GRIDO muto (podcast)

MalattieInvisibili

⚖️ Uomini e Donne: Stesse Patologie, Diverse Battaglie.

In questo episodio voglio condividere con te una riflessione profonda sulle malattie invisibili, in particolare quelle che affliggono me e che vengono vissute in maniera molto diversa dalle donne rispetto agli uomini.

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Se preferisci ascoltare anziché leggere, puoi trovare qui questa puntata del podcast, la numero 18:

Siamo abituati a pensare a uomini e donne sin da bambini: uomini/donne, maschi e femmine. Negli ultimi anni, però, si è iniziato a considerare che il confine non sia così netto e, per quanto mi riguarda, io lo trovo ragionevole. In questa puntata parlerò di uomini e di donne, ma ti chiedo di considerare in senso ampio e inclusivo i miei ragionamenti. Non voglio che nessuno dei miei ascoltatori si senta offeso o offesa se ha un'identità di genere diversa dalle uniche due che sto citando. La mia intenzione non è quella di offendere, ma di rendere fluido e scorrevole il discorso. Fatta questa premessa, possiamo andare avanti. Uomini e donne: in ogni occasione ci viene ricordato che siamo diversi, che ci sono cose da maschi e cose da femmine, che se sei una donna certe cose non puoi e non devi farle e viceversa. A noi maschi viene insegnato, tra le altre cose, che gli uomini, i veri uomini, non piangono mai. Essere uomini significa, innanzitutto, non mostrare le proprie debolezze e i propri limiti. Mostrarsi deboli, quindi, nell'immaginario collettivo, significherebbe essere meno uomini e anche questa cosa ci viene insegnato che non è per niente desiderabile. Quando un bambino piange, spesso gli viene detto: “Ormai sei un ometto”. A volte, quando il bambino dimostra sensibilità o lacrime, gli amichetti gli dicono che è una “femminuccia”. Anche in questo caso, essere femmine viene dipinta come una cosa brutta, persino una colpa, ed essere sensibili è una cosa da femmine e quindi brutta. Da notare che viene usato il diminutivo in senso dispregiativo: femminuccia, piccola femmina, mentre la parola maschietto non ha lo stesso peso. L'insegnamento implicito che ne ricava ogni bambino è che essere femmine è una cosa sbagliata, brutta, meno desiderabile; e le caratteristiche che si attribuiscono convenzionalmente alle bambine sono qualcosa da cui stare alla larga. Stessa cosa, ma ribaltata, per una bambina a cui viene detto che è un maschiaccio. Dal punto di vista di una certa cultura essere maschi, interessarsi a certe cose, è deprecabile: non va bene per una bambina che prima o poi sarà una donna. Sono cose su cui è molto interessante e doveroso riflettere, ma per il discorso che voglio affrontare oggi mi concentrerò sui piccoli uomini, sui bambini, per un momento. Da quando sentiamo quelle parole, la nostra vita di uomini è già segnata. Spesso cresciamo maschilisti senza neanche accorgercene. Nella lingua spagnola c'è una bellissima parola che riassume tutto questo, che è “machismo”. “Macho”, maschio, “machismo”. Breve e concisa. In italiano potremmo tradurla con maschilismo, ma ancora meglio, mascolinità tossica. La mascolinità tossica pervade ogni aspetto della nostra vita. È così tanto diffusa e presente in ogni momento delle nostre giornate che spesso non ce ne accorgiamo neanche; è un dato di fatto. La mascolinità tossica non è soltanto quella di chi uccide la moglie o violenta una donna, ma nasce già dalle parole, come nei casi che ti ho riportato poco fa. Quello che è dentro la mente, in qualche modo, emerge, viene fuori. Se nella nostra mente ci sono pensieri machisti, daranno vita a parole che in altre persone faranno nascere a loro volta simili pensieri, in una catena infinita. Anche io ho usato male le parole per tanti anni, troppi, e continuo a farlo a volte sbagliando. Non mi sto giustificando, ma quello che accade è che, come tanti altri uomini, ci sono così abituato che non ci penso e non va bene, non va affatto bene questa cosa. C'è voluta l'artrite e la fibromialgia per farmi riflettere. Anche tu hai avuto pensieri sessisti e te ne sei accorto o accorta dopo molti anni? Fammi sapere. Lascia un commento. Io, a un certo punto, mi sono reso conto di quanto fossero forti in me i condizionamenti che avevo ricevuto durante l'infanzia e l'adolescenza, anche dall'ambiente in cui mi sono evoluto. La mascolinità tossica è sempre stata presente, a volte silenziosa, ma presente, altre volte latente nella cultura in cui ero immerso. Ho ripensato a tutte le volte in cui, anche inconsciamente, mi sono tenuto tutto dentro perché non se ne doveva parlare, non si poteva dire, non si doveva dire.

Debolezza —> NON PARLARNE!

Stress: —> NON PIANGERE!

Tristezza: —> NON FARLO SAPERE!

Sofferenza: —> TI SCOPRIRANNO!

Fatica: —> E’ PER LE FEMMINE!

Emozioni: —> NON PIANGERE, NON FARLO SAPERE, TI SCOPRIRANNO, NON PARLARNE, E’ PER LE FEMMINE!

Queste sono solo alcune delle cose che ci portiamo dentro.

Se riuscissimo a essere davvero onesti con noi stessi, e sto parlando agli uomini adesso, guarderemmo tutto questo con disgusto e vorremmo togliercela per sempre. Solo che…è tutto molto comodo. ci dà quella sensazione di privilegiata sicurezza a cui è molto difficile rinunciare. Tutto questo non avviene soltanto a scapito delle donne e già questo sarebbe un motivo sufficiente per smettere di farlo, per cambiare, ma provoca tanto danno a tutti: donne, uomini, individui non allineati alle uniche opzioni accettate dalla società. Purtroppo, la verità è che viviamo in una società molto machista, in cui queste dinamiche sono molto più frequenti di quanto si potrebbe pensare e poi siamo tutti costantemente condizionati in questo senso dalla televisione, dalla politica, dalla moda, da chi ci sta intorno e dai modelli idealizzati che ci vengono messi davanti sin dalla tenera età, come se fossero l'unica via giusta, l'unica strada che può essere percorsa. Ma poi questi modelli chi li ha decisi? Il modello è semplice: tanto più ci si allontana da tutto ciò che potrebbe farci passare per femminucce, più veniamo considerati vicini al modello maschile, qualsiasi cosa sia, perché ricordiamoci che per la narrazione tossica le donne sono qualcosa di brutto, di debole, da prendere in giro, da non prendere troppo sul serio e in generale simbolo di fragilità, soprattutto emotiva.

Non mi sto inventando niente.

Basta guardare la storia e i fatti di cronaca, ma anche banalmente la vita di tutti i giorni. Come dicevo, i condizionamenti che riceviamo non fanno male soltanto alle donne o alla società in cui viviamo, ma anche agli stessi uomini. Io ne sono un esempio vivente. Ti ho raccontato cosa ho vissuto e cosa sto vivendo da ammalato di patologie croniche che non avranno mai una soluzione. Immaginati cosa ho provato quando non riuscivo ad alzarmi dal letto attorno al 2010, te lo raccontavo negli episodi precedenti. Più stavo a letto, più mi sentivo morire dentro perché inconsciamente volevo fuggire da quella debolezza, quella debolezza che non credevo fosse giusta per il mio genere.

