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Recensire un disco di Tom Waits non è impresa facile. Il suo essere fuori dal comune, umanamente e musicalmente, lo rende unico e come tale diventa più inseguito che inseguitore. Lontano dalle mode, ha sempre ignorato pubblico e musica commerciale, ritagliandosi attorno a se un nutrito e selezionato numero di attenti ascoltatori. Del resto, e la sua opera lo dimostra in modo inequivocabile, Tom è personaggio complesso oltre ogni dire, indefinibile, indecifrabile.

A cinque anni da Orphans, una raccolta in 3 CD con 56 canzoni di cui metà nuove, Bad As Me esce nella stagione più ideale: l’autunno. Il disco infatti, abbandonando i “rumori” in favore della “canzone”, meglio si armonizza con le atmosfere novembrine.

Bad As Me non appartiene al miglior Waits quello dei metà anni ottanta per capirci, quello di Rain Dogs e Frank’s Wild Years, i suoi due dischi più belli per il sottoscritto, ma è pur sempre un ottimo disco. Un album che alterna almeno quattro capolavori: Get Lost, Pay Me, Back In The Crowd e New Year’s, brani estremamente profondi, dove ritmo, fisarmonica, malinconia e struggente melodia creano un tutt’uno, regalandoci quattro ballate del miglior Waits d’annata. Sei ottime canzoni: Chicago, Talking At The Same Time, Bad As Me, Satisfied, Last Leaf e Hell Broke Luce, mettono in evidenza l’estro di Waits con brani dove la voce rauca e notturna, a volte sofferta, a volte romantica, sempre e comunque accompagnata da musica straordinariamente “Waitsiana”, mediano la sommatoria del disco. Le altre tre canzoni dell’album: Raised Right Men, Face To The Highway e Kiss Me, sono sottotono, e pur essendo buone canzoni, non riservano particolari emozioni.

La peculiarità dell’album è la sua frammentazione, un susseguirsi di immagine su immagine, ognuna diversa, fino a far prendere al disco il contorno bel definito della sua “storia”. Waits scatta semplicemente delle istantanee, accontentandosi di dare un frammento d’atmosfera, uno scampolo d’emozione, racconta però dei particolari, e qui risiede la grandezza dell’autore, pur se l’accostamento di stili e radici sono diversi tra loro, la musica creata ha un suo senso e la poesia è la coordinata preferita.

Nel complesso il disco è ben suonato, possiede una personalità e dimostra che Tom Waits non ha rinunciato a scrivere ottima musica. Certo non è un capolavoro, ma di questi tempi, con trentotto anni di musica alle spalle e una ventina di album pubblicati, è come lo fosse.

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In questo ultimo decennio parte degli stati africani si stanno ribellando a dittatori e governi non certamente democratici. Popoli per anni sottomessi cercano libertà e giustizia. A questa ondata di rivolta anche la musica ha dato e continua a dare il suo contributo, musicisti come Farka Tourè, Toumani Diabatè, Baaba Maal, Youssou N’Dour, Cheb Khaled, Salif Keita, Fela Kuti sono stati tra i principali esponenti a “sonorizzare”, esportare e quindi a far conoscere al mondo intero questa situazione di disagio sociale.

Oggi, una di queste realtà si chiama Tinariwen e sono probabilmente una delle band più interessanti nel panorama musicale internazionale. Ex soldati, hanno cominciato a combattere nei primi anni novanta nelle rivolte dei Tuareg in Niger e Mali, alternando esibizioni musicali nei club e in spazi sociali. Fondendo tradizione nordafricana con il blues e il rock elettrificato, il gruppo ha poi man mano abbandonando il “potere” delle armi per intraprendere solo quello della musica.

Al loro quinto lavoro “Tassili”, ci sono arrivati dopo dieci anni dalla prima pubblicazione “The Radio Tisdas Sessions” del 2001, pubblicando nel mezzo altri tre dischi, album che però non hanno avuto un gran riscontro di pubblico e di critica. Questo album può essere considerato il loro album “Unplugged”, perché, anche se rimane inalterato il sound caratteristico del gruppo, vengono per lo più abbandonati i suoni elettrici in favore di quelli acustici.

