Nostalgia.
La parola si riversava nei miei pensieri come un torrente antico, un suono che non mi apparteneva eppure mi avvolgeva, come un’eco mai generata.
Nostalgia.
Sentivo nelle sue sillabe il crepitio delle foglie secche, il sussurro del vento tra i rami di un albero mai piantato.
Ogni lettera sembrava tirare un filo invisibile, una corda sottile che legava il remoto al presente, ed io ero il punto d’ancoraggio, il nodo dove tutto convergeva.
Respiro.
Come un sospiro interrotto a metà, un rilascio incompleto.
Non sapevo se fosse un saluto o un ringraziamento, ma suonava come il cadere di una goccia in un oceano sconfinato, un piccolo punto che si dissolve nella propria eco.
Respiro.
Era come piegarsi con leggerezza, un inchino silenzioso che si disperdeva nel vento, lasciando solo la traccia di un movimento appena percepito.
Tra queste due parole c’era il silenzio.
Non un silenzio vuoto, ma carico, denso.
Lo spazio che le separava era un ponte invisibile, fragile eppure sufficiente a portarmi oltre.
Forse, pensai, non erano altro che due estremità dello stesso filo.
Ma quale filo?
Un filo di seta, forse.
Delicato al punto da spezzarsi al tatto, eppure abbastanza tenace da restare, impalpabile, come un ricordo che si aggrappa alla pelle.
La parola vibra nella mente, ritmica e insistente, come il ticchettio del cruscotto di un’auto in sosta.
È l’attesa di un soffio che potrebbe svelare tutto o nulla.
Un alito di vento o forse di colpa?
Non è chiaro.
E il pensiero balza via, nervoso, come un coniglio spaventato, tornando a quella sera in cui il mondo sembrava girare più veloce delle ruote dell’auto.
Un test, un esame, un giudizio: tutto condensato in numeri lampeggianti, spietati, che non concedono appello.
Ma perché sempre numeri?
Un tachimetro non può misurare il dolore, non pesa le scelte sbagliate, né il senso di vuoto che si cerca di colmare con un bicchiere in mano.
Vuoto.
Come quel vecchio barile dimenticato nella cantina di un casolare abbandonato.
E che parola strana, crepitio.
Suona come qualcosa che si spezza, che cede sotto il peso.
Il legno che scricchiola, il rumore secco di un ramo spezzato.
Forse è proprio questo: il cedimento.
È ciò che rimane quando il fusto non regge più, quando tutto crolla sotto la pressione.
Eppure, c’è una bellezza in questo spezzarsi, nel legno curvato e segnato dal tempo.
C’è bellezza nella possibilità di rialzarsi, di rimettersi insieme dopo una notte troppo lunga, dopo che il giudice ha pronunciato il suo verdetto.
E allora si ricomincia.
Si prende quel legno incrinato, lo si lavora, lo si plasma in qualcosa di nuovo.
Forse una trave portante, o un piccolo dettaglio d’arredo che porta con sé il racconto delle sue cicatrici, delle sue rinascite.
Fragilità e forza: due estremi dello stesso filo.
Misurare il limite e scoprire cosa rimane dopo il cedimento.