La stessa cosa mi è successa sempre anche nel mondo del lavoro. Non so dirti perché, ma l'informatica è percepita come una roba da maschi. Per un bel po' di tempo nel mio mestiere si sono visti più uomini che donne e certi ambienti in cui mi sono ritrovato a lavorare erano pesantemente intrisi di mascolinità tossica. In quegli ambienti tutto diventava una gara a chi faceva di più, a chi era il bambino più bravo degli altri, che poi, ovviamente, lo faceva notare. Quando si sbagliava qualcosa, c'era subito la corsa a trovare il colpevole e a farglielo notare con tanto di “io non sbaglio mai”, poi soltanto dopo si risolveva il problema. Spirito di squadra non pervenuto. Io credo che anche questa fosse mascolinità tossica: la voglia di arrivare prima degli altri, di imporsi, di fare la figura del più “macho”.

In un contesto simile si genera molta tensione non necessaria ed è tutto molto più faticoso senza motivo. Immagina come passavo le mie giornate, soprattutto quando ho scoperto di avere qualcosa di più di un'influenza. Mentalmente ero lacerato, diviso in due: da una parte volevo gridare a tutti come mi sentivo, volevo urlare che mi sembravano tutti impazziti e che esistevano problemi più grossi della gara sciocca cui tutti stavamo partecipando, quella gara a mostrarsi sempre perfetti, veloci e con qualche abilità in più rispetto al compagno di scrivania. Perché non sia mai che una debolezza o una carenza possa essere mostrata. È una roba da femmina, no? Dall'altra parte non riuscivo ad esprimermi, sicuramente quello non era l'ambiente migliore per farlo e tutti i condizionamenti che avevo accumulato nella vita non mi aiutavano di sicuro.

Dire che non riuscivo a stare al passo avrebbe significato non solo esternare una mia carenza, una mia mancanza, ma anche espormi a facili ragionamenti di superiorità da parte di alcune persone, perché si sa, per un portatore di mascolinità tossica non c'è niente di più soddisfacente che sentirsi superiori a tutti, anche ad altri maschi. Forse anche per questo motivo tendevo a essere sempre disponibile, a fare sempre di più, a cercare di ignorare le mie fatiche e il malessere per dimostrare a me stesso che, in fondo, nonostante la malattia che si presumeva stesse emergendo (e io lo sentivo molto bene anche prima della diagnosi) potevo comunque fare tutto come gli altri, quelli bravi, per così dire. Potevo portare a termine i compiti che mi venivano affidati e persino spiccare tra loro, a volte. È incredibile quanto un ambiente tossico possa condizionarci!

Questo è solo uno degli esempi di come la mascolinità tossica possa danneggiare anche i maschi stessi. Ci poniamo obiettivi irrealizzabili, ci autocondizioniamo a una sofferenza muta, assurda, incompresa, solo perché crediamo che i veri maschi non piangano e invece c'è da piangere, eccome! È umano, è normale quando si soffre. Anzi, sarebbe strano il contrario. Io mi fido molto di più di chi piange, di chi non ha problemi a mostrare che fa fatica, che soffre. Significa che non mi sta nascondendo nulla e che ha fatto un percorso difficile tra le sue emozioni. Queste persone meritano solo un abbraccio e la mia comprensione.

Purtroppo, però, in questa strana società che ci siamo costruiti non c'è più spazio per le incertezze, per le debolezze, per il pianto, per il crollo emotivo, per le crisi. Se ci pensi bene, come dicevo poco fa, tutte queste cose nell'immaginario collettivo sono caratteristiche che sono ritenute femminili ed è per questo che molti uomini non vogliono mostrarle, temono di essere additati come femminucce, come meno uomini, insomma. E tutto questo perché ci siamo autocreati dei modelli che sono sbagliati o non raggiungibili. Pensaci: le donne non sono tradizionalmente considerate creature fragili, ansiose e soggette a crisi isteriche. Tutto questo, ovviamente, è del tutto falso. Si tratta di pregiudizi, di una visione maschile tossica su un'umanità che in realtà ha milioni di sfaccettature e vive mille condizioni, anche di salute, e il sesso è davvero l'ultima cosa che ci distingue. Ma a parte questo, ti assicuro che quando i dolori non sono periodici, ma giornalieri, e spesso non si riesce neanche a farli passare, beh, allora chiunque di noi avrebbe attacchi di panico, attacchi d'ansia e un facile esaurimento nervoso o crisi di isteria. È normale, e non c'è sesso o identità che sia più o meno meritevole del diritto di piangere. Pensa che persino oggi, nel 2024, mi capita tanto spesso di incontrare persone che quando dico loro di avere la fibromialgia mi rispondono: “Ma sei sicuro? È una roba da donne”. E invece no. È solo che statisticamente ci sono più donne tra i pazienti. Ma poi cosa vuol dire? Sono certo che tanti uomini non raccontano che soffrono proprio per tutti i condizionamenti di cui parlavamo poco fa. E in ogni caso, anche se fosse una roba da donne, cosa vuol dire? Non avrebbe meno valore, no? Quindi dovrei ignorarla? Cosa significano questi ragionamenti? Vedete, altri esempi di mascolinità tossica!

Durante la scrittura dei vari episodi di questo podcast è accaduta una cosa che mi ha colpito molto. Ho postato uno sfogo su un gruppo Facebook dove tantissime persone ammalate cercano risposte, comprensione e supporto. Il gruppo di cui parlo si chiama “Artrite psoriasica”. Lì diverse persone, che ringrazio molto, mi hanno dato conforto, una cosa di cui abbiamo tanto bisogno a volte. È bello comprendersi fra sconosciuti, ci fa sentire meno soli, ma allo stesso tempo ci espone alla consapevolezza che tante, tantissime persone, purtroppo, stanno passando quello che passiamo noi. Bene, su quel gruppo una ragazza di 32 anni mi ha lasciato una risposta più lunga delle altre. Mi diceva che capiva benissimo come mi sentissi e che l'idea di fare il podcast, secondo lei, sarebbe stata fallimentare, purtroppo, perché nessuno ci avrebbe ascoltati. Oggi, tristemente, mi tocca darle ragione. A proposito della mia volontà di parlare di come sto da uomo ammalato, lei mi ha scritto: “Se foste di più, forse avreste e avremmo più speranza. Noi donne, se ci esponiamo, siamo le classiche lamentose, inutili”.

Quest'ultima frase mi ha colpito profondamente perché purtroppo è vera. Le donne, o in generale le persone stigmatizzate ed emarginate, sono costrette in questa società a vivere cose molto diverse da moltissimi maschi, sono destinate a vivere le cose molto diversamente, ma se c'è una cosa che la malattia mi ha insegnato è l'empatia, e non sono riuscito a restare indifferente dopo questo messaggio. Ci ho riflettuto a lungo e continuo a farlo. Ho pensato che una puntata del podcast sarebbe dovuta essere destinata per forza a questo tema.

Penso a chi ha il ciclo e si presume che debba sopportarlo senza lamentarsi troppo. Anzi, ci si aspetta che queste persone siano ugualmente produttive, sia in famiglia che sul lavoro. Penso alle persone transessuali ammalate di artrite e fibromialgia che hanno combattuto o stanno combattendo una battaglia enorme e sono costrette ad accollarsene un'altra infinita. Penso a tutte le altre persone deboli o indebolite dalla vita, anch'esse e anch'essi combattenti in questa battaglia contro la società e l'artrite (ci siamo capiti).

