Lettera a una studentessa delusa dagli esami
Cara *, gli esami di Stato non sono andati come speravi ed ora ti senti delusa, amareggiata, arrabbiata. Hai l’impressione che l’impegno di anni non sia servito a nulla e che la scuola ti abbia ingannata. Hai ragione, e comprendo perfettamente la tua rabbia. Non ti scrivo per cercare di lenirla, ma per continuare il discorso di questi cinque anni: e cercare insieme qualche conclusione. Ragioniamo di esami. Li amo poco, come amo poco tutto ciò che serve a creare gerarchie, vincitori e vinti, primi secondi e terzi. Io sono per i giochi a somma positiva, quelli nei quali vincono tutti. E così penso un po’ la scuola. Io metto sul tavolo quello che so, tu quello che sai tu. Io quello che penso, tu quello che pensi tu. E ragioniamo insieme, cerchiamo insieme, scaviamo insieme. Ci arrichiamo insieme. Ma questo non basta. La scuola ha bisogno di classificare – in alcune scuole gli studenti vengono addirittura divisi in tre fasce: i bravi, quelli così così, i pessimi. In questi giorni di esami mi è sembrato un po’ di essere un giudice di uno di quei talent show che vanno di moda. Lo studente si esibisce, noi lo premiamo o lo penalizziamo. Ho detto si esibisce. Perché di questo si tratta: una esibizione. Noi docenti siamo sempre molto critici verso gli spettacoli televisivi, è sottocultura, robaccia popolare contro cui la scuola deve resistere. E forse è vero. Ma ci sfugge che la logica della scuola, quale si mostra negli esami, è la stessa di certi penosissimi concorsi televisivi. In un concorso di bellezza non vince la più bella (e chi può dire, del resto, cos’è davvero la bellezza?) Vince quella che incontra meglio i canoni estetici correnti. Canoni che io non condivido affatto. Mi piacciono molto quei visi femminili che hanno qualcosa di irregolare, e mi fa molta rabbia che alcune donne sentano di dover correggere certi tratti distintivi della loro bellezza ricorrendo al chirurgo estetico. Ora, la scuola non funziona diversamente. Lo studente che ne esce vincitore non necessariamente è il migliore. È semplicemente lo studente che incontra i canoni culturali della scuola. Ma, ecco, questi canoni sono perfino più discutibili dei canoni di bellezza dominanti. Noi docenti ci consideriamo i depositari dell’unico sapere legittimo ed ostentiamo disinteresse verso qualsiasi manifestazione culturale che non abbia il sigillo dell’ufficialità. I docenti di italiano sono sempre prodighi di consigli sui libri da leggere, ma Wattpad no, non lo leggono. Wattpad è spazzatura: può forse un docente perdere tempo a leggere il diario di una quindicenne? Fuori dalla scuola, però, le cose vanno diversamente. Scolastico, fuori dalla scuola, è un aggettivo che non qualifica granché. Se scrivi nel tuo curriculum che hai una conoscenza scolastica dell’inglese non fai una bella figura. Scolastico, dice il dizionario Treccani, vuol dire “elementare e meccanico, legato a schemi rigidi e convenzionali, privo o scarso di rielaborazione critica e poco personale”. Ecco, ci siamo. Non so ad esempio quante volte, durante questi esami di Stato, ho sentito dire che Schopenhauer è un filosofo irrazionalista. Ma davvero? Solo perché dice che al fondo della realtà non c’è una Ragione? Ma allora siamo tutti irrazionalisti. Allora lo era anche Darwin, per dire. La scuola procede così. Mette etichette ovunque, e pensa che questo etichettamento sia il sapere. Questo modo di procedere meccanico, schematico, misero è parte significativa del canone scolastico. Un tale pseudo-sapere dev’essere presentato poi in un certo modo. Se qualcuno mi chiedesse di parlare, che so, di Platone, io avrei bisogno di qualche tempo per raccogliere le idee. Platone lo conosco bene, credo, ma i discorsi non si improvvisano. Uno studente no, non può raccogliere le idee. Deve partire subito e non deve mai fermarsi. Deve andare dritto come un treno. Questo pseudo-discorso viene premiato con i voti più alti. Voti che premiano la simulazione del sapere, non il sapere. C’è poi l’aspetto umano. Quello che si chiede allo studente di essere. Sono anni che durante gli scrutini discuto il voto di condotta. Immancabilmente i voti più alti vanno agli studenti più silenziosi. Che stanno lì buoni buoni. Questo si chiede in fondo a uno studente. Di star lì zitto. Mentre io metterei il massimo a uno studente che mi contesta. Perché è vivo, e perché contestare è una delle cose che vorrei che la scuola insegnasse. Vedi cosa premia un voto alto agli esami di Stato. Il fatto che lo studente – che, sia chiaro, può essere brillantissimo – incontra il canone culturale della scuola. Che è un canone che può, che deve essere discusso. E dunque: è legittima la tua rabbia, ma procedi oltre. Comprendi che in primo luogo stai riconoscendo l’autorità di qualcuno su di te. Riconosci a noi il diritto di dirti quanto vali, quanto è solida la tua cultura, quanto reale è la tua passione. Ma al punto in cui sei non devi riconoscere nessuna autorità al di fuori di te stessa. Una volta questi esami si chiamavano esami di maturità. E la maturità consiste un questo. Siii fiera, sicura, orgogliosa di te stessa. In secondo luogo, discuti la scuola. Discuti il suo canone culturale, la sua miseria relazionale, i suoi rituali ridicoli. Discuti un sistema vecchio, stanco, che non ha mai davvero saputo rinnovarsi. Una chiesa il cui Dio è morto da un pezzo, ma che ancora si crede l’unica via di salvezza. E discuti me, prete ateo, che da quella chiesa non sa staccarsi. Perché? Perché a volte i volti si incontrano perfino lì. Ed è l’unica cosa che conta.
Gli Stati Generali, 24 giugno 2020.