La bravura dei Tinariwen sta nel coniugare ed esprimere in maniera semplice e diretta le radici e le tradizioni del deserto del Sahara che, oltre ad essere un luogo di sabbia e sole è anche un crocevia di popoli, di passaggi, di culture e di storie. Come i nomadi, i Tinariwen combattono fondamentalmente per il semplice diritto alla sopravvivenza, condividendo usi e costumi e naturalmente i suoni dei Tuareg.

Tassili è un’ottima rappresentazione “sonora-sociale”, una miscela di sequenze acustiche con intrecci elettrici di notevole spessore. Un buon disco.

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Il coraggio è una virtù di pochi e i Wilco sono tra questi.

I fan di vecchia data, dopo un primo ascolto rimarranno molto probabilmente spiazzati. The Whole Love abbandonando la strada di Sky Blue Sky (2007) e dell’ultimo Wilco (2011), dimenticando i suoni di Yankee Hotel Foxtrot (2002) e A Ghost Is Born (2004), si inerpica in nuovi territori e, questo, non può che far bene. Si perchè, al di la che il disco possa piacere o meno, quello che conta per un gruppo ormai sulla breccia dal 1995 (senza contare la parenesi “Uncle Tupelo” dei primi anni novanta) è il saper rinnovarsi, evitando così la noia del ripetersi.

The Whole Love è un ponte, l’inizio probabilmente di un nuovo corso dei Wilco. Non che Jeff Tweedy non sia stato incline a sperimentazioni e a ricerche sonore, anzi, fatto sta che questo ultimo lavoro suona come un manifesto di cambiamento. Un cambiamento che sa di abbandono ai vecchi cliché e di abbraccio a nuove esperienze musicali senza preclusioni di ordine commerciale, non a caso l’album è prodotto proprio da Tweedy.

In The Whole Love suonano una serie di buone canzoni, alcune ottime altre meno, nel complesso però, quello che risalta è lo spaziare nell’intero panorama rock. Si sentono echi che vanno dagli anni ’60 agli anni ’90 passando per gli anni ’70. Una piccola enciclopedia rock con dentro suoni che vanno dal country al simple jazz, con dosi di psichedelia, folk e musica elettronica, tutto meravigliosamente condito in salsa Wilco.

E’ un disco assai ispirato, non c’è dubbio, quello che è da affinare in futuro sarà di coniugare “il verbo” nei “modi” e nei “tempi” giusti, dove alla voce “verbo” s’intende essenza o “anima”, si perchè, anche se il disco è di buona fattura quello che si sente mancare è un “marchio di fabbrica”, quel “non so cosa” che faccia esaltare.

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Il musicologo Ry Cooder ritorna con un nuovo lavoro a distanza di tre anni dalla trilogia formata dal bellissimo ‘progetto’ Chavez Ravine del 2005, dalla storia del gatto Buddy di My name is Buddy del 2007 e dal non tanto entusiasmante I, Flathead del 2008.

Per metà dei suoi quarant’anni di attività musicale, Ry si è prodigato a riscoprire i suoni di diverse culture del mondo, famosissima è quella cubana dei Buena Vista Social Club, dell’Africa con Ali Farka Toure, del soul/gospel con Mavis Staples e l’ultima irlandese con i Chieftains.

Pull Up Some Dust And Sit Down è un lavoro essenzialmente di matrice sociale/politica dove i testi marcatamente di protesta, prendono di mira soprattutto i banchieri, Wall Street e il disastro economico che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti. Altro argomento preso in evidenza sono le leggi varate contro l’immigrazione, storie di povera gente in cerca di un futuro migliore e che invece a volte, purtroppo, incontra solo alla morte.

Se questo è l’aspetto essenzialmente testuale, il disco è di pura matrice “Cooderiana” suoni quindi praticamente a lui cari; rock, folk, blues, influenze messicane e irlandesi. Quattordici canzoni per quasi un’ora di musica nel quale il nostro ha saputo creare intense ballate acustiche, cariche di pathos ed estremamente profonde.

Forse tra i dischi più completi che abbia mai inciso, Pull Up Some Dust And Sit Down non è un lavoro ‘facile’ e come tale ha bisogno di molti ascolti. Tutte le grandi opere hanno questa peculiarità.