Tornando alle donne, penso a quelle che soffrono di artrite, di fibromialgia o anche di psoriasi e non vengono credute perché donne. In fondo, le donne stanno sempre male, no? Piangono sempre. Ironia della sorte, le donne sono effettivamente la maggior parte dei pazienti che soffrono di questi problemi. Hanno sempre qualcosa che non va nell'immaginario collettivo maschile: il mal di testa, il ciclo, emozioni facili e crolli emotivi. Tanti pensano che piangano continuamente e quindi che differenza fa se piangono perché dicono di avere l'artrite? È un pianto come un altro alla fine. Fino ad ora non avevo mai pensato che potesse esserci una qualche differenza nella percezione di quanto possono soffrire pazienti come me in base al genere e invece c'è e come e sono contento che qualcuno, che ringrazio, mi abbia dato una spinta per tirare fuori tutto questo. Il maschilismo latente mi stava fregando un'altra volta; neanche ci pensavo. Una donna verrà creduta più difficilmente se soffre per artrite e fibromialgia e, purtroppo, le saranno concesse ancora meno scusanti in molti ambienti. Sul lavoro, ad esempio; in Italia non abbiamo nemmeno permessi dedicati per concedere una pausa a chi ha il ciclo e generalmente le donne non possono ancora, di fatto, ambire a posizioni e stipendi sempre identici a quelli di un uomo.

Oltre a tutto questo, poi, tanti lasciano che le faccende domestiche ricadano sulle donne. La cura dei figli, ad esempio, la pulizia, la cucina, sono tutte faccende ritenute ancora da femmine e tutte queste cose si sommano alle eventuali malattie che possono esserci e non riesco neanche a immaginare come potrei fare io se dovessi crescere un figlio da solo e da malato invisibile. Vi sembra giusto tutto questo? A me no. Perché le cose cambino, dobbiamo cambiarle noi, noi uomini anzitutto. Come si fa? Intanto iniziamo a ragionare. Pensiamo a tutti i concetti che ho espresso in questo episodio e a tutti gli altri sottintesi che non ho espresso, e chiediamoci sinceramente se non abbiamo mai avuto pensieri tossici come maschi. Se li abbiamo avuti, abbracciamoli, affrontiamoli e facciamo in modo che non tornino più. Agli uomini dico di non vergognarsi più di piangere, di mostrare quello che siamo e le nostre sofferenze. Il modello di virilità che conosciamo ci è stato imposto ed è tutto falso, non è detto che non lo si possa cambiare. Ciò che siamo, uomini appunto, non cambierà. Ci vuole ben di più di una malattia, di una difficoltà o di un pianto per cambiarlo. Non abbiamo davvero niente da temere, ma tutto da guadagnare. Condividi l'episodio con quante più persone puoi in modo da sensibilizzare tutti su un tema che riguarda tutti, l'uguaglianza.

Donna, uomo o chiunque tu sia, ti aspetto martedì prossimo per un altro importante episodio di Grido Muto in cui ti racconterò cosa faccio per curare l'artrite.

Qui c'è spazio per tutti.

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🔙✨ Come ho affrontato la mia prima diagnosi di artrite: superare il passato e la depressione 🏥🩺💪

<< Ogni cosa sembrava richiedermi uno sforzo così grande che non iniziavo neanche a farla. Sentivo che non ne valeva la pena e non sarei riuscito a completarla. Ogni compito che mi veniva affidato sul lavoro non faceva che alimentare questa sensazione di inadeguatezza, di pesantezza, di impegni che erano sempre più grandi, così tanto grandi da fare paura. E in tutto questo, ovviamente, il dolore non passava. >>

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Se preferisci ascoltare questo episodio (il 15°) anziché leggerlo, puoi farlo a questi indirizzi:

Nel corso della mia vita mi sono sempre sentito a disagio con tutte le situazioni in cui non riuscivo a venire a capo dei problemi che dovevo risolvere. Sono certo che sia capitato a tutti, ma se anche tu sei un malato invisibile, credo che tu possa capire molto meglio cosa intendo con energie limitate e continui problemi di salute da affrontare. La nostra esistenza si trascina piuttosto che svolgersi.

Ci sono poi eventi che non è possibile controllare, come quelli che ti raccontavo nell'episodio precedente. Prima di scoprire che la mia vita stava procedendo verso un abisso, mi era molto più facile riprendermi dalle difficoltà. Non credo che sia stato semplice superare tutto quello che ti ho raccontato, ma in qualche modo credevo che fosse una specie di allenamento. Ho sempre creduto che la vita mi stesse lentamente spronando a lasciare andare, accettare lo scorrere del tempo. Ricorda che in quegli anni non ero cosciente delle mie patologie ed ero ancora convinto che i problemi dipendessero solo dal normale invecchiamento.

Negli anni precedenti alla perdita del lavoro avevo regalato a Samuele, mio nipote, la chitarra nera che avevo comprato nell'estate del '96. Me l'ero sudata tutta e aveva un valore anche sentimentale particolare per me, essendo stata la mia compagna di tanti momenti memorabili e belli, ma effettivamente non ne avevo più bisogno e gliel'avevo regalata molto volentieri. D'altra parte, io avevo la chitarra di Steve in mano.

Giusto a gennaio del 2017, però, non riuscivo più a suonare. Ci avevo provato tanto, ma già l'anno precedente mi ero reso conto che le dita, anche se si spaccavano meno rispetto a tanti anni prima, ormai mi facevano male continuamente. Un male diverso da quello superficiale della pelle, un dolore profondo, diffuso a tutte le articolazioni della mano e molto molto intenso. Le medicine indiane che prendevo mi aiutavano molto in questo senso. Ti ricordi quelle di cui ti avevo parlato e che mi aveva consigliato il medico ayurvedico nel mio viaggio in India? Ma rispetto al passato mi ero ritrovato a prenderle tutti i giorni anziché sporadicamente. Nonostante questo, le dita non avevano più forza e non si muovevano in accordo con quello che il mio cervello diceva loro di fare e suonare era dolorosissimo. Mi piangeva il cuore, ma suonare in quelle condizioni era impossibile.

Più ci provavo, più il dolore aumentava, fino a impedirmi di muovere le mani. La precisione, l'agilità e la flessibilità delle mie mani erano sparite. Dall'amplificatore uscivano suoni senza senso, note stonate, gracchianti, che non comunicavano nessuna emozione se non lo schifo che provavo io ascoltandole.

Nel corso del tempo avevo accumulato vari strumenti, cinque chitarre elettriche e una acustica. Li avevo acquistati con molta fatica, a parte la chitarra di Steve by che, per un colpo di fortuna, mi ritrovavo tra le mani. Ma ora tutti quegli strumenti restavano in un angolo a prendere della polvere, ricordandomi a ogni sguardo quello che era stato e che non poteva essere più, quello che io ero stato e che non avrei mai più potuto essere. Era evidente che i tempi andati non sarebbero tornati. Avevo perso tutto. Dissi a mio nipote Samuele che avrebbe potuto prenderli tutti lui, se lo desiderava, un prestito a tempo indeterminato. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avere dato nuova vita a quegli strumenti. Samuele suonava già la chitarra in quegli anni. Gli avevo forse attaccato io questa malattia? Oggi ho la consapevolezza che quelle chitarre ora stanno facendo quello per cui sono nate: dare gioia. Ne stanno dando a lui e quindi ne stanno dando dieci volte di più a me.

