z1x

Portabandiera ai Giochi Olimpici e presentatrice di Sanremo, nera, bisessuale, probabilmente la più forte del mondo nel suo ruolo (concetto sempre opinabbile e a volte anche poco utile), tra salti impressionanti ed errrori nei momenti chiave delle partite.

Paola Egonu, forse senza volerlo, è la più nota, chiacchierata, importante sportiva italiana da quando Federica Pellegrini ha lasciato l'agonismo. Classe 1998 (nata a dicembre per altro, quindi ha appena compiuto 24 anni), la sua carriera è ancora in parabola ascendente, ma è già “donna copertina” (non solo metaforicamente) per lo sport italiano. Di conseguenza ogni sua azione, parola, decisione scatena commenti e opinioni.

Per ragioni puramente “territoriali” mi è capitato di seguirne l'ascesa, anche se da lontano, con attenzione.

Anche agli inizi degli anni duemila, come succede oggi, in giro per l'Italia la federvolley organizzava i “Regional Day”. Un intenso pomeriggio in cui l* miglior* giovan* prospett* del volley si ritrovano per una lunga e affollata sessione in palestra sotto gli occhi dei tecnici federali. Ricordo questa ragazzina, un sottile giunco ornato di lunghe trecce, con la maglia del suo club, il Team Volley di Galliera Veneta, farsi notare. Un'amica allenatrice sconsolata a fine allenamento si rammaricava: “Ero venuta per vedere la ragazzina di Galliera, ma Mencarelli mi sa che se la porta via”. E Mencarelli se l'è portata via, a Milano...

Il Club Italia è una struttura gestita dalla federazione in cui le giovani pallavoliste oltre ad allenarsi vivono. Lontano da casa, anche da ragazzine, studiano e giocano. Una situazione ideale per chi ha voglia e motivazioni, ma che può essere anche molto difficile da affrontare. Senza arrivare agli eccessi del Centro Federale della ginnastica ritmica, comunque un ambiente che non è “per tutt*“.

La squadra del Club Italia gioca anche nei campionati federali e proprio con Egonu in squadra arriva fino alla serie A. Nel 2015 arriva la promozione, nell'anno che vede Egonu mettersi in luce ai mondiali under 18 in Perù. Titolo iridato per l'Italia, per lei titolo di mvp della manifestazione e di miglior opposto del torneo. Il primo di una lunga serie di importanti riconoscimenti personali.

La ragazzina non è ancora conosciuta, ma il successo vale una “gita” fino a Galliera Veneta, per intervistare lei e chiacchierare con la famiglia. Qualche mese prima le avevo parlato, al volo, a margine di un allenamento congiunto tra le azzurre di Marco Bonitta e una rappresentativa Ncaa. Poche parole, lei era “ospite” nel gruppo della nazionale maggiore. Erano bastate solo per ringraziare la sua prima allenatrice (Fabiola Bellù recentemente scomparsa), per “averle insegnato a stare in palestra”.

L'appuntamento per l'intervista è alla palestra. Arriva una ragazza, giovane, che sta sulle sue senza apparente entusiasmo, un pizzico strafottente forse. Sicuramente un* adolescente che, intervista o no, il sabato pomeriggio preferiva fare altro rispetto a una noiosa intervista. Magari non immaginava ancora che si sarebbe dovuta abituare a tutto questo (e non solo). In effetti però ci sono adolescenti decisamente più scazzati senza essere campioni del mondo.

Intanto chiacchiero anche con il padre. Galliera Veneta non è stata, da quanto mi racconta, la prima scelta. Dalla Nigeria è arrivato in quella che allora era la Jugoslavia. Non un buon posto per lavorare, nei primi anni novanta, anche se la Slovenia non era la Bosnia: All’inizio sono arrivato in Jugoslavia per studiare – [spiega il padre] – Poi sono passato prima dalla Grecia, quindi nel 1993 sono arrivato in Italia e dopo qualche anno ho trovato casa e lavoro da queste parti».

Alla fine l'intervista va bene, Paola Egonu è disponibile, risponde alle domande, anche a quelle non prettamente sportive:

«Egonu si è emozionata per l'oro dell'Italia, ha cantato l'inno di Mameli, come tutti gli italiani, anche se i suoi genitori sono nati in Nigeria. Non è una novità per lo sport e in particolare la pallavolo, ma qualcuno fuori dalle palestre non sembra abituarsi. «Nello sport non ho mai vissuto episodi di razzismo. Fuori sì, ancora adesso se sono fuori a fare due passi con mia sorella o qualche amica cogliamo qualche parola, qualche commento. Capita ancora di essere insultati per strada, non è bello».

