GRIDO muto (podcast)

malatiinvisibili

🤲 Il Tatto: ti accorgi che è importante quando l'hai già perso ❌

In questo episodio ti racconto come la malattia ha cambiato il mio senso del tatto, un senso importantissimo che tutti noi tendiamo a sottovalutare finché non ci viene portato via.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 5):

[...]

Le situazioni che possono rendere difficile la vita di un individuo sono tante; anzi, tantissime, e io non sono certo l'unico a doverle affrontare. È indubbio però che alcune siano molto conosciute, come la perdita della vista o dell'udito, mentre di altre non si parla mai.

Cosa succede, ad esempio, a una persona che perde completamente il senso del tatto? Anche questa è una situazione difficile, peggiore di quanto non sembri, e che dall'esterno non può essere percepita.

Un'altra delle esperienze impossibili da comunicare agli altri. Eppure, è un'altra delle cose che mi è capitata.

La causa di tutto questo è la psoriasi. Ne hai mai sentito parlare? Nella descrizione dell'episodio trovi un link all'Istituto Superiore di Sanità, con la definizione di cosa sia questa patologia cronica e non infettiva. Ma lascia che te la ripeta anche qui:

“La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle che si manifesta con aree ispessite ricoperte da squame di colorito grigio-argenteo che, in alcuni casi, possono dare prurito. In genere, le placche sono localizzate a livello dei gomiti, delle ginocchia, del cuoio capelluto, del viso, delle mani e dei piedi, ma possono essere presenti anche in altre parti del corpo.”

Confermo tutto, anche la parte in cui parla delle altre parti del corpo. È una patologia che è molto più problematica di quello che sembra, anche se da molti viene considerata soltanto come un problema estetico. Quella è la punta dell'iceberg, ma c'è molto di più. Nel mio caso, si è manifestata in forma visibile quando avevo 25 anni. Soltanto pochi anni dopo, quando è arrivata sui polpastrelli delle mani e dei piedi, rendendo difficile suonare e camminare, cominciai a capire che c'era qualcosa di grosso che non andava. Oggi pagherei oro per ritornare a quel periodo.

Ma in realtà la psoriasi si era manifestata già prima di quel periodo. Ricordo perfettamente il momento in cui la notai per la prima volta, perché ora so che si trattava di psoriasi. Era l'ottobre del 1990 e frequentavo la seconda media. All'improvviso la testa cominciò a prudere alla follia durante una lezione di musica. Non sapevo più cosa fare. Le dita non bastavano a placare quel prurito. Pensai di avere i pidocchi, perché non li avevo mai avuti e non sapevo che effetto facessero. Mi vergognavo moltissimo. Temevo di passare per quello lurido, che non si lava mai. Cercavo di non farmi vedere, ma non bastò. L'insegnante stesso se ne accorse e mi chiese cosa stesse succedendo: “C'è qualche problema?”

Risposi con la prima cosa che mi venne in mente: “Professore, mi scusi, stamattina ho messo il gel e devo essere allergico.” Ma il prurito continuava. Cominciai a usare una penna per grattarmi, e dopo quella che sembrava forfora, alla fine mi ritrovai del sangue tra i capelli.

Una volta a casa, mi lavai la testa. Il prurito dopo un poco passò, e mi convinsi che quello che avevo detto al professore era la verità. In fondo, avere la forfora succede, no? E anche essere allergici a qualcosa, giusto? Non ho messo mai più il gel per capelli in vita mia, e per fortuna quel prurito non si ripresentò più durante le lezioni di musica. Per fortuna, perché io amavo quelle lezioni.