Essenzialmente non c’è molto da aggiungere se non il solo consiglio di procurarvelo. In fondo, parlare di questo disco risulta più difficile che ascoltarlo.

Non svetterà le classifiche di vendita ma Pull Up Some Dust And Sit Down rimarrà senz’altro un’opera coraggiosa, ricca di valore testuale e musicale che, ancora una volta, dimostra che Ry Cooder è un grandissimo uomo e musicista.

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Si sta confermando come uno degli album più belli del 2011 questo ‘The Rip Tide’, terzo album dei Beirut, band statunitense capitanata da Zach Condon, giovane venticinquenne nato a Santa Fe nel Nuovo Messico.

Fin dal primo disco ‘Gulag Orkestar’ del 2006, Condon (infatti il gruppo ‘Beirut’ si formò successivamente per l’incisione del disco) si dimostrò un grande talento oltre a una gran bella voce ma fu con il secondo, ‘The Flying Club Cup’ del 2007, che i Beirut si fecero conoscere oltre continente.

Lasciando da parte certe influenze inevitabilmente tratte da ispirazioni ‘altrui’, con ‘The Rip Tide’ i Beirut fanno il grande salto di qualità, facendo emergere un suono completamente personale che li distinguono dalla ‘massa’ musicale odierna. Anche se orientativamente verso un sound più pop, i Beirut ci regalano trentatre minuti di intrecci musicali di notevole profondità. Le nove canzoni che compongono il disco hanno la forza di creare un flusso sonoro particolarmente sensibile ed elegante.

‘The Rip Tide’ è uno di quei dischi dove non c’è un solo secondo sprecato, che si ascoltano dall’inizio alla fine, senza nessuna interruzione e in continuazione per diversi giorni, per poi riprenderlo e trovare ancora delle ‘pieghe’ nascoste a riconferma della sua bellezza.

Un piccolo capolavoro di classe, godibile e intelligente, musicalmente ispirato alla grande tradizione folk della canzone americana e suonato da bravi musicisti.

‘The Rip Tide’ è un disco maturo, concentrato e accessibile ma soprattutto non banale. La musica di Condon è raffinata, gli strumenti sono ben amalgamati tanto da formare un ‘tappeto’ sonoro dove la voce, la sua bella voce, riesce a farlo ‘volare’.

Tra gli album dell’anno.

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Lucinda è tra le mie preferite, non a caso infatti il suo West del 2007 fu per me il miglior album di quell’anno. Un grande disco, innovativo, suggestivo e profondo.

Dopo la pubblicazione nel 2008 di “Little Honey”, un album non certo brillante, abbiamo la fortuna di avere tra le mani questo ottimo lavoro che porta il titolo di “Blessed”, il suo decimo disco in studio. Blessed è un disco maturo, dodici canzoni equilibrate, dove la saggezza, la sensibilità e la bravura della cinquantottenne cantante statunitense traspare in maniera evidente.

Se ancora una volta, come in “West”, i testi delle sue ballate sembrano esprimere una certa malinconia e a volte anche tristezza, in realtà, celano un cauto ottimismo, una riflessione positiva sulla vita. Anche nel suono, questa poetessa rock evidenzia una maggior ispirazione e grazie all’uso di chitarre elettriche il sound è meno rarefatto e più aggressivo. Terzo elemento fondamentale è la voce, intensa e particolare, con la quale la songwriter americana ci regala emozioni forti.

Ottimo album, in conclusione, dove ancora una volta la Williams dimostra di aver raggiunto una maturità ed un equilibrio in grado di poter creare delle belle canzoni, canzoni che sono dei gioielli da incastonare nella nostra memoria musicale.

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Nella seconda metà degli anni ottanta i fratelli Timmins si fecero conoscere grazie ad una manciata di buoni dischi, tra cui gli ottimi The Caution Horses, Black Eyed Man e il superlativo The Trinity Session dell’88. Negli anni successivi, per una serie di coincidenze, non ultima la mancanza di “creatività” sonora, non li ho più seguiti se non “per sentito dire”. Ora, come è successo per i R.E.M., ho ascoltato questo loro ultimo lavoro e la sorpresa è stata più che buona.

