GRIDO muto (podcast)

vivereallestero

QUESTO E' UN ADDIO.

A memoria mia non c'è mai stata una singola volta in cui io sia andato alle urne per non riceverne, poi, una enorme delusione.

I casi erano 2: o vinceva una coalizione/partito così impresentabile da farmi domandare “ma com'è possibile?”, oppure chi votavo io si rivelava una tristissima delusione, poco dopo (ma, molto più spesso, si è verificato il primo caso). Non parliamo di referendum; quasi mai le mie speranze hanno prevalso o raggiunto il quorum.

Perché?

Con il tempo, questa domanda è diventata sempre più ingombrante nel mio cuore e nei pensieri.

Perché?

Mi sono convinto, piano piano, di essere diverso: un italiano atipico, le cui speranze non erano condivise quasi da nessuno. E, in effetti, lo sono.

Eppure era così facile capire chi fosse impresentabile! Ci sono stati e ci sono presidenti del Consiglio per cui “il popolo” (o almeno quella parte con cui avevo a che fare) sbavava letteralmente: guai a toccarli! Guai ad accennare che, forse, la tal misura poteva non essere molto azzeccata: chi mi stava intorno mi mangiava la faccia (come diciamo dalle mie parti), fatte salve poche eccezioni. Dopo pochi mesi tutto questo fervore passava, i disastri che per me sarebbero stati evidenti diventano effettivamente lampanti, ma si dava un colpo di spugna al presidente di turno e si ricominciava con un altro personaggio, con altri disastri.

Ma perché? Perché continuavamo in questo circolo vizioso, sempre più al ribasso, con candidati sempre più impresentabili, sempre più (dati alla mano) incapaci quando non addirittura dannosi?

Non avevo risposte, ma intanto il Paese precipitava sempre più in basso, e mi sentivo impotente: non c'era modo che le cose cambiassero. Anche se la speranza era l'ultima a morire, questo clima di immobilità lo percepivo negli ambienti di lavoro, dove nessuno voleva far sentire le proprie ragioni di dipendente. Lo avvertivo nei vari referendum, dove troppo pochi votavano. Lo leggevo nelle facce delle persone quando mi spiegavano perché “dovremmo smettere tutti di votare” e poi effettivamente non ci andavano (più).

Non è cambiato granché da quegli anni, se non che io sono diventato vecchio. O quasi.

A 48 anni, dopo 30 anni di votazioni, di occasioni sprecate, di Stato civile che vedo sempre più gettare alle ortiche, posso dire di essere diventato vecchio dentro, se non fuori.

Sono tanto, tanto stanco di tutto questo.

Io, che sono un italiano decisamente atipico, non trovo un posto per me, qui.

Io, che sono uno che non usa mai le piste ciclabili contromano, uno che, prima di fermarsi a chiacchierare sul marciapiede, si assicura che ci sia abbastanza spazio per far passare altre persone; uno che paga SEMPRE il biglietto per i mezzi pubblici (e, la volta che si dimentica, ne paga 2 la volta successiva); uno che, se ha tempo, lascia che altre persone passino davanti in una fila (chiedendo prima a chi sta dietro). Uno che, visto che può camminare, non solo lascia libero il posto riservato alle persone con disabilità, ma parcheggia lontano lontano e si fa una passeggiata, che non si sa mai che ci sia qualcuno meno abile di me che può beneficiare di un posto più vicino al tal ufficio. Io che le tasse le ho sempre pagate senza mai lamentarmi. Io sono quello che si pone le domande, continuamente. Son quello che si ferma, mentre cammina, per lasciare che i piccioni finiscano di mangiare senza spaventarli. Sono quello che porta il cibo ai gatti randagi.

Io sono quello che, pur lavorando presso un ospedale, non ha mai chiesto, preteso o accettato un trattamento di favore dai colleghi medici della stessa struttura, e ho sempre avuto le prestazioni dopo mesi come tutti gli altri. Io, che per anni ho pagato più IMU del dovuto ma non l'ho mai chiesta indietro al mio Comune. Io, che ho ricevuto quella cartella esattoriale di 1850 euro dall'Agenzia entrate e non mi sono lamentato, perché erano soldi che non avevo pagato prima, e ho pure ringraziato gli impiegati negli uffici per il lavoro che fanno. Io, che ringrazio l'Europa di esistere, pur con tutti i suoi difetti.