Oltre a insegnarci la teoria e farci suonare il flauto, l'insegnante ci faceva ascoltare suoni diversi da uno xilofono che teneva nascosto, e ci chiedeva quale nota fosse la più acuta o la più grave. Ci faceva ascoltare piccoli motivetti, dicendoci solo quale fosse la prima nota, e noi avremmo dovuto indovinare le altre. Sembrava un gioco, ma stavo allenando il mio orecchio a riconoscere le note, a capire se una nota era molto distante da un'altra sulla tastiera, e che l'ottava delle sette note non ha una fine. Arrivati all'ultima nota, si ricomincia con la prima, solo più acuta di prima e viceversa verso il basso. Un giorno, ci fece ascoltare dei pezzi di alcune big band, i gruppi musicali che si ispiravano allo stile del jazz anni '40. Ci insegnava quale dei suoni che ascoltavamo era la batteria, quale il basso, quale la chitarra. Io ero un po' avvantaggiato in questo giochetto, devo ammetterlo, anche grazie ai Pink Floyd e al loro ultimo disco del 1987, che avevo ascoltato fino a consumarlo. E poi, certo, anche grazie a tutti gli altri che cominciavo ad ascoltare, come i Supertramp, i Deep Purple, gli Alan Parsons Project, i Dire Straits, tutti dalla collezione di mio fratello, che non posso fare altro che ringraziare. Indovina com'erano i miei voti in musica!

In quello stesso anno, a furia di ascoltare i Deep Purple e gli assoli del chitarrista dei Pink Floyd, presi una decisione.

Al diavolo il flauto. io voglio suonare la chitarra come quello dei Pink Floyd!

Ne parlai con la mia mamma, a cui venne in mente che una nostra cugina nel paese ne aveva una che non usava. La cugina molto gentilmente me la prestò a tempo indefinito. Finalmente tra le braccia stringevo la mia prima chitarra. Anzi, a essere sinceri, la seconda, perché la prima l'avevo spaccata in testa a mio fratello quando avevo 3 anni. Mi dispiace che sia successo, perché era un bello strumento. Dai, sto scherzando; col senno di poi, mio fratello non si fece niente, ma ora mi dispiace molto.

Con la chitarra in mano, sfogliavo il libro di musica con la foga di chi sta morendo di sete e vede una bottiglia d'acqua. C'erano alcune piccole figure che facevano vedere dove mettere le dita sulla chitarra, per poterla suonare: gli accordi. Qualcosa con cui avrei avuto a che fare per molto tempo negli anni a venire. Provai subito a farne qualcuno, ma c'era un problema: le dita facevano male, anzi, malissimo. Dopo pochi minuti, la chitarra classica che avevo preso in prestito da mia cugina mi aveva già dato la prima grandissima lezione: se vuoi conquistarmi, dovrai impegnarti tanto, soffrire un po' e non stancarti mai. Ma poi sarà bellissimo. E lo sarebbe stato, in verità, almeno finché i miei polpastrelli non sarebbero stati devastati dalla psoriasi diversi anni più tardi. Ma di questo parleremo più avanti.

Oggi so che quello che all'epoca riconoscevo come prurito, mentre ero a scuola, era in realtà qualcos'altro. Lo so perché è la stessa cosa che sento ancora nei posti dove la psoriasi si è manifestata con le sue belle placche squamose e lucenti, rossastre e viola, nelle zone più strane del corpo. L'interno dell'orecchio, ad esempio, che specialmente nelle notti più calde non mi dà tregua, ma anche nelle piante dei piedi o tra le dita, sul cuoio capelluto, anche se di capelli non ne sono rimasti molti, forse uccisi proprio dalla psoriasi, o ancora sulle mani. Dove la psoriasi colpisce, la pelle non si abbronza mai più, anche quando la malattia sembrerà scomparire temporaneamente. Addio lentiggini, addio qualsiasi cosa. Restano solo aree bianche tondeggianti con delle aree dorate intorno.

Per essere più precisi, la psoriasi non dà solo prurito. Il prurito è quello che danno le zanzare o una piuma. Con la psoriasi è tutto diverso: la sensazione è quella di prurito insieme a mille spilli che ti pungono in un punto. A volte sembra quasi che ci sia uno sciame di insetti che ti sta pungendo o un animale che ti morde. Sai come si fa a dormire in queste condizioni? Non si può. E infatti, da quando questa patologia mi accompagna e si risveglia, non ho mai una notte tranquilla. Alle medie mi facevo sanguinare la testa; ora tocca alle orecchie.