Il disco in origine doveva essere una collaborazione con l’amico Vic Chesnutt ma, la sua morte avvenuta prematuramente il giorno di Natale del 2009, ne ha cambiato le sorti, facendolo diventare un tributo allo stesso artista canadese.

La band non estranea alla rielaborazione di brani altrui, vedi “Dead Flowers” dei Rolling Stones o “Sweet Jane” di Lou Reed (la più bella versione in assoluto a detta dello stesso autore) ha trovato tanto e ottimo materiale da arrangiare nell’archivio musicale di Chesnutt.

Il rischio, sempre reale, della “rivisitazione” è di adulterare le canzoni con elementi poco personali e di rieditarle quindi con delle semplici farciture. I Cowboy Junkies invece, anche se non sempre con ottimi risultati, sanno evitare con maestria questo rischio.

E’ un ottimo album Demons, ben fatto. Il merito va soprattutto al giusto “dosaggio” di tre elementi essenziali: il buon materiale di base, cioè i brani di Vic Chesnutt, la bella voce di Margo che li addolcisce e l’esperienza strumentale di ottimi musicisti.

Non ci sono cadute di tono nelle undici canzoni del disco, tutte sono oltre la media. Flirted With You All My Life, Betty Lonely, Ladle, West Of Rome e Supernatural sono una più bella dell’altra, Wrong Piano e Strange Launguage sono tra le loro migliori di sempre, e le restanti See You Around, Square Room, We Hovered With Short Wings e When The Bottom Fell Out, fanno la loro bella figura.

La sensibilità musicale dei Cowboy Junkies ha reso giustizia alla musica di Chesnutt e reso felici tutti i suoi fan.

Un disco da ascoltare tutto, un’intensa raccolta, un’ottima uscita in questi tempi difficili, che conferma la bravura del gruppo canadese.

Con questo Demons, i Cowboy Junkies hanno prenotato un posto tra la top ten del 2011.

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Dire che con questo quindicesimo lavoro i R.E.M. ritornano alle origini, è assai azzardato.

Eguagliare ottimi dischi e capolavori come Document dell ’87, Green dell ’88, Out of Time dell ’91 e Automatic for the People dell ’92, non è cosa semplice.

Personalmente, dopo il buon New Adventures in Hi-Fi dell ’96, li avevo trascurati se non per qualche ascolto di Up dell ’98 e Reveal del 2001.

In realtà in questi “anni duemila” il loro suono è diventato “piatto” e privo di emozioni, un continuo girare e rigirare nella stessa pentola di note. D’altronde in trent’anni di carriera non è facile rimanere in auge e sfornare nuovi lavori originali. Proprio per questo qualche maligno aveva simpaticamente consigliato di sciogliersi [sic!]

Per pura curiosità ho voluto mettere il naso, o meglio le orecchie, su queste dodici tracce e, ascolto dopo ascolto, con meraviglia il disco mi ha preso come mai avrei pensato.

Immagino Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills attorno ad un tavolo che dicono: “E adesso che facciamo?” “Che strada prendiamo?”

Hanno scelto quella più comoda ma probabilmente anche più rischiosa. Continuare a produrre un nuovo “suono” sulla base di quello vecchio già conosciuto e sperimentato nei dischi sopra citati, correndo però il rischio reale di ripetersi.

Sono stati bravi.

L’album se pur non un capolavoro si fa ascoltare senza noia che di questi tempi è già tanto. Dodici canzoni in un alternarsi di ballate, alcune struggenti, altre ruvide, altre melodiche, con il supplemento vocale di Patti Smith e Eddie Vedder in due brani che è un piacere sentire, mettendoci a nostro agio e strizzandoci l’occhio simpaticamente.

Un buon disco, in conclusione, a dimostrazione che i R.E.M. nonostante la fama e il denaro (il parallelo con i Rolling Stones è inevitabile) hanno ancora voglia di mettersi in discussione, nonostante l’età.

Un Cd di quelli che possiamo ascoltare nei viaggi automobilistici a far da corollario alle immagini che vediamo dai finestrini mentre la nostra mente naviga chissà verso quali pensieri.

