Il capitalismo compiuto

Durante la nostra giornata attraversiamo spazi pubblici e luoghi privati. E' spazio pubblico la strada, è pubblico il parco, sono pubbliche le piazze. Sono spazi privati quelli che richiedono un biglietto d'accesso, o una tessera, o l'appartenenza a un gruppo o un atto di proprietà. Diamo per scontato che la nostra vita quotidiana debba avvenire anche in spazi privati. Nessuno pretende di entrare al cinema senza pagare il biglietto. Il problema però è l'equilibrio tra spazi pubblici, comuni, e spazi privati. Gli spazi comuni sono, in quanto tali, spazi che non generano ricchezza privata. Nessuno trae guadagno dalla frequentazione di una piazza o dall'occupazione di una panchina. In quanto tale, lo spazio pubblico e comune, in mancanza di una adeguata azione di resistenza, è destinato ad essere residuale. La logica stessa del capitalismo, che è quella della mercificazione totale dell'esistente, lo esige. Ed accade così che la semplice occupazione di una piazza, di una scalinata, di una panchina vengano combattute, apparentemente in mode della lotta al degrado. Di fatto, si trasformano le piazze e le strade da luoghi pubblici in spazi privati e commerciali, che è possibile fruire solo se si acquista qualcosa (sia pure solo un aperitivo al bar che ha i tavolini nella piazza). L'aumento di spazi privati a danno di quello pubblici — e bisogna aggiungere: di servizi privati al posto di quelli pubblici — richiede una disponibilità economica per ottenere la quale bisogna aumentare l'impegno lavorativo. Una società interamente privatizzata è una società nella quale occorre molto denaro per accedere nei luoghi privati e per ottenere i servizi commerciali di cui abbiamo bisogno. Una quantità immensa di lavoro, vale a dire di energie, di tempi, di esperienza personale, diventa necessaria per ottenere di vivere in uno spazio sociale. Perché di questo si tratta. Lo spazio pubblico, ormai privatizzato, è pure lo spazio in cui è possibile fare esperienze sociali; ma se questo spazio è privatizzato, la possibilità stessa di fare esperienze sociali è un fatto commerciale. Nelle società caratterizzate dalla mancanza di beni primari, la maggior parte delle persone lavoravano molto per la semplice sopravvivenza. Nella società caratterizzata da quella che Murray Bookchin chiama post-scarcity, nelle società ricche e tecnologicamente avanzate, accede sempre più che si lavori per la semplice sopravvivenza sociale. Per esistere nella dimensione pubblica occorre acquistare l'ingresso in spazi privati. Questo processo, che per forza di cose incontra limiti nella realtà fisica, si è invece pienamente realizzato in quella virtuale. Se si cerca l'anima stessa del capitalismo avanzato, bisogna cercarla non in Amazon, ma in Facebook. Il capitalismo, se potesse, trasformerebbe ogni luogo in luogo privato ed ogni esperienza umana in esperienza commerciale. Ora, è esattamente quello che accade in Facebook. La vita sociale delle persone avviene, in Facebook, in uno spazio interamente proprietario. La stessa casa privata, ossia il profilo individuale, è di proprietà di Facebook. Tutte le esperienze che si fanno su Facebook sono finalizzate alla creazione di valore commerciale. Tutta la vita delle persone che fanno parte del sistema serve a generare ricchezza privata. Facebook realizza il sogno di una realtà interamente plasmata dal capitale. Come se tutto ciò che esiste — le città, i prati, i fiumi, le spiagge e il mare — fosse una proprietà privata concessa solo a condizione che tutto ciò che vi facciamo serva a generare capitale: che si tratti di amare o odiare, di essere felici o tristi, di nascere o morire. Qualsiasi esperienza umana genera profitto. Ed è questo il suo senso, su Facebook. Ora, l'esperienza di molte persone avviene ormai su due binari paralleli: la cara vecchia realtà fisica e quella social. Il tempo dedicato a Facebook erode la vita reale di molte persone; una esperienza fisica pare perfino incompleta, se non completata dalla condivisione sul social. La stessa politica è ormai inconcepibile senza Facebook. Un politico che non sappia gestire i social difficilmente vincerebbe le elezioni. La politica, cioè, dipende sempre più da quello che le persone scrivono in uno spazio privato e commerciale e sempre meno da ciò che dicono nei comizi nella piazza pubblica. Nella misura in cui apparteniamo a Facebook, diamo il nostro contributo individuale alla distopia di mondo interamente in vendita: il capitalismo compiuto.

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