Io, che quando vedo una persona che ha la pelle di un colore diverso dal mio, non mi faccio domande. Se parla italiano, per me è uno di noi.

Ecco, io sono questo cittadino.

E ne ho pieni i coglioni. E ho perso qualsiasi speranza: non vedrò mai un'Italia giusta, né sul fronte dei diritti (anche civili), né nella “cultura”. L'Italia è diventato un posto dove si mangia bene (e peraltro manco l'unico) e stop.

Sono stufo di essere quello diverso, quello che è lui quello strano. No cari miei, quelli strani sono coloro che non hanno il mio senso civico, sono gli altri. Sono quelli che ieri e l'altro ieri non hanno mosso le chiappe dal divano se non per andare al mare. Sono quelli che non hanno votato, perché “altrimenti Landini prende 2 milioni” [falso] o perché “anche l'astensione è una forma di espressione”. No belli miei, con tutti i miliardi che lo Stato butta per darci la possibilità di esercitare uno dei cardini della democrazia, il minimo che puoi fare per non sprecare SOLDI PUBBLICI è che alzi le chiappe e vai a votare “NO”, se proprio non ti piacciono i quesiti, come ho fatto io tante volte.

Gli strani sono quelli che non hanno ancora capito che il problema, in questo Stato, non è il politico Barabba di turno: siamo “noi”, è la gente. I politici non vengono da oltremare o da Nettuno, vengono da noi, da questo Paese.

Sono persone che, come l'italiano medio, si lamentano continuamente e danno colpe a questo o a quello, ma non se ne prendono mai una. Continuano a dare le colpe a sinistra, tanto che ormai sembra quasi che la causa di tutti i mali sia la sinistra, ma non fanno un c***o per cambiare le cose, nemmeno quando ne hanno la possibilità. E in questo, purtroppo siamo perfettamente rappresentati dall'attuale Presidente del Consiglio, e molti altri.

C'è e ci sarà sempre “qualcun altro” che deve risolvere i nostri problemi, ma mai noi in prima persona. Noi siamo perfetti, non dipendono da noi i nostri problemi. Anzi. Certo, passiamo col rosso, ma perché abbiamo fretta. Superiamo il limite di velocità, ma solo un pochino. Ci facciamo licenziare apposta a fine luglio per godere di un mese di stipendio senza lavorare, col sussidio di disoccupazione, ma ce lo meritiamo più di altri. Poi a settembre si vedrà.

Mediamente, siamo quelli che si lamentano del traffico, ma poi parcheggiano in doppia fila perché “ non c'è più posto”.

Come le persone che si lamentano dell'immondizia in giro, ma non la raccolgono e inveiscono contro il Comune che “non pulisce abbastanza”, o contro la società dei rifiuti che, come ho sentito dire di recente, “ci costringe fare la differenziata, che dobbiamo fare?”. Sicuramente non devi buttarla nel campo. QUELLA non è la soluzione.

E con queste premesse, come volete che siano i nostri politici? Persone uguali a noi, altrimenti non le voteremmo. Ma siccome questi atteggiamenti li abbiamo tutti, non saremo mai rappresentati da nessuno che davvero faccia quello che si deve fare per risollevare il Paese. Anzi: visto che lo sport nazionale pare che sia fregare lo Stato, non vedo molte differenze, non c'è un “noi” e “loro” quando si parla di cittadini e politici.

E' per tutti questi motivi che vi dico addio.

Dopo l'ennesimo schiaffo, dopo la dimostrazione che a nessuno frega più nulla neanche dei diritti dei propri figli/nipoti/coniugi, allora non c'è davvero più speranza. Diventa una lotta contro i mulini a vento da cui mi sfilo non per ignavia, ma perché l'avversario, oltre che troppo grande, è inutile combatterlo.

Continuerò a fare quello che ho sempre fatto perché sono fatto così, ma con questo Paese ho chiuso: non è il mio, non mi ci sento bene. (Aggiungiamoci poi che ci sto male anche fisicamente).

Spero, un giorno, di poter chiudere anche letteralmente, spostandomi altrove e godendo di una pensione (se mai arriverà) che mi sono sudato fino all'ultimo centesimo e oltre.