C'era anche un'altra situazione senza via d'uscita che sentivo di dovere risolvere in qualche modo. Avevo un sacco di tempo e niente da fare per riempirlo se non cercare lavoro. Il mio istinto mi diceva che avrei dovuto studiare, finire quella laurea che avevo lasciato in sospeso, ma non ne avevo più le energie. Faticavo a tenere le penne in mano e a scrivere più di qualche parola, ma anche a reggere qualcosa di così pesante come un corso di laurea in ingegneria. Nel giro di due mesi avrei compiuto 40 anni, 40 anni e non avevo neanche terminato il primo anno di studi. Di questo passo avrei finito magari a 50 anni, troppo tardi. Cosa avevo combinato nella vita? Sarebbe stato del tutto inutile insistere, avrei solo perso altri soldi. Quindi chiusi anche con l'università. Mi sentivo triste perché avevo perso un'altra delle cose che ero stato, un altro pezzo di me, ma mi sentivo anche più leggero. Due situazioni stagnanti che per me erano diventate solo un rimpianto e un peso ora non c'erano più. In un modo o nell'altro si erano chiuse, non dovevo pensarci mai più. Non so come, ma questo pensiero mi aiutava. Avevo preso la decisione che era tempo di guardare avanti. La vita mi aveva sferrato un brutto colpo tra la perdita del lavoro e tutto il resto, ma il rovescio della medaglia era che pensavo di averlo superato e di essere finalmente più resistente. Credevo di esserne uscito più forte e in effetti mi sentivo davvero più forte. Avevo superato tante situazioni difficili nella vita e alla fine ne ero sempre uscito, quindi che ne arrivasse pure un'altra, ormai non c'era più niente che potesse fermarmi. O quasi.

Con questo spirito, a marzo del 2017 avevo deciso di non pensare più al passato e dare un nuovo corso alla mia esistenza, finalmente libero dalla morsa della procedura di fallimento. Avevo iniziato un corso professionale su un argomento che mi affascinava da sempre. Sto parlando della virtualizzazione dei server, parolone che se non sei un informatico esperto ti dirà poco, ma in sostanza si tratta di mettere i server uno dentro l'altro, come si fa con le matriosche. Grazie a queste tecnologie, al giorno d'oggi si riescono a risparmiare tantissimi soldi rispetto al passato, ma anche a migliorare l'efficienza delle macchine e ridurne l'impatto ambientale, soprattutto per i grandi data center. Io credo che sia affascinante. Avevo già capito che l'unico modo per restare a galla in questa società è quello di cambiare, di evolvere, di espandere la propria conoscenza. La società della performance, d'altra parte, ci vuole così. Il corso che iniziai a fare trattava di informatica avanzata e, al di là del fascino, mi sembrava che fosse una via saggia da intraprendere, soprattutto per chi come me aveva dovuto accantonare anche il sogno di una laurea. Sicuramente mi avrebbe aiutato a trovare un nuovo lavoro, magari anche più appagante. Poi, questo tipo di tecnologie rappresentava un po' la somma e l'espansione di tutto quello che già conoscevo nell'informatica, quindi la mia conoscenza si sarebbe nuovamente ampliata notevolmente. Sarei diventato finalmente più interessante per le aziende. Quando avevo iniziato a lavorare tanti anni prima, avevo idea che a un certo punto, dopo avere accumulato tanta esperienza, tutto sarebbe stato più semplice. Niente di più lontano dalla verità. Il mondo del lavoro è un mostro con migliaia di teste, una specie di Cerbero dei giorni nostri che è impossibile da domare, salvo in rari casi. Anche se non sei un malato invisibile, non sarai mai abbastanza, non farai mai abbastanza, chiederai sempre uno stipendio troppo alto perché si pretende il meglio da tutti e ci sarà sempre qualcuno più bravo di te o disposto a lavorare per uno stipendio più basso. Cerbero considera tutto questo, le tue aspirazioni e le tue attitudini saranno quasi sempre ignorate, ed è un vero peccato questo, perché è proprio quando si valorizzano i talenti che le persone danno il meglio di sé. Questa miopia tutta italiana è qualcosa che ci sta rovinando, a mio parere, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. In questo contesto è impossibile venire a capo, anche da sani. Figuriamoci quando hai una spada di Damocle sulla testa, come accade a me e a tutti gli altri malati invisibili. Quello che speravo nel 2017 si è realizzato solo in parte. Dopo il corso sulla virtualizzazione, un nuovo lavoro era arrivato molto presto e anche in famiglia c'erano belle notizie. Mio papà poteva finalmente tornare a casa dopo un lungo ricovero in ospedale e un intervento che lo aveva messo a durissima prova. Sembrava che io fossi riuscito ad evitare l'abisso, ma non avevo capito che ci stavo finendo direttamente dentro.

Apparentemente filava tutto liscio. Il nuovo lavoro mi piaceva, anche se era molto diverso da qualsiasi altra cosa avessi mai fatto prima. Era faticoso inserirsi in un'azienda molto grande in cui quasi tutto era nuovo e i problemi dell'informatica si risolvevano in maniera molto diversa rispetto alle altre aziende in cui avevo lavorato. Ma è anche vero che c'erano tanti stimoli e il corso sulla virtualizzazione che avevo appena fatto aveva finalmente un impiego pratico. Avevo ripreso a viaggiare, mosso dal desiderio di rivedere le Canarie. Ci volevo tornare, come ti dicevo, non passava giorno senza che ci pensassi. Avevo già maturato l'idea che avrei voluto trascorrere lì il resto della mia vita, se avessi potuto. Iniziai a sognare Fuerteventura già molto tempo prima di arrivarci. A gennaio del 2018 finalmente partii per scoprire quest'isola fantastica delle Canarie, emozionato come un bambino piccolo a Natale. Volevo capire quanto fosse diversa da Tenerife, l'isola che mi aveva fatto innamorare, e volevo anche vedere come avrei reagito davanti ai suoi paesaggi desertici, così particolari. Devi sapere che a Fuerteventura non cresce neanche un alberello. Raccontata così potrebbe sembrare un posto bruttissimo, ma ti assicuro che trovarsi lì a contemplare le sue distese che sembrano quasi marziane, così vuote come sono e color pastello, il suo deserto dorato con le sue dune che si gettano in un oceano turchese, è qualcosa di veramente magico. Ho avuto la fortuna di vederla in un momento in cui non c'era nessuno e mi ritrovavo spesso da solo ad ammirare una spiaggia così grande che non si riusciva neanche a vedere dove finisse all'orizzonte. Fuerteventura però non mi aveva fatto venire la voglia di viverci. Dopo qualche giorno il paesaggio continuavo a vederlo bello e interessante, scattavo tantissime fotografie, ma l'isola era pressoché vuota e tutto quel vuoto mi metteva un po' di angoscia e di tristezza. Fuerteventura non era calda e vitale come mi aspettavo, ma in ogni caso sempre meglio che rientrare nel buio dell'inverno emiliano, nel freddo della pianura. Sarei rimasto lì molto volentieri. Su, nella peggiore delle ipotesi, avrei trovato 18° al ritorno a casa. Un'altra influenza terribile mi costrinse a letto per settimane. Pensare che il mio sistema immunitario fosse indebolito e imbot mi dava do, ma allo stesso tempo mi ammalavo tanto spesso e questa cosa per me era inspiegabile.