La cosa peggiore di tutte, forse, è che nel mio caso si manifesta anche sui polpastrelli. Anche se non ho più i calli che avevo costruito con fatica quando suonavo, la psoriasi indurisce la pelle che si trova sulla punta delle dita. Qual è la parte delle dita che ci fa percepire maggiormente il mondo? Esatto: proprio la punta. È così che sentiamo se qualcosa è liscio o ruvido, se un tessuto è pungente sulla pelle ancora prima di indossarlo, o se qualcosa è caldo o freddo, ad esempio, o ancora, quanto è piacevole la pelle di un'altra persona quando la accarezziamo.

Ancora oggi la punta delle mie dita si ispessisce e diventa rigida. Come nelle altre zone colpite dalla psoriasi, la pelle perde elasticità fino a sgretolarsi e a spaccarsi, aprendo una piccola ferita che guarisce soltanto dopo molti mesi, se va bene. Prova a pensarci. Pensa a quante cose toccano le tue dita durante il giorno e a quante possibilità avresti di infettarle se fossero tutte aperte e sanguinanti. Se stai pensando a dei cerotti, posso dirti che non è una soluzione percorribile. Anche se non sei un musicista, pensa a che fatica potresti fare per cucinare, digitare su una tastiera o usare un cellulare con un cerotto su ogni dito.

Ultima chicca di tutta questa situazione è che con le dita in queste condizioni, che fanno male ogni volta che tocchi qualcosa, non puoi più tenere saldamente in mano gli oggetti. Come sarebbe possibile, d'altra parte? Non ti accorgi più se sono lisci e quindi devi fare più forza, oppure ruvidi, e allora ne basta meno. Sono tutte cose, piccoli movimenti involontari che il nostro cervello valuta e compie senza che noi ce ne accorgiamo, basandosi sul senso del tatto. Se questo non c'è più, la vita diventa molto più difficile. Bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. Eppure, quando lo racconti alle persone, ti guardano come se fossi un alieno. Alcuni pensano che esageri, ed è evidente quando gliene parli. Non ti capiscono perché loro il senso del tatto ce l'hanno, lo danno per scontato, come tutti, e non sanno cosa significhi perderlo. Spero soltanto che ascoltando questo podcast possano cambiare idea, e questo dipende anche da te. Dobbiamo raggiungere più persone possibili per far sapere al mondo come vive chi non ha più il tatto. Condividi questo episodio con quante più persone puoi. Io te ne sarò molto grato.

Allora, avevo ragione o no che perdere il senso del tatto è una disgrazia? Non sarà come perdere la vista o l'udito, ma è una cosa che peggiora molto la vita di chi la subisce, e ovviamente il mio destino non poteva farmela mancare. Più avanti ti racconterò ancora meglio quanto tutto questo sia determinante per la vita di un musicista, ma per ora voglio lasciarti con un invito a riflettere sulla perdita del tatto. Anche questo è un senso prezioso, e anche in questo caso la sua perdita è invisibile. Prova a dire a qualcuno che hai perso il senso del tatto e vedrai che non capirà al volo quello che significa. Se incontri qualcuno in questa condizione, per la psoriasi o per un altro motivo, sii gentile con lui o con lei: sta combattendo una battaglia interiore per capire come percepire di nuovo il mondo. Ti do appuntamento a martedì e, nel frattempo, stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.”

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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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💫 Perché un blog sull'Artrite e la Fibromialgia? 🌟💪

Sai cosa è l'artrite? È una patologia invalidante, che potenzialmente può colpire chiunque e, contrariamente a quanto si pensa, a qualunque età. Provoca un'infiammazione (dolore, gonfiore, problemi) a TUTTE le articolazioni e ai tendini e molti degli organi interni, e può portare alla totale infermità di una o di tutte le articolazioni. Chi ne soffre deve essere preparato a una vita di dolore, in cui ogni movimento è una tortura. O, almeno, a una vita più difficile, complicata e in salita.

La fibromialgia, invece, è una condizione cronica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso, accompagnata da una serie di sintomi come affaticamento, disturbi del sonno, difficoltà cognitive e sensibilità aumentata al dolore. Sebbene la causa esatta non sia completamente compresa, si ritiene che fattori genetici, stress e anomalie nel sistema nervoso centrale possano contribuire alla sua insorgenza. La fibromialgia può avere un impatto significativo sulla qualità della vita.

Io soffro di entrambe queste patologie, sebbene una delle due non sia possibile diagnosticarla, ma c'è: eccome se c'è.

