Il paradosso di Spinoza

Difficile trovare nella storia della filosofia qualcosa di più cupamente pessimistico del Tractatus Politicus di Spinoza. È la riflessione di un uomo i cui amici sono stati linciati e squartati in piazza da una folla inferocita. E dunque: homines natura hostes, e questa loro natura feroce tende a venir fuori anche quando sono ristretti in una società civile (VIII, 12). Qualunque cosa l'essere umano faccia, fa parte della natura: che uccida o ami. Il sapiente e l'ignarus sono del tutto uguali davanti alla natura; quello che fa il primo non si distingue da quello che fa il secondo (II, 8). Nell'Etica ha indicato una via d'uscita, la possibilità di una vita libera e razionale. Ora sembra che la sua fiducia si scontri con un paradosso che non è diverso dal paradosso della fede cristiana. Perché per salvarsi occorre la fede, ma nessuno può acquisire da sé la fede; è grazia divina. Lo stesso vale per la ragione (ed è significativo che il paradosso emerga proprio in un passo in cui polemizza con i credenti). Alcuni, scrive, pensano l'essere umano come una creatura diversa dalle altre — veluti imperium in imperio concipiunt —, ma l'esperienza insegna quod in nostra potestate non magis sit, Mentem sanam, quam corpus sanum habere (II, 6). Non abbiamo il potere di rendere sana la nostra mente, più di quanto non abbiamo il potere di darci da soli la salute del corpo (un argomento che nell'Anattakhalana Sutta il Buddha usa per dimostrare che non c'è identità né nel corpo né nella mente). Nessuno può fare in modo che vi sia in lui ragione, se la ragione non c'è. Non si può scegliere la ragione più di quanto si possa scegliere la fede. E tutto quello che c'è da dire, alla fine, è che trahit sua quemque voluptas: ognuno è trascinato dal piacere.

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