Con il passare dei mesi mi ritrovai sempre più spesso esausto, a digrignare i denti e cercare di sopravvivere in quel posto di lavoro che aveva a che fare con il mondo sanitario e di conseguenza mi dava tanta tanta ansia. Ormai tutto è informatizzato e se non avessi svolto bene il mio lavoro avrebbero potuto esserci delle conseguenze dirette sulla vita dei pazienti. Non ero certo che avrei potuto tollerare a lungo questo stato di cose, anche perché non si perdeva occasione per ricordare a me e ai miei colleghi quanto fossimo inadeguati per questo ruolo. Le dita delle mani mi facevano male sempre di più, così come le articolazioni e le dita dei piedi. Andando in palestra avevo messo su nel corso degli anni tanta massa magra e poi ero anche ingrassato un po', e ora i 90 kg abbondanti si facevano sentire ad ogni passo. Per questi dolori ai piedi il medico mi mandò da un fisiatra, ma la visita fu del tutto inutile. Mi venne detto che avevo 41 anni e, come tutti i quarantenni, avrei dovuto riconsiderare il mio abbigliamento: via le scarpe rigide, benvenute le scarpe alte e gommose. Mi era anche stato suggerito di mettere dei plantari ortopedici. A me questa proposta convinceva veramente pochissimo, tanto più che nonostante li avessi presi non stavano risolvendo il problema. E per quanto riguardava le mani, beh, ormai facevano proprio male anche lavorando sulla tastiera tutto il giorno, così come i polsi, il collo, gli avambracci. Davo la colpa alla palestra e all'età, ma una parte di me sapeva che non era così.

Verso fine anno fu la sostituta del medico di base a prendere in mano la situazione. “Quella che ha sulle mani è psoriasi, lo sa?” mi disse. Mi era già stata detta questa cosa, ma continuavo a non crederci. “No, no,” le risposi, “è allergia, sono allergico al nichel.” “Io non ci giurerei,” disse la dottoressa. “Facciamo una cosa, andiamo da un dermatologo.” Ci andai subito e il verdetto venne confermato: psoriasi. Questa roba strana e pruriginosa che mi aveva devastato le mani e le altre parti del corpo per anni era sempre stata psoriasi e io non l'avevo mai saputo, o meglio, avevo fatto finta di non saperlo. Ora non potevo più ignorarla.

Quando tornai dalla dottoressa le parlai del verdetto e, visto che ero lì per l'ennesimo mal di schiena, lei fece uno più uno. Mi chiese se avessi mai fatto una visita in reumatologia, notando anche il colore rosso della mia barba. Mi suonava veramente strana questa domanda: perché sarei dovuto andare in reumatologia? Ero mica un vecchio! E poi, cosa c'entrava il colore della mia barba? Ma siamo impazziti?

Nel corso dell'anno le cose cominciarono a peggiorare, però. Nel 2019 tutti i dolori aumentarono e non c'era volta che andassi in palestra senza tornare con qualche dolore pesante. Ricordo che una volta, per circa un mese, non fui neanche in grado di infilarmi la giacca a causa di un dolore alla spalla estremamente forte. Il reumatologo mi fece mille domande, ma una in particolare mi fece gelare il sangue. “I dolori che sente aumentano o diminuiscono di notte?” Risposi che aumentavano, e anzi, alcuni uscivano fuori proprio di notte o comunque non appena mi risvegliavo. Mi visitarono tante volte nel corso dell'anno e all'ultimo incontro mi dissero che la diagnosi non poteva essere ancora certa. Avrei dovuto prendere degli antinfiammatori eventualmente più forti, specifici per chi ha l'artrite o problemi simili, poi avremmo visto come andava, se il dolore poteva essere gestibile. Col senno di poi, quel medico aveva capito tutto, ma probabilmente non aveva ancora degli elementi certi per fare la sua diagnosi e non si sbilanciò. Mi visitarono tante volte nel corso di quell'anno a intervalli regolari e mi fecero tantissime domande ogni volta. Soltanto verso la fine dell'anno mi fecero fare una risonanza al bacino, visto che il dolore nella zona lombare era tornato e si era fatto costante. La risonanza mise in evidenza delle calcificazioni dolorose e molto caratteristiche che si trovavano sulle creste iliache e in altre zone del bacino. Il medico mi fece anche delle ecografie estremamente approfondite a mani e piedi. Ci volle quasi un'ora e alla fine mi disse che l'ipotesi dell'artrite prendeva forma con più corpo. Era probabile.

Non riuscivo ad accettare questo verdetto e nemmeno a parlarne con nessuno. La cosa non era ancora certa, ma il verdetto mi aveva colpito profondamente. Era qualcosa di troppo grande, troppo importante per poterlo elaborare in poco tempo. Avere questa cosa aumentava e mi sembrava che ci fosse un peso enorme sopra di me, quello di un mostro che aspettava soltanto il momento giusto per saltarmi addosso e togliermi tutte le cose belle. Anzi, ora cominciava a essere molto chiaro che il mostro era già saltato sopra di me e mi aveva già tolto tutte le cose belle. Non potevo crederci, non ero così vecchio. Non sapevo bene cosa significasse questa cosa, ma mi era chiaro che era qualcosa di degenerativo e che il dolore sarebbe aumentato per sempre, fino a manifestarsi dappertutto. Avevo tanta tanta paura. Pensavo che la vita fosse finita. Avevo letto infatti che esistono forme di artrite che colpiscono solo alcune parti del corpo, ma l'artrite psoriasica colpisce le articolazioni e i tendini, potenzialmente tutte le articolazioni e tutti i tendini. Riesci a immaginarlo? Tende a creare calcificazioni, gonfiore e anche effetti peggiori.

Mi tenevo tutto dentro, cercando di non cedere al richiamo di un futuro oscuro che sembrava dietro l'angolo. Non sapevo cosa fare. Mi tenevo tutto dentro, non ne parlavo con nessuno. Tanto non avrebbero capito. Poi, per dire che cosa? Per descrivere che cosa? Non sarei riuscito neanche a spiegarlo. Non sapevo come fare allora, a malapena ci riesco oggi. Figurati. Questo non toglie che stessi sempre peggio. Avevo iniziato a prendere antinfiammatori molto più spesso di prima. Era l'unico modo per tirare il fiato, per togliersi di dosso tutto quel dolore e tornare a ragionare lucidamente, con chiarezza, anche solo per potere lavorare. Ed era anche l'unico modo a volte per andare in palestra, diversamente il troppo dolore non me lo avrebbe consentito. Sì, stavo invecchiando, certo, ma non tutto era perduto. Un po' di palestra, un antinfiammatorio qua e là e il dolore spariva o almeno non arrivava mai in maniera troppo intensa. Forse anche per merito delle erbe ayurvediche che prendevo di tanto in tanto riuscivo ancora a fare una vita normalissima, tutto sommato. Antinfiammatoria parte, la palestra, i viaggi e tutto il resto. E nel frattempo non ne parlavo. Mi tenevo tutto dentro di me. Nessuno doveva sapere. Gli uomini non piangono, non devono farsi vedere deboli.

Però il lavoro mi parve insopportabile. Era continuato ad aumentare nei mesi precedenti, tante cose, sempre di più, sempre più in fretta, sempre più intense. Mi ritrovai ben presto ad avere più cose da fare di quante potessi finirne ogni giorno. L'elenco delle cose da fare cresceva come una montagna che ogni giorno diventava più alta da scalare, senza che si riuscisse ad arrivare alla cima e nemmeno a vederla mai. Senza rendermene neanche conto, andai in un burnout pesantissimo che stava quasi per diventare depressione. Sì, perché al contrario di quanto credevo non era vero che ogni colpo mi rendeva più forte. Oggi credo che noi esseri umani somigliamo a dei fiori stupendi, che ogni raffica di vento perdono più petali di quanti riescano a farne ricrescere. Prima o poi, a forza di raffiche di vento, rimaniamo senza petali, senza colore, chiniamo il nostro stelo e rischiamo di seccare e non alzarci più.