(l' “oltre” è la parte che non arriverà mai, perché manco questo siamo capaci di fare: offrire un futuro ai cittadini onesti).

Una cosa è certa: a me la cittadinanza è arrivata nascendo qui da gente nata qui, ma se potrò scegliere qui non ci voglio morire.

Dove, ancora non so: ma ovunque tranne qui.

Ora datemi pure del vigliacco se vi va.

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Il canale Youtube su cui pubblico video e podcast, Grido Muto, presto cambierà nome.

Racconterò lì il processo che mi porterà altrove: la ricerca, le speranze, tutto. Seguitemi lì se vi va.

https://www.youtube.com/@gridomuto

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La mia vita a Tenerife? ☀️ Speranze e priblemi di un Malato Invisibile 🌫️🧍‍♂️❤️‍🩹.

Se preferisci ascoltare anziché leggere, puoi trovare qui questa puntata del podcast, la numero 17:

Ricordo il 2022 come un altro anno molto impegnativo. Oltre al cambio di lavoro, c'era ancora la pandemia ed era molto presente nelle nostre vite. Non riuscivo ad andare dai miei molto spesso, anche se ce ne sarebbe stato davvero molto bisogno, visto che il mio povero papà si era rotto un braccio cadendo sul ghiaccio; alla sua età non era un trauma da poco.

Guardando indietro a quel periodo, oggi faccio fatica a ricordarlo con precisione. Gli anni della pandemia, nella mia memoria, somigliano a una specie di frullato di ricordi. Faccio fatica a non percepirli come un qualcosa di unico, come se il tempo non fosse passato in quel periodo. Forse perché le giornate sembravano tutte uguali.

Ma i viaggi, quelli me li ricordo benissimo!

Si andava dove si poteva.

A gennaio a Ragusa, per vedere com'era l'inverno laggiù. La zona mi piacque molto, ma il clima non mi ha fatto stare bene. L'inverno lì era tiepidino, sì, ma anche tanto umido. E in estate, mi dicevano, si moriva dal caldo e dall'umidità, come in Emilia, se non peggio.

A marzo andai di nuovo alle Canarie per godermi la mia nuova macchina fotografica ed esplorare tutti gli angoli di Tenerife che ancora non conoscevo. Anche quella volta il suo clima mi fece stare molto bene, e cominciavo a guardarla con occhi diversi, quelli di chi iniziava a chiedersi: “Potrei vivere qui? Con quale professionalità? E in quale zona? E con quali soldi affrontare un trasferimento?”.

Sono tutte domande che chi vuole trasferirsi da qualche parte, qualsiasi parte, deve chiedersi. Figuriamoci per trasferirsi all'estero, e in particolare alle Canarie. E figuriamoci poi nella mia condizione.

Infatti guardavo l'isola valutando i vari paesi, anche in relazione alla distanza dall'ospedale e se fosse presente o meno un reparto di reumatologia.

Mi vedevo già in quella bolla di benessere, lontano da dove vivo ora, lontano da tutti quelli che conoscevo, ma finalmente senza dolore, coccolato da un clima perfetto: non troppo caldo in estate, ma non freddo d'inverno.

Ma poi, all'improvviso, una morsa fredda mi aveva stretto il cuore. Quel viaggio a Tenerife, in cui mi ero messo a fantasticare, è stato quello in cui ho aperto gli occhi sul mio sogno di un futuro migliore e ho cominciato a vedere le isole con una maturità interiore diversa. Non tutto è rose e fiori laggiù.

Da bambino sognavo di fare la rockstar, ma tre malattie invisibili hanno cambiato tutto. Oggi voglio far sentire il mio grido, che finora è rimasto muto, ma che deve essere ascoltato.

Questa è la storia di chi ha perso tanto, ma ogni giorno trova nuovi modi per farcela, in un mondo che non ha posto per i malati invisibili.

Ogni giorno che passa, migliaia e migliaia di persone si riversano alle isole Canarie, a causa della loro particolare bellezza e del loro clima da manuale. Probabilmente molti si sentiranno benebcome mi ci sento io, laggiù, e molti altri penseranno a quanto sarebbe bello viverci per sempre, coccolati dal sole tutto l'anno.

Probabilmente immaginano che vivere nell'arcipelago significhi andare in spiaggia tutti i giorni, a divertirsi estate e inverno, in un ambiente sociale rilassato e pieno di gente felice e allegra che vuole solo rilassarsi. Questo è ciò che immaginano tutti, ed è un'illusione in cui ero caduto anch'io all'inizio.