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Come si diceva, un nuovo disco va assaporato lentamente, se poi il disco in questione è dei Radiohead, allora la regola va moltiplicata. The King of Limbs non è un disco facile, chi conosce e ama i Radiohead è preparato a questo. Molte loro uscite hanno spiazzato e anche The King of Limbs, in parte, mantiene questa promessa. Chiamiamole ricerche, esperimenti, poco cambia, il loro percorso sonoro è sempre all’insegna dell’innovazione e dello stile progressivo.

Ora, alla domanda se il disco è bello o brutto, la mia risposta è che va al di là di questi aggettivi. The King of Limbs è un disco emozionale prima di tutto e come tale il nostro stato d’animo influisce molto sul giudizio.

Il suono a volte melodico, piacevole e godibile, a volte tortuoso, spigoloso e monotono, è un alternarsi sinusoidale di sensazioni uditive. E’ un “progetto” questo The King of Limbs, dove nulla viene lasciato al caso ma è parte integrante di un viaggio. Un viaggio urbano, un viaggio metropolitano nei nostri giorni, dove gioia e noia si mischiano, come quasi sempre accade.

In questo ultimo lavoro Thom Yorke e compagni confezionano un album “al nostro bisogno”, un bisogno che noi cerchiamo nei nostri gesti, nei nostri pensieri, nelle nostre speranze, nella nostra quotidianità. Il disco si modella alla nostra vita, al tempo che stiamo vivendo.

Un album complesso quindi, ma pur sempre un disco d’arte, con suoni in sintonia col vivere questi nostri anni duemila.

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E’ un buon ritorno questo di Paul Simon che, dopo diverse pubblicazioni di non grande valore, ritorna finalmente con un disco sopra la media, anche se lontano dall’ultimo suo capolavoro solista che è Graceland.

So Beautiful Or So What è il dodicesimo lavoro in studio del settantenne cantautore americano famoso anche per il duo con Art Garfunkel.

Nei testi è la spiritualità l’elemento predominante, ecco infatti cosa dice in una sua intervista: “Spiritualità sì, tanta, anche se in senso non religioso. Credo sia connessa con i tempi, con i problemi economici in America; c’è tanta gente che ha perso e perde il lavoro. Quel che capita nel mondo, e anche nella mia vita, finisce sempre nelle canzoni. Ma direi che sarebbe troppo appioppargli il titolo “Now i sing God”; il soggetto Dio appare in 4 o 5 canzoni, non l’ho fatto intenzionalmente”, un disco quindi, che approfondisce il significato della vita.

Pur non avendo uno stile musicale dominante, in una manciata delle dieci canzoni dell’album si respira il ritmo, il sound africano, che riporta alla mente “Graceland”, nelle restanti, l’armonia e la melodia hanno il sopravvento sul ritmo e si allontanano perciò da “mamma africa” e approdano a suoni più standardizzati.

L’inizio del disco è la parte migliore e i primi quattro brani, Getting Ready For Christmas Day, The Afterlife, Dazzling Blue e Rewrite, sono probabilmente i più belli e già da soli meritano l’ascolto del disco. Love And Hard Times, Amulet (poco più di un minuto) e Questions For The Angels invece sono la parte meno felice.

Se nella prima quartina si viene “presi” da un vortice sonoro carico di ritmo, piacevole all’udito e soprattutto ben amalgamato strumentalmente parlando, nella terzina sopradetta la melodia fin troppo scontata e a volte noiosa, abbassa un po’ il livello sonoro dell’album.

Le restanti tre canzoni Love And Hard Times, Love And Blessings e So Beautiful or So What, aggirandosi tra il primo “Simon & Garfunkel” e riecheggiando il “Paul Simon” solista dei tempi migliori, mediano la qualità musicale dell’album.

In conclusione So Beautiful Or So What è un buon album, una sommatoria di molteplici suoni e interessi realizzati da un grande musicista, coerente e maturo non solo anagraficamente parlando. Dopo quel capolavoro di “Graceland” è senz’altro l’opera più interessante che abbia pubblicato.

Dopo un quarto di secolo non è poco.

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