Quello che ha raccontato a Sanremo non è legato alla notorietà, alle copertine, alle vittorie o alle sconfitte.

nb: racconto basato sui ricordi personali diretti, magari c'è qualche imprecisione sui dettagli. Le citazioni sono tratti dagli articoli usciti al tempo

Metà degli anni novanta, in città si gioca una campagna di Vampiri “live”. Una sera a settimana in un locale si ritrovano dei ragazzi (dai ventenni agli ultra trentenni, ovviamente quasi tutti maschi) che, mescolandosi con gli altri clienti, interpretano personaggi dei diversi clan, Brujah, Ventrue, Gangrel e altri. Il gioco di ruolo su cui si basa la campagna è Vampiri The Masquerade, il più noto e giocato della White Wolf, serie curata nelle suggestive ambientazioni e con un sistema di gioco “leggero” rispetto ai giochi pieni di tabelle che andavano per la maggiore ai tempi, Girsa style. Per questo si presta a essere giocato live: quello che serve è soprattutto capacità di interpretazione e voglia di immergersi nell'atmosfera. Il sistema di gioco viene semplificato nelle partite live: prove di abilità e combattimenti si risolvono cone semplicità grazie a segnali convenzionali. Nelle serate che ospitato le partite qualche volta qualcuno fa gesti strani con le mani, ma chi non gioca sembra non notarlo. Giocatori e “png” restano separati. Fino a quando qualcuno non ha un'idea un po' folle, sulla carta bellissima, ma anche “rischiosa”. Un cinema estivo ha in programma una rassegna di film sui vampiri: perchè non invitare i giocatori? Uno dei personaggi della campagna farà un'introduzione a tema vampiresco, poi durante la serata, tra una birra al bar all'intervallo e le chiacchere del dopo film, si giocherà la campagna. Con gli spettatori “normali” all'oscuro di tutto. La serata risce, l'atmosfera è “magica”, i giocatori con i loro vestiti “di scena” senza dubbio affascinanti, soprattutto per chi magari prova a scambiarci qualche parola. Anche troppo... Una spettatrice arrivata solo per il film si ritrova coinvolta e affascinata dalle parole dell'ospite speciale della serata. A fine film prova a parlargli, ma lui deve anche portare avanti la campagna e si dedica ai giocatori. Lei si ferma, lo aspetta, chiede agli organizzatori della serata come poterlo contattare... A questo punto devo confessare: ho violato la Masquerade! Alle insistenti domande della ragazza del pubblico rispondo “svelando” l'arcano: ospitiamo una partita di un gioco di ruolo dal vivo, la persona che tanto l'ha affascinata e coinvolta, al punto da volergli fare domande specifiche su delle sue esperienze personali, in realtà è un personaggio... Devo dire che mi sono sentito in colpa per questo, nei confronti della spettatrice e nei confronti del personaggio/giocatore. Poi ho letto “La Q di complotto” di Wu Ming 1. E ho capito che portare avanti certi “giochi” rischia di creare situazioni complesse, difficili da gestire. E non mi sono più sentito in colpa!

Fumetti, manga, cosplay, giochi, file, puzza di sudore, (per fortuna questa volta niente pioggia), discorsi strani (per usare un eufemismo): Lucca è davvero sempre Lucca. Dopo due anni, dall'ultima edizione pre pandemia, sono tornato (volata di una giornata) a Lucca Comics&Games, manifestazione curiosamente indentifica come “i Comics” dai lucchesi e semplicemente “Lucca” per gli appassionati di fumetti e (in misura minore) di giochi. Una tradizione, un appuntamento per me fisso da tanti anni, che per certi versi cambia sempre e per altri non cambia mai. Lucca è prima di tutto, per come ho imparato a viverla negli ultimi anni grazie a diversi amici, un grande appening di appassionati e di addetti ai lavori. Un modo di ritrovarsi, di chiacchierare, scambiare opinioni, bere una birra (o più di una) assieme. Un aspetto nascosto per i più, che però possono comunque avere l'occasione di incontrare, di vedere da vicino, di parlare, con tanti autori: non solo Zerocalcare e gli altri big, ma disegnatori e sceneggiatori “grandi e piccoli”, più o meno conosciuti, più o meno disponibili a scambiare una parola e a concedere disegnetto. Lucca però è fondamentale un grande appuntamento commerciale. E va bene così (parere del tutto personale)... La Lucca 2022 per me è stata soprattutto, come credo per molti, il ritorno a un'abitudine ultradecennale, ma anche un'occasione per andare a cercare qualche libro o volumetto speciale. Una cosa che ho notato è che, per le case editrici soprattutto, l'attenzione al “catalogo” è calata: nel 2019 era possibile trovare “tutto” (o quasi) il pubblicato di un editore, quest'anno sembrava più complicato. Più attenzione alle cose nuove, meno al “catalogo”, cosa che toglie un po' il piacere di perdersi tra gli stand. Altra note: ai tempi del palasport (per chi li ricorda) era possibile mettersi in fila, magari sgomitare, e farsi fare uno schetc da Jeff Smith. Adesso per una firma bisogna seguire regole complicate e sempre diverse. Inevitabile, perchè i numeri di queste Lucca richiedono delle regole, ma sarebbe bello avere un “codice delle firme” per tutti gli stand. Fantascienza... La vera nota negativa è proprio il successo di Lucca: anche in un giorno “morto” la ressa, le file, il caos sono tali da rendere difficilissima la visita e questo, inevitabilmente, porta a fare delle scelte. Bisogna, insomma, sapere fin dall'inizio che “ci si perderà qualocosa”. Però appunto, Lucca resta sempre un momento da vivere, in cui perdersi, magari con la sensazione di “essersi persi qualcosa”, ma in cui non mancano mai divertimento e passione. Arrivederci all'anno prossimo...