Grattando sotto la superficie, sia in quel viaggio che in tutti i successivi, sono arrivato a capire qual è la realtà. E la realtà è ben diversa.

Nelle ultime decadi, le isole Canarie sono state letteralmente prese d'assalto. Ogni anno milioni di turisti le visitano, attratti dai prezzi bassi (almeno fino a qualche anno fa) o dal clima. Milioni di europei passano da là: inglesi, francesi, italiani, belgi... chi più ne ha, più ne metta.

Il problema è che, a forza di metterne, in troppi hanno avuto la mia stessa idea.

Il settore edilizio ha praticamente fatto esplodere le isole principali di edifici, edifici e ancora edifici. Le isole maggiori sono al collasso. E intendo dire letteralmente.

Le infrastrutture non sono più sufficienti a contenere tutta quella popolazione in un territorio così piccolo e pieno di parchi nazionali.

Le autostrade sono estremamente trafficate e gli ingorghi sono praticamente costanti. I prezzi degli immobili sono lievitati fino all'inverosimile. Il cibo è sempre più costoso, visto che il 90% di ciò che si mangia e si beve – sì, anche l'acqua – viene importato.

Come se non bastasse, la regione delle isole Canarie è quella che, in tutta la Spagna, è la peggiore per possibilità di impiego e tenore di vita. Il poco lavoro che c'è è nel settore turistico, ormai saturo, e ci sono pochissime altre occasioni.

Vivere oggi alle isole Canarie significa abitare in un posto così lontano dall'Italia che, per raggiungerlo, ci vuole una giornata. Significa vivere in un posto con poca occupazione, con tanta disoccupazione, se vogliamo essere più chiari.

Ancora una volta avevo perso tutto. Ogni speranza di un futuro migliore era svanita.

Cosa mi aspetta ora? Non lo so. Ma so che una vita alle Canarie senza dolore è una prospettiva che vedo allontanarsi di più ogni giorno, a causa dei problemi che ti ho raccontato.

Devo viaggiare ancora per trovare altri posti che mi fanno stare bene, ma in cui è più facile vivere rispetto alle Canarie. Alcuni li ho già trovati: si tratta della Sardegna, della provincia di Murcia (all'interno, non sul mare) che si trova in Spagna, e un'isola della Croazia, l'isola di Krk (credo sia Cherso in italiano).

Speriamo che almeno questi posti restino come sono ora.

Come se tutto questo non fosse abbastanza, nell'estate del 2022 scoprii per puro caso che una collega aveva sintomi simili ai miei. Per la prima volta, dopo tanti anni, provai un senso di sollievo. Non dovevo spiegare nulla: lei sapeva già cosa sentivo.

“Anche tu hai l'artrite?” le chiesi.

E lei mi disse: “No, io ho la fibromialgia”.

Non sapevo neanche cosa fosse quella malattia, ne avevo solo sentito parlare vagamente, ma la collega descriveva il suo malessere con le stesse parole che avrei usato io per i miei.

Questa esperienza scatenò in me diversi ragionamenti. Anzitutto, cominciai a informarmi bene su cosa fosse la fibromialgia.

Sembrava un'altra cosa terribile.

Non appena capii di cosa si trattasse, compresi subito che molte persone che avevo conosciuto nella mia vita si trovavano nella stessa condizione della collega.

Semplicemente, descrivendomi come stavano, non avevano mai usato quella parola. Un'amica del mio paese, ad esempio, la madre di mia cognata e tante altre persone: tutte con gli stessi problemi. Affaticamento costante, dolore diffuso, mancanza di forza e rigidità articolare e muscolare. E, soprattutto, tanto, tanto dolore.

Una parte di me stava cominciando a capire che il problema mi riguardava, ma non avevo la forza per affrontare anche questo. I mesi passavano e non ci pensai. Ci sarei tornato sopra più avanti: avevo un'altra cosa a cui pensare.

Purtroppo, a fine aprile, in qualche modo presi il Covid, nonostante tutte le precauzioni. Fino a quel momento ero riuscito ad evitarlo e, invece, eccomi lì, ammalato di questa malattia strana e nuova e, per di più, con la mia condizione.