Ero profondamente infelice, non facevo che piangere e sentivo tutto il peso del mondo sopra le mie spalle. Ogni cosa era pesante: mangiare, fare la spesa, uscire a cena, andare dai miei, al cinema, in palestra, leggere un libro o prendersi cura del gatto.

Ogni cosa sembrava richiedermi uno sforzo così grande che non iniziavo neanche a farla. Sentivo che non ne valeva la pena e non sarei riuscito a completarla. Ogni compito che mi veniva affidato sul lavoro non faceva che alimentare questa sensazione di inadeguatezza, di pesantezza, di impegni che erano sempre più grandi, così tanto grandi da fare paura. E in tutto questo, ovviamente, il dolore non passava. Anzi, aumentava sempre di più, dappertutto. Una situazione senza via d'uscita, come tutte le altre che avevo affrontato nella vita. Dal 2019 non sono ancora riuscito a liberarmi di questa sensazione. Il tempo passa, ma le raffiche di vento continuano ad arrivare, ogni giorno gli impegni aumentano sempre più e le energie per farvi fronte diminuiscono, anche per colpa delle patologie che ti sto raccontando. La depressione, come altre malattie invisibili, è una brutta bestia e mi è bastato assaggiarla, vederla soltanto da lontano, per capirlo. Allora me ne sono liberato per un po', e nel prossimo episodio te lo racconterò meglio, ma so che non se n'è andata per sempre. Con tutto il dolore che provo e le scarse energie so che è sempre lì in agguato, ogni tanto fa capolino e cerco di mandarla via facendo cose che mi piacciono o che mi fanno stare bene, ma so che non se ne andrà mai del tutto. Visto come procede la mia vita è facile dire “è tutto nella tua testa” a chi soffre di malattie invisibili, ma è anche tanto, tanto sbagliato. Non aiuta e non è neanche vero, purtroppo. Solo chi vive certe esperienze può dire se stiano accadendo oppure no. E dovremmo tutti imparare a fidarci di più di quanto ci viene raccontato e sicuramente dovremmo imparare a giudicare di meno. Non dobbiamo pensare che la nostra percezione della realtà possa valere anche per un'altra persona. Fidiamoci di quello che ci dice, perché a nessuno piace aprirsi su argomenti come questi, credimi. Io lo sto facendo adesso ed è veramente difficile, è doloroso persino parlarne, ricordarli, doversi spiegare. Quindi, se una persona arriva a farlo, è molto, molto probabile che ti stia dicendo la verità. Una volta ho visto una vignetta divertente che però faceva anche riflettere. Mostrava cosa sarebbe successo se all'improvviso tutte le malattie fossero state considerate come le persone che non soffrono di depressione considerano la depressione. In una parte della vignetta c'era un tizio che andava a trovare un amico all'ospedale, un amico che stava a letto con la flebo piantata nel braccio, e il tizio gli diceva: “Stare lì sdraiato non ti aiuterà, devi fare qualcosa,” come se il solo fatto di volerlo fosse sufficiente a guarire. In un'altra sezione una persona si era completamente mozzata una mano, con il polso che diciamo sgocciola ancora di sangue, e l'altra persona gli diceva: “Devi solo smettere di pensarci, vedrai che ti passa.” Ovviamente erano tutte situazioni surreali, ma che non si discostano troppo dalla mia esperienza del mondo reale. Ti sembrerà strano, forse, ma sono le stesse cose che dicono anche a me fin troppo spesso, ormai ne ho la nausea, come credo anche tutti gli altri ammalati invisibili. Le malattie, se invisibili, esistono e non deve essere una vergogna esserne colpiti, perché capita a tutti. Con quale presunzione le persone ci danno consigli di questo tipo, ammesso poi che si possano chiamare consigli? Sono davvero queste le persone che vogliamo avere con noi durante il nostro cammino, già così difficile per conto suo? Pensiamoci bene. Per ora ti lascio con il buon proposito di fidarti di chi ti dice di soffrire, anche se la sua sofferenza non è così evidente o non esiste nella forma che pensi tu. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌙 Cosa succede se non puoi dormire? 😴 Chi ti capirà? 🚫.

Sembrava che la vita mi stesse abbandonando. In treno, qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme. Figurati come potevo sentirmi.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 12), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto le luci e le ombre del mio momento di massima evoluzione musicale e anche alcuni miei pensieri sul sonno.

Ti è mai capitato di pensare al sonno? Quella cosa che da giovane dai per scontata, ma andando avanti con gli anni ti ritrovi a desiderarlo e a trovarlo con difficoltà? Secondo me viviamo in una società che ha un rapporto molto conflittuale con il sonno: da un lato tutti abbiamo sempre più problemi di sonno e, dall'altro, chi dorme viene criticato. Se ci pensi, dormire ha un significato metaforico abbastanza brutto nella nostra lingua, nella nostra società.

Quando diciamo che qualcuno dorme, in tanti casi stiamo dicendo che è poco sveglio, che non è una persona intelligente. Quando abbiamo qualcosa di importante da fare, invece, diciamo che non dobbiamo “dormirci sopra”, dando automaticamente un significato negativo al sonno. Quando una persona vive nel mondo dei sogni, significa che non sta coi piedi per terra, non è una persona concreta. Pensaci bene: quanti modi di dire conosci che sono legati al sonno come cosa negativa? Quanti ne ho dimenticati? Se ne conosci altri, fammelo sapere con un commento e lo leggerò davvero con molto piacere.

Quindi, dicevamo, da un lato tutti vorremmo dormire e, dall'altro, chi dorme tanto viene giudicato come poco intelligente o sfaticato. Poi ci siamo noi, malati invisibili che, per non sbagliarci, riusciamo sia a non dormire sia a dormire. Non dormiamo di notte per i motivi più strani e fantasiosi e poi dormiamo di giorno, essendo stravolti dalla notte in cui abbiamo fatto di tutto tranne che riposare. Anzi, usiamo pure il plurale: le notti sono tutte così per noi. Il giudizio della società nei nostri confronti, quindi, è una cosa abbastanza automatica, vista la nostra cultura di partenza. Anche questo è un modo per essere malati invisibili: la carenza di sonno non si vede, provoca effetti che non saltano all'occhio e l'insonnia è una brutta bestia, che sia l'ansia, o la psoriasi, o l'artrite a tenerti sveglio, qualsiasi cosa. Quindi, in sostanza, per noi non solo non c'è mai pace neanche da questo punto di vista, ma non veniamo visti di buon occhio se mostriamo sonnolenza o stanchezza.

Ti raccontavo della mia situazione negli episodi precedenti: praticamente quasi ogni notte è un incubo per me, immagino anche per te se soffri delle mie stesse patologie, perché, nonostante io sia stanchissimo, spesso non riesco a chiudere occhio prima dell'una del mattino. Questa cosa è inspiegabile, ma è così. Dovendo andare al lavoro e con tutta la trafila che devo fare per svegliarmi, che ti raccontavo nell'episodio 2 del podcast, diventa impossibile svegliarsi più tardi delle 6 per essere al lavoro alle 8:00/8:15 e considera che vivo a 20 minuti di bici dall'ufficio. Ormai sono così sregolato che non ci sono bioritmi che tengano: nei fine settimana mi sveglio comunque prestissimo e, anche quando faccio qualcosa di particolarmente stancante, non c'è nulla da fare, fino all'una non se ne parla.