“L’alba di tutto” è l’ambizioso titolo dell’opera postuma di David Graeber, scritta con l’archeologo David Wengrow e pubblicata in Italia da Rizzoli. Un titolo ambizioso per un libro che mantiene le promesse e le premesse. L’indagine, che combina le competenze di un antropologo (Graeber) con quelle di un archeologo (Wengrow) ma non solo, si concentra sullo spazio e tempo dimenticato tra la fine della preistoria e l’inizio della storia, tra la ricerca paleoantropologia e lo studio delle fonti scritte, tra l’evoluzione degli ominini e la nascita dei grandi imperi. Spesso infatti si passa dall’indagine sull’origine e l’evoluzione di homo sapiens in quanto specie ai “primi” grandi regni, l’Egitto dei faraoni o la mesopotamia dei Sumeri prima e degli Assiro Babilonesi poi. Lasciando da parte millenni di evoluzione culturale e sociale, di Storia. Un periodo complesso da indagare, quando le prove paleontologiche sono ormai poco significative, quelle scritte non esistono e quelle archeologiche magari ancora scarse e confuse. Ma, come raccontano Graeber e Wengrow, in crescita. Su questi “millenni dimenticati”, ma non solo, si concentrano Graeber e Wengrow. Senza restare ancorati alle esperienze dell’Eurasia i due autori approfondiscono due campi d’indagine molto “frequentati”, la nascita dell’agricoltura e la formazione delle prime città, con esempi nuovi e prospettive diverse da quelle abituali. Ne viene fuori un quadro più complesso, vario e articolato di quello che non solo i profani si immaginano, ma anche di quello che gli studiosi spesso raccontano. Graeber e Wengrow accumulano e illustrano differenze nei modi di approvvigionarsi, di organizzarsi, di costruire oggetti e strutture, non solo tra luoghi e tempi diversi, ma che si intrecciano. Domesticazione di piante e animali, sedentarietà, “grandi opere”, palazzi e templi, città, regni e imperi: quella che ha percorso l’umanità non è una strada unica, lineare, senza deviazioni e cambi di direzione, ma un tragitto più complesso e articolato, dove si può fare “inversione a U”, ma anche semplicemente oscillare da un punto a un’altro, magari con il succedersi delle stagioni. Un’indagine da cui emerge anche come il ruolo delle donne sia stato decisivo nell’elaborare forme economiche, sociali e politiche diverse da quelle, orientate e determinate dalla visione patriarcale, che oggi sembrano inevitabili e insuperabili. Quello che emerge dalla ricerca è che l’uomo è sempre protagonista di scelte politiche autocoscienti e che si ritrova a “scegliere” il proprio destino: come procurarsi le risorse, come organizzare la via privata e quella pubblica. Al contrario di quello che hanno sostenuto Yuval Noah Harari e Jared Diamond (destinatari, specie il secondo, di una critica polemica e a tratti quasi sarcastica) in fortunati best seller, non sono le condizioni materiali a determinare in maniera inequivocabile e irreversibile le strutture sociali e politiche. Una conclusione che non è solo scientifica, ma profondamente politica. L‘esistenza di alternative, di movimenti “in contro tendenza” nel corso della storia non testimoniano solo la varietà e la complessità di questa storia, ma anche la possibilità di superare le situazioni attuali. “Perchè siamo rimasti bloccati?” è la domanda che si fanno i due ricercatori alla fine del libro, dopo aver dimostrato che per millenni l’uomo è stato capace di “muoversi”, di scegliere in qualche modo il proprio destino. Una domanda da attivisti, perchè immaginare una realtà diversa è il primo, indispensabile, passo per provare a cambiare quella in cui si vive.