid è un etica dell'allontanamento. Operare il bene non è più, come in tutta la tradizione occidentale, aderire all'essere e al suo fondamento, ma allontanarsene: in qualche modo, ribellarsi. (Una operazione simile è compiuta in modi diversi, nel pensiero italiano, da Ferdinando Tartaglia e dall'empietismo di Manlio Sgalambro). Ma se Wille è l'essenza del reale, il noumeno, non bisognerà aderirvi, piuttosto che allontanarsene? Non è un atto di vigliaccheria e debolezza, più che di ribellione, allontanarsi dal Wille? Non è allontanarsi dalla vita? Ed ecco Nietzsche, con il suo essere al di là del bene e del male. Ecco la sua pretesa trasmutazione di tutti i valori. Che in realtà fa un passo indietro rispetto a Schopenhauer, e che si inserisce pienamente nella tradizione occidentale. L'agire di Nietzsche è al di là del bene e del male perché la realtà è al di là del bene e del male. C'è ancora una fondazione metafisica dell'etica, benché si tratti di un'etica che intende porsi oltre e contro i valori occidentali.

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