Come ti dicevo, se hai ascoltato il secondo episodio del podcast, ricorderai che il mio problema, come quello degli altri malati invisibili, non è tanto ansiogeno, ma è causato da mille fattori: dolore, prurito, bassissima soglia di tolleranza al rumore e così via. E quindi qui mi rivolgo in particolare agli amici e conoscenti che, in totale buona fede, mi dicono se ho già provato con la melatonina o con qualche ansiolitico. Sì, abbiamo già provato con la melatonina e anche con gli ansiolitici, ma dormire bene resta un sogno per noi, che a volte si avvera, almeno per me, e ti racconterò come, ma non è così frequente. Il fatto è che i nostri non sono problemi di ansia, o almeno non solo quelli, la situazione è molto più complessa di così.

Ricordo, però, momenti della vita in cui non era così, anzi era molto più facile dormire. Ci sono stati momenti in cui per me dormire era ancora una cosa bella, piacevole, naturale. Quando mi avvicinavo ai 30 anni, ad esempio; erano gli anni tra il 2004 e il 2007 più o meno, dopo varie peripezie acrobatiche per distribuire il mio curriculum vitae in tutto l'emisfero nord del pianeta, finalmente avevo trovato un buon impiego, ma c'era un problema: era a Bologna e dalle colline di Parma, dove vivevo in quegli anni, fino al centro del capoluogo emiliano, beh, c'era tanta strada. Mangiare bisogna pur mangiare e, alla fine, senza un diploma [universitario] era difficile pretendere di meglio. Accettai dunque il lavoro e iniziai a fare il pendolare: in un'ora arrivavo alla stazione di Reggio Emilia, dove prendevo il treno e poi un'altra ora fino a Bologna in treno e poi un'altra mezz'ora a piedi fino all'ufficio, vicinissimo alle Due Torri, in centro. Una lunghissima tirata sia all'andata che al ritorno, che mi stancava moltissimo, di notte, però, dormivo beatamente. In quegli anni ne approfittavo, anzi, per dormire anche in treno, sia all'andata che al ritorno, mettendo una sveglia sul mio cellulare nuovo di zecca per evitare di rimanerci sopra.

Quel cellulare mi aiutava tantissimo a passare il tempo: era un modello tutto blu a conchiglia ed era uno dei primi a basso costo in grado di leggere gli MP3 e usarli come suoneria: avanguardia pura per quegli anni. La cosa che preferivo, però, era il mio iPod, uno dei primi, dove iniziai ad innamorarmi dei podcast. Con un piccolo sforzo, potevo ascoltare la musica e cose nuove per ore su questo dispositivo facilmente trasportabile che per me aveva qualcosa di magico. Naturalmente c'erano anche i libri a tenermi compagnia, ma, come dicevo, tanta, tanta musica. In quegli anni uscirono molti album di un paio di chitarristi che in poco tempo erano diventati i miei preferiti. Si trattava di Joe Satriani e Steve Vai, entrambi statunitensi, ma con radici italiane. Negli episodi precedenti del podcast ti ho già fatto i loro nomi. Se sei un chitarrista, senz'altro li conoscerai perché sono due dei pezzi grossi del nostro tempo per quanto riguarda la chitarra elettrica. Quei due signori sono individui molto influenti che, se non ci fossero stati, la chitarra moderna non sarebbe la stessa cosa.

Come dicevo, entrambi hanno lontane origini italiane pur essendo statunitensi. Te ne parlerò brevemente perché è importante per la mia storia farti capire chi siano. Joe Satriani, nel corso degli anni, ha insegnato a molti altri chitarristi di grande successo, come quello dei Metallica, ad esempio, cioè Kirk Hammett, e lo stesso Steve Vai ha portato nel mondo della chitarra moderna uno stile che è semplice soltanto all'apparenza: melodie canticchiabili con la voce, ma suonate divinamente e, a ben guardare, proprio difficili da suonare, quantomeno come le suona lui. Uno dei suoi brani famosi, ad esempio, è un pezzo iconico che tutti ricordiamo: la colonna sonora del film Top Gun.

Avendo ascoltato Satriani, il passo per conoscere Steve Vai è stato brevissimo. Nonostante Satriani sia stato il suo maestro, Steve Vai ha uno stile completamente diverso. Nei suoi dischi trovano posto suoni tremendamente elaborati, ma che sembrano quanto di più naturale esista. La sua chitarra sembra quasi possederlo, piuttosto che il contrario. È capace di velocità supersoniche, ma anche di avere un timbro speciale che lo distingue da chiunque altro e, naturalmente, una grande capacità di comporre brani e melodie. Steve sa leggere e scrivere perfettamente la musica fin dalla tenera età e il suo cervello, come ti raccontavo anche del mio, anche se non vorrei fare paragoni azzardati, ha la capacità di gestire note anche senza suonarle; ha la capacità di gestirle, diciamo, di sentirle nella sua testa. Nella sua carriera ha scritto pezzi per intere orchestre senza toccare neanche uno strumento, ma la sua musica di solito è quanto di più lontano dal genere orchestrale si possa immaginare. Come il sonno, la sua musica può essere delicata e inquietante, a volte nello stesso tempo. Prova a cercare qualche suo pezzo su internet e capirai di cosa parlo. A volte sembra ascoltabile e un disco intero, in effetti, si ascolta a fatica tutto in una volta, ma lentamente, almeno da chitarrista, ti chiedi: “Ma come fa a fare quei suoni? Cioè, com'è possibile che quella sia una chitarra?”. Sentire per credere.

Per me era naturale che, a forza di ascoltare la musica di Steve Vai, mi venisse voglia di suonarla. Con la mia chitarra del '94, che si prestava molto bene a quel tipo di musica, il passo fu ancora più breve. Le cose che ascoltavo sui dischi dello “zio Steve” mi erano sembrate subito inarrivabili e lo erano. Era frustrante, in un certo senso. Mi chiudevo nel garage della mia casa di Reggio Emilia, dove mi ero trasferito...cioè nella casa, non nel garage...e alla fine suonavo, suonavo, suonavo davanti al mio computer, dove la musica veniva artificiosamente rallentata per cercare di renderla più facilmente suonabile per me. Mi ricordo che mi sedevo alla scrivania spesso alle due del pomeriggio, magari in estate, nei giorni liberi, suonavo e, quando guardavo fuori dalla finestra, mi rendevo conto che era arrivato il buio, era buio pesto e stavo suonando lì da solo al buio da ore. Proprio come mi capitava quando vivevo coi miei nelle montagne. Suonare mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ecco quanto era importante per me.

Nonostante questo, nonostante questo impegno, la musica di Steve Vai restava irraggiungibile per le mie dita. Suonavo bene i Led Zeppelin e anche tante cose dei Pink Floyd, ero felicissimo di questo, ero al settimo cielo per le capacità che avevo appreso tutto sommato da solo, ma Steve Vai...niente da fare, era proprio di un altro livello e mi frustrava moltissimo non poterlo suonare.