Non ho mai capito perché, ma quando ho una malattia molto forte, la psoriasi sparisce all'istante. Forse perché il sistema immunitario impazzito ha qualcosa di reale da combattere e allora si concentra su quello e non sulle mie articolazioni. Fatto sta che, per me, il Covid non è stato una passeggiata. Per i primi giorni la temperatura superò senza troppi problemi i 39 gradi, nonostante tutte le medicine. E quando dico “i primi giorni”, intendo due settimane. Poi si stabilizzò sui 38 per un'altra settimana, poi sui 37 e mezzo per un'altra ancora. E anche quando il tampone diventò negativo, cioè dalla terza settimana, avevo ancora qualche linea di febbre.

Rimasi a letto per tutto il tempo, a volte persino incapace di andare in bagno. Ricordo un dolore lancinante alla schiena, forte come quello che, vent'anni prima, mi aveva costretto all'immobilità per qualche giorno. In questo caso, forse, era ancora più forte. Potevo prendere soltanto del paracetamolo, perché in quel momento non si sapeva con esattezza se gli antinfiammatori avessero un senso nelle prime fasi della malattia. Dopo qualche giorno, però, li presi ugualmente, perché altrimenti non sarei riuscito ad alzarmi dal letto. Non sarei neanche riuscito a stare seduto sul gabinetto per il troppo dolore, figurati.

Nei mesi successivi alla “guarigione” — chiamiamola così — le cose non migliorarono. Non riuscivo a salire una scala senza fermarmi almeno due volte. Sul lavoro non ricordavo i cognomi dei colleghi che vedevo tutti i giorni, ma non ricordavo neppure i nomi. A tratti mi sembrava incredibile.

Prova a immaginare quanto è difficile ritrovare una mail, una qualsiasi mail, per esempio, senza ricordarti il nome, né l'oggetto, né chi te l'ha inviata, né il contenuto. Sai che esiste, sai che la devi trovare, ma non hai la possibilità di farlo. È stato un periodo difficilissimo, del quale ancora oggi sento le conseguenze.

Ci sono volte in cui non ricordo i nomi dei paesi intorno alla mia città, i nomi di persone con cui lavoro tutti i giorni, oppure indirizzi, eccetera. A volte vivo in un mondo tutto mio, in cui la mente è così offuscata e le percezioni esterne così amplificate e disturbanti che non riesco neanche a rendermi conto che sono in quello stato. Tutte le risorse mentali annaspano per cercare di capire qual è lo scopo, qual è l'obiettivo di quello che devo fare, senza riuscirci, senza neanche ricordare perché devo fare una certa cosa, o quale sia l'obiettivo.

Non ricordo i nomi dei programmi che uso o che ho usato in passato. E questo, per un informatico, purtroppo, viene visto come una cosa abbastanza grave. Per me, che la vivo, è chiaro che questa è una difficoltà, non incompetenza. Ma riuscirò a farlo capire all'esterno? Non si sa. Riuscire a farlo capire all'esterno è qualcosa di impossibile.

Nell'età della performance e della competizione, se non hai la risposta sempre pronta, ciò che viene percepito dall'altra parte è sempre che sei un incompetente.

E io sarei anche stufo di tutto questo. Ma è molto difficile sradicare queste convinzioni. È molto difficile far capire che un malato invisibile, pur con tutti questi problemi, rimane comunque una persona, ha un valore intrinseco e, soprattutto, non ha scelto lui o lei di avere questi problemi.

Con un po' di organizzazione e il giusto tempo può comunque fare il proprio lavoro.

Certo, sarebbe bello se le autorità riconoscessero la nostra condizione in qualche modo e ci dessero gli strumenti per affrontare la vita con le stesse possibilità di una persona sana.

Ad esempio, attraverso uno status di invalidità, che potrebbe incoraggiare le aziende a tollerare le nostre caratteristiche, ai loro occhi poco utili al business.

Ma questa è un'altra storia.

Mi auguro che le future generazioni non vivano tutto questo. Ma dipende anche da noi. Quanto siamo disposti a fare oggi affinché questa strana cultura che ci siamo creati cambi per sempre? Dipende anche da noi.

Io ho deciso di fare questo podcast per sensibilizzare le coscienze.

Condividerlo e parlarne, aquesto punto, spetta soltanto a te.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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