Fottete i social network
Ho fatto un sogno, stanotte. Uscivo di casa e salutavo il vicino, e in quello stesso istante compariva l’immagine di un tizio seduto accanto a un enorme salvadanaio; in seguito a quel mio gesto, una monetina vi era finita dentro. Dlin! Dopo il saluto al vicino proseguivo con il mio cane verso il parco del quartiere. Qui il cane socializzava con altri cani, con i cui padroni scambiavo qualche chiacchiera. Ed ecco ancora l’immagine del tizio con il salvadanaio, in cui finivano una, due, tre monetine. Dlindlindlin! Mi sono svegliato agitato e perplesso. Che avrà voluto dire quel sogno? Mi sono riaddormentato e, come succede, ho sognato il seguito. Ma questa volta era un incubo. Ero sul letto di morte e mi accorgevo con tristezza infinita che tutta la mia vita non era stata che uno strumento per consentire al tizio del salvadanaio di arricchirsi a dismisura. Tutto era solo un mezzo. I miei amori, i miei odi, le mie passioni, i miei viaggi, il mio privato. Tutta la mia vita, ecco, era servita solo a far sì che quel salvadanaio crescesse sempre più, straripasse, tendesse all’infinito. Scrivevo questa tardiva rivelazione su un foglio che consegnavo a qualcuno, e in quell’istante l’ultimo dlin! mi confermava che fino all’ultimo respiro sarei rimasto in una gabbia d’acciaio. Il sogno e l’incubo, l’avrai capito, sono artifici retorici. Da qualche tempo viviamo due vite parallele. La prima è quella di sempre, per la quale usiamo la parola realtà, anche se da tempo i filosofi ci avvisano che la realtà potrebbe non essere proprio come appare. La seconda è la realtà cosiddetta virtuale. La realtà alla quale accediamo con il computer e lo smartphone, che sta diventando sempre di più un vero e proprio senso tecnologico in aggiunta ai cinque corporei. Le due vite si intrecciano di continuo. Ogni esperienza viene immediatamente tradotta nel campo virtuale. Una uscita con gli amici sembra incompleta se non vengono immediatamente pubblicate le foto su Facebook. Vivere è postare. Testimoniare, documentare, condividere. La nostra cara vecchia realtà sociale ha grandi limiti. Non è libera. In molti, moltissimi posti non è possibile entrare se non si hanno i soldi necessari, così come senza i soldi necessari non è possibile fare molte cose. Molte persone impiegano circa un terzo della propria giornata per guadagnare l’indispensabile per vivere e consentire ad altri di arricchirsi; il tempo libero lo sprecano spendendo i soldi così guadagnati per acquistare cose o per svolgere attività di cui il sistema li convince di aver bisogno, consentendo ad altri di arricchirsi. Gli spazi liberi sono pochi, e si riducono sempre più. E tuttavia qualcosa di libero resta. Anche in una società radicalmente mercificata è possibile fare qualcosa che sfugga allo scambio economico. Negli anni Novanta ci sembrò che Internet aprisse spazi di libertà. Era possibile creare, collaborare, scrivere usando strumenti gratuiti. Bastavano un modem e un abbonamento per accedere al regno dell’espressione libera. Era l’epoca dei blog, dei canali IRC, dei gruppi di discussione. Non è durata a lungo. Già nei primi anni Duemila c’è stato un impoverimento della webdiversità – permettetemi il termine – con la creazione di grandi colossi che gestivano ogni cosa. Poi sono arrivati i social network e gli smartphone, ed è cambiato tutto. Continuiamo a fare molte cose in rete, ma per lo più siamo sui social network. Più di due miliardi e mezzo di persone sono su Facebook. Molte di queste vivono, letteralmente, su Facebook. Si svegliano al mattino, fanno colazione e vanno su Facebook a vedere cos’è successo. Costruiscono lì la loro vita sociale, fanno lì una parte significativa delle loro esperienze. Per molti, non essere su un social network significa non esistere. Politicamente, è già così. Un politico che non sia presente sui social network è quasi automaticamente fuori gioco. Perché è sui social network che si costruisce il discorso pubblico. La cosa gravissima che sta accadendo dovrebbe essere evidente. I social network diventano una parte importante della realtà. Una realtà nella realtà, ma forse bisognerebbe dire una realtà che ingloba, impregna e trasfigura la realtà. Ma questa realtà non è libera. È una impresa privata a scopo di lucro. Immaginate che tutto il mondo appartenga a qualcuno. Una singola persona o una compagnia. Immaginate che siano proprietà di una impresa commerciale il parco sotto casa, la scuola dei vostri figli, le piazze, i negozi. Immaginate che le nostre città e perfino le nostre case ci siano date in concessione, perché abitarle e viverle – vivere!– serve a far funzionare il business di quella impresa. Che però in qualsiasi momento può cacciarci di casa o metterci a tacere. Senza che sia possibile avere spiegazioni. Perché si tratta di una impresa, non di una collettività democratica. La vita stessa delle democrazie dipende da ciò che milioni di persone fanno e dicono in una realtà sociale che sfugge a qualsiasi controllo democratico e persegue interessi commerciali. Detesto i toni apocalittici senza i quali pare che non si possa fare filosofia radicale. Mi sembra però che non si possano negare i pericoli spaventosi del mondo che stiamo creando. Ci stiamo consegnando a una nuova forma di potere. Il potere cerca da sempre di far presa sulla realtà, di piegarla a sé, di governarla. Nel potere totalitario questa presa è ferrea, e tuttavia qualcosa sfugge. Sempre. Così come qualcosa sfugge all’universale mercificazione. Ora stiamo andando verso un potere che non ha più bisogno di piegare la realtà, perché la realtà la crea. E crea te stesso. Esisti nella misura in cui hai un profilo, una lista di amici, possibilmente lunga, una rete di relazioni virtuali. Senza questo profilo, che si aggiunge al tuo volto e si sovrappone ad esso, ti senti vuoto. E di fatto lo sei. La tua maschera social consuma il tuo volto, così come l’imperativo della condivisione consuma, svuota, svilisce le tue possibilità di fare una esperienza viva della realtà. E dunque: fottete i social network, prima che i social network fottano voi.
Gli Stati Generali, 21 giugno 2020.