Poi c'è la psoriasi. Un'infiammazione della pelle che colpisce aree del corpo in maniera apparentemente casuale, ma più spesso si concentra su cuoio capelluto, mani (anche i palmi), piedi (anche le piante) e gomiti. Può sembrare una cosa da poco rispetto al resto, ma è proprio la psoriasi che, spesso, mi “regala” tante notti senza sonno, perché dà molto prurito. Spesso la pelle colpita dalla psoriasi si disgrega spontaneamente, e la ferita causata da questo evento impiega anche mesi a rimarginarsi. I pazienti più sfortunati hanno la psoriasi in tutto il corpo.

Ti ho dato solo un piccolo assaggio della vita che conduco. Considera che io sono uno dei pazienti che soffrono meno. Puoi immaginare gli altri?

Se stai pensando che non avevi mai sentito parlare di tutto questo, tranquillizzati: è del tutto normale. Di noi, non si parla se non in ospedale. Eppure siamo qui, intorno a te, con le nostre mille difficoltà che non sono riconosciute, né dalle autorità né nella concezione del mondo delle persone comuni.

È normale che di noi non si parli perché nella nostra società, che a me piace chiamare “società della performance”, le persone valgono qualcosa solo se possono produrre, o se sono le migliori in un certo campo, o appaiono sempre belle, sorridenti, in forma.

Per tutti gli altri, come me e tutti gli altri malati invisibili e non riconoscibili che sicuramente hai già incontrato nella tua vita, ma senza saperli riconoscere, non c'è posto. È normale quindi che di noi non si parli, ma non è giusto. La nostra condizione riguarda tutti.

È per questo motivo che ho deciso di creare un podcast: per far sapere a tutti come viviamo noi malati invisibili, per far sapere che noi esistiamo. Viviamo come tutti gli altri perché ci è imposto, anche se non avremmo le possibilità di farlo.

E poi, non meno importante, quando si capisce di avere qualcosa di grosso come queste cose che ci colpiscono, ci si sente tremendamente soli, vulnerabili. Voglio che il mio lavoro venga diffuso il più possibile, e che nessun nuovo ammalato senta di essere solo. Nel mio racconto potrà identificarsi, trovare una spalla, sapere che la sua artrite e la sua fibromialgia non colpiscono solo lei/lui.

Per tanti, troppi anni sono rimasto in silenzio di fronte a queste malattie invisibili che mi hanno cambiato profondamente. Il mio GRIDO è rimasto dentro di me, incapace di uscire, e quindi MUTO.

Solo io potevo sentirlo. Volevo urlare al mondo la mia rabbia, ma non riuscivo neanche a trovare le parole per farlo.

Mi sentivo impotente di fronte a questa esperienza incomunicabile che si è portata via i miei sogni di bambino e di adulto.

Ora ho deciso di far sentire il mio grido.

Ho creato un podcast in cui ti racconto la mia storia, la mia esperienza, cosa ho perso a causa delle patologie e cosa sto passando, le mie paure per il futuro. In ciascun episodio non mancheranno riflessioni profonde sulla nostra strana società, che non ha posto per noi che soffriamo, rendendoci invisibili. Eppure, noi esistiamo.

Il podcast si chiama “GRIDO muto – La mia vita con l'artrite”, ma puoi trovarlo sulle varie piattaforme come Spotify o Apple Podcast semplicemente ricercando “grido muto”. Esiste anche un canale youtube dove seguire le puntate del podcast, se lo preferisci, ed è anche lo spazio in cui , con il tempo, pubblicherò altri video o riflessioni sull'argomento. Ti riporto qui di seguito tutti i link per tua comodità:

In questo blog troverai le trascrizioni delle varie puntate, se preferisci leggere piuttosto che ascoltare, e ti sarò molto grato se mi farai sapere cosa ne pensi del mio progetto, di ciò che ho da dire, e di ciò che scriverò.

Spero che diffonderai il podcast o questo blog il più possibile, per fare cambiare le coscienze e aiutarmi a raggiungere il più alto numero di persone possibili.

Grazie per il tuo interesse e aiuto, che tu sia un malato invisibile oppure no.

Stammi bene!

Simone

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