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duemilaundici

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Ognuno ha il suo ‘metro’ per valutare un disco, ognuno lo può ‘criticare’ attraverso le sue priorità. Personalmente uso sempre questo mio teorema: “La somma di quante volte un cd suona nel tuo lettore musicale è uguale alla somma di quanto il disco ti piace”. Al di là quindi di ogni razionale ricerca sonora, quello che conta, alla fine, riguarda una più semplice questione di ‘pelle’ o meglio di ‘udito’.

In base al suddetto teorema, ‘I’ll Never Get Out of This World Alive’ è l’album più ascoltato in questo primo quadrimestre del 2011 e per un semplice motivo: è bello!

Non ci si aspetti niente di straordinario, sia chiaro, nessuna rivoluzione sonora, anzi, il contrario. Folk, Country e simili, sono i generi suonati, e, sarà la produzione di T-Bone Burnette, sarà il momento felice di Steve, il disco suona bene, ha grande carisma, ed è un piacere ascoltarlo.

Non si può certamente dire che Earle abbia avuto una vita monotona: sposato sette volte e con figli, attività politica, sostanze stupefacenti, carcere, disintossicazione, ecc. ecc. (Wikipedia), circostanze che hanno segnato profondamente la sua vita, ora sembra si sia ‘tranquillizzato’ e nel disco questa sensazione è palpabile.

Non ci sono cadute di tono nelle undici canzoni che formano i quaranta minuti di musica. Ballate folk elettriche ed acustiche, echi rock e blues, sentori popolari, tradizionali e ricordi ‘Guthriani’ sono gli elementi sonori del disco. Poi le liriche, la voce e la passione di Steve fanno di questo I’ll Never Get… un disco godibile e affascinante.

Un gioiellino quindi, probabilmente uno dei suoi più belli.

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A parte la collaborazione con Roky Erickson nel suo bellissimo True Love Cast All, gli Okkervil River mancavano dalla scena musicale da tre anni e questo nuovo album si preannunciava come un album ‘difficile’.

“Voglio fare un disco di suoni per me stesso e non per la massa” disse a suo tempo Will Sheff, compositore e cantante del gruppo, e così è stato. Il termine ‘difficile’ in questo caso non è da intendersi come poco accessibile, ma soprattutto come ‘spiazzante’.

I Am Very Far, settimo album della band Texana si allontana dalla sua matrice prevalentemente Folk — rock, da quel sound personale e pulito che li ha caratterizzati e approda a suoni più arrangiati ed orchestrali, infatti molte delle canzoni sono eseguite da due batterie, due bassi, due tastiere e ben sette chitarre.

La prima cosa che risalta di questo ‘I Am Very Far’ è il suo ‘umore’, difficile da raccontare, non semplice da assorbire. Viene da chiedersi se il disco è frutto di un progetto musicale che li vede in parte cambiar rotta, allontanandosi così dalla matrice che li ha fin d’ora caratterizzati o se invece, cosa assai meno probabile, è la conseguenza di un vuoto creativo. Personalmente quello che conta è che l’album suona bene, per il resto, solo il futuro prossimo darà una risposta.

Nelle undici canzoni si respira una libertà espressiva mai sentita fin’ora; il filo conduttore del disco è infatti il desiderio di voler suonare quello che piace, senza vincoli o particolari ostacoli. Un suono più ‘sensazionale’ che ‘celebrale’ rende questo ‘I Am Very Far’ probabilmente uno dei loro migliori lavori. Voler creare un nuovo sound, allontanandosi così da quel ’canale’ che li ha fin d’ora caratterizzati è ciò che risalta fin dal primo ascolto. Man mano che si prende confidenza, meglio viene evidenziata la profondità del suono, che penetrando nei padiglioni auricolari, riesce a trasformarsi in belle emozioni.

Un ottimo disco quindi, che sottolinea la grandezza di questo gruppo.

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Vedder è un grande musicista, una grande voce, un grande leader (I Pearl Jam sono uno dei gruppi più importanti e più amati degli ultimi decenni), ci ha regalato la splendida colonna sonora del film “Into the wild” ma questo secondo album; ‘Ukulele Songs’, non convince del tutto.

Nei trentacinque minuti del disco ci sono brani prevalentemente già pubblicati dai Pearl Jam e altri già sentiti perché sono cover o presentati in’ tournèe’ con il gruppo, solo alcuni sono originali.

Sedici canzoni sedici di solo voce e ukulele.

Ecco, capisco che Vedder abbia una grande simpatia per le Hawaii e l’Ukulele appunto, però è assai difficile arrivare alla fine del disco senza avere almeno una volta sbadigliato o ancor peggio sbuffato per “la noia del diciassettesimo minuto” che inevitabilmente arriva.

E’ solo da sottolineare il fatto che il disco non è per niente banale o superficiale, anzi, a Vedder va il merito di aver saputo creare un’atmosfera carica di melodia, un suono semplice e riflessivo con dei testi intimi e romantici, un disco maturo quindi, sereno e rilassato…

Forse un pò troppo rilassato.

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Bon Iver pseudonimo di Justin Vernon, pubblica il suo secondo lavoro a distanza di tre anni dal suo fortunato ‘For Emma, Forever Ago’. Com’è immaginabile, la seconda prova discografica è sempre molto attesa, a conferma della veridicità artistica del musicista. A tal proposito, diciamolo subito la “prova” è stata superata. Bon Iver, infatti, pur conservando la sua essenza musicale, si evolve brillantemente nelle sonorità che, grazie all’uso di fiati e archi, rende questa sua seconda opera assai più fiorente e luminosa. Il disco è stato registrato nel Wisconsin, un’ex-clinica veterinaria ristrutturata a studio di registrazione, questo va detto per sottolineare la differenza dal primo disco che, invece, fu registrato in una capanna di caccia sperduta tra le foreste del Wisconsin nel gelo invernale del 2007, della serie: “status quo ante”. Una vena più ottimistica è rivelata nelle dieci canzoni che compongono il disco. Grazie alla poesia melodica e ai suoni originali del trentenne cantautore statunitense, l’omonima opera ci fornisce una musicalità rarefatta e intensa, un minimalismo folk di grande impatto emozionale. Un buon disco quindi, con belle canzoni costruite attorno alla sua vocale espressività minimalista. Bon Iver si dimostra uno degli autori più ispirati, sensibili e maturi degli ultimi anni. Consigliato.

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