La religione capitalistica

Il capitalismo fa dell'uomo un consumatore. Acquistare, consumare, acquistare di nuovo, e di nuovo consumare, all'infinito, è l'atto antropologico più significativo dell'homo sapiens nell'era del capitalismo. Le radici di questa passione consumistica — nel duplice semplice del termine: come movente e come sofferenza — vanno cercate nel cristianesimo. Che è la religione — l'unica — che fa di Dio un prodotto di consumo e dell'uomo un consumatore di Dio. L'ordine del mondo, notava con raccapriccio il pagano Celso, viene sconvolto. Non è l'uomo che va a Dio, come è giusto che sia, poiché l'uomo è uomo e Dio è Dio. È Dio che va all'uomo. E muore per lui. E viene smembrato, mangiato, bevuto. E ancora, e ancora, all'infinito. Lo smembramento del Divino naturalmente non è un tema nuovo nelle religioni, da Zagreus a Prajapati eccetera, ma è il cristianesimo che ha fatto del consumo di Dio una pratica quotidiana, condivisa al di fuori dei circoli iniziatici. Il cristianesimo offre all'occidente la pratica del consumo assoluto, definitivo: il consumo di Dio stesso. Dopo la morte di Dio e la fine del cristianesimo, la pratica e la pretesa del consumo assoluto sopravvivono appunto del capitalismo, con il quale è l'essere stesso, inteso come totalità di quello che è esperibile, che si offre sotto forma di cosa consumabile. Essere è essere disponibile al consumo. E l'essere dell'uomo consiste nell'approfittare di questa disponibilità, nell'incorporare ciò che si offre. La lunga pratica della teofagia ha messo capo alla morte di Dio: perché nemmeno Dio è infinitamente consumabile. La lunga pratica dell'ontofagia condurrà alla semplice distruzione del mondo in cui viviamo.

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