A furia di viaggi in treno arrivarono persino i 30 anni, tra mille stress sul lavoro. Mi capitava già di non dormire e la causa allora era semplicemente l'ansia. Il pendolarismo era lungo e pesante e, in più, da qualche anno mi ero anche iscritto in palestra. Adoravo come il mio corpo reagisse agli allenamenti. Sul lavoro ero un punto di riferimento per l'assistenza informatica e anche questo mi rendeva tutto tronfio e sicuro di me; diciamolo pure, presuntuoso su alcune cose. Ero persino un po' dittatoriale e sicuramente i colleghi dell'epoca, se sono in ascolto, potranno darmi ragione. Quando ero convinto che una soluzione fosse la migliore, per esempio adottare un nuovo software in particolare ci mettevo tutto me stesso per implementarlo. E fin qui niente di male, ma, se era il caso e potevo farlo, imponevo le mie scelte. In fondo io ero l'esperto lì, i colleghi avrebbero dovuto imparare. Intendiamoci, trovare soluzioni ai problemi e implementarle è uno dei compiti degli informatici e sì, spesso siamo noi quelli che decidono che cosa implementare e come. Comunque, abbiamo una pesante voce in capitolo nel processo, ma io ci mettevo un po' troppo zelo, spesso mi rendevo antipatico e oggi non ho alcun dubbio su questo, ma allora mi veniva spontaneo a credermi un po' migliore degli altri. D'altra parte, non solo sapevo fare un sacco di cose, ma suonavo sempre meglio, sapevo suonare il basso, la batteria, tante cose. Quanti potevano dire di saperlo fare?

Arrivato, ai 30 anni, decisi di iscrivermi all'università, ingegneria informatica, niente meno. Certamente mi sarebbe stata utile, magari anche per trovare un nuovo lavoro più vicino a casa, magari anche più soddisfacente. Non avevo messo in conto, però, che studiare e lavorare a tempo pieno era pesantissimo. Conoscevo così bene la musica di Steve Vai ormai che in treno me la sparavo in cuffia insieme a Satriani, a Guthrie Govan, un altro grande chitarrista contemporaneo, e a tutti gli altri. Mi faceva l'effetto dei Deep Purple quando tornavo a casa dalle scuole superiori. Mi ci ritrovavo così bene che ormai mi rilassava, mi faceva venire voglia di dormire, ma mi imponevo di stare sveglio e, isolandomi dalla confusione del treno, sceglievo io una confusione che conoscevo e che mi consentiva di studiare per l'università. Le serate e i fine settimana liberi erano interamente dedicati allo studio, ma ogni minuto che avevo libero lo passavo sulla chitarra.

All'improvviso, senza che ci fosse nessun segnale ad avvisarmi, accadde qualcosa di veramente terribile per me. Le mie dita iniziarono ad aprirsi, la pelle delle mani perdeva elasticità, i polpastrelli diventavano duri e si spaccavano come se un coltello li avesse tagliati e, per un chitarrista, i polpastrelli sono tutto. Queste lesioni di cui ti sto raccontando sanguinavano, si infettavano e non guarivano più. Suonare stava diventando impossibile. Toccando le corde sottilissime della chitarra elettrica, spesso queste si incastravano nei tagli sui polpastrelli e li aprivano ancora di più. Non sapevo veramente cosa fare. Suonare con i cerotti era impossibile. Un chitarrista è un tutt'uno con le corde, deve poterle sentire, deve tirarle, deve maltrattarle o accarezzarle sapendo dosare bene la forza per tutti i sentimenti diversi che vuole esprimere attraverso lo strumento. Tentai di tutto, dai cerotti spray ai guanti, a creme varie per fare guarire le dita più in fretta, ma niente, nessun risultato apprezzabile.

In quello stesso periodo, una specie di grande macchia violacea che avevo sulla tibia e che mi prudeva già da qualche anno, prese ad allargarsi fino a ricoprire tutta la tibia e una parte del polpaccio, dal ginocchio alla caviglia. Altre due macchie dello stesso colore comparvero al centro dei palmi delle mani. Anche queste, come le dita, come la tibia, si spaccavano e sanguinavano. Immagina la mia gioia nel girare su e giù per i treni con ferite aperte!

Il medico mi mandò da una dermatologa piuttosto in gamba nella nostra regione e lei, dopo avere fatto qualche test e sentita la mia storia, emise un verdetto: allergia al nichel. Le corde della chitarra elettrica, in effetti, sono di nichel. Nella mia testa tutto cominciava ad avere un senso. Toccavo continuamente del nichel nella chitarra, nelle posate e nei computer che configuravo per lavoro, e anche le monete che tenevo in tasca, in fondo, erano anch'esse di nichel. Questo, a detta della dermatologa, poteva benissimo causare una reazione allergica più giù lungo la tibia e sulle mani, e poi quella era una zona colpita dall'ustione dieci anni prima (la tibia, intendo), e quindi tutto poteva succedere a quella povera pelle.

Cominciai quindi a trattare il problema come se fosse un'allergia.

Localmente mettevo del cortisone e, dopo un po', passai alle cose naturali. L'estratto di ribes sembrava farmi ottenere qualche piccolo risultato, ma solo per qualche mese. Funzionò. Si pensò allora che fosse celiachia e, anche in quel caso, migliorai un pochino con la dieta senza glutine, ma non del tutto. Si pensò all'HIV, ma risultai negativo. Si pensò allo stress, ma niente da fare, niente di tutto questo sembrava essere la risposta.

Un po' frustrato, pensai che l'unica soluzione possibile era quella di suonare ancora di più, sacrificando le dita. Vivevo quindi con i cerotti perché le dita sanguinavano sempre. Penso di avere alimentato da solo l'industria dei cerotti fino a pochi anni fa. Me li toglievo soltanto per suonare, i tagli si aprivano, sanguinavano e a quel punto io smettevo di suonare, ma non mi importava, appena potevo ricominciavo. Ogni nota era un bruciore infinito, con le corde che spesso mi penetravano nei polpastrelli. Chi ha visto suonare un chitarrista avrà notato che le corde spesso vanno percorse con il dito lungo tutta la loro lunghezza. Un martirio. Mi ero abituato a suonare in tanti nuovi modi. Se il polpastrello aveva un taglio a destra, mi abituavo a spostare il dito e a usare la parte sinistra del dito e viceversa, se invece era spaccato ai lati, cercavo di usare la punta quando possibile oppure direttamente l'unghia. A un certo punto dovetti rallentare perché capii che avrei perso le dita a furia di infezioni. Ti racconto tutto questo non per disgustarti, ma per farti capire quanto fosse importante per me lo strumento. Non mi fermavo di fronte a niente. Non so se anche tu nella tua vita hai trovato qualcosa che ti piace e che ti completava così tanto da non farti sentire i problemi. Questo per me era la chitarra.

Ma nel 2010 accadde un altro evento terribile, come se non fossero bastati i precedenti.

All'improvviso non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ma intendo letteralmente, non ne avevo la forza né le energie. È difficile spiegarti come mi sentissi, ma tutto partì dalla palestra. Un bilanciere con 80 kg che solitamente alzavo come se fosse uno scherzo mi parve all'improvviso pesante come una montagna, non c'era modo di gestirlo. Peccato che in quel frangente l'avessi già sollevato e fosse direttamente sopra la mia testa e in qualche modo avrei dovuto riportarlo in basso. Ci provai, ma ci rimasi sotto e, per fortuna, senza danni gravi quella volta. Chi era lì mi vide in difficoltà e mi aiutò immediatamente, ma io non riuscivo a spiegarmelo il motivo.

Qualche giorno dopo non riuscivo a risvegliarmi al mattino come se fossi drogato, fare una scala era un'impresa, dovevo fermarmi due volte ogni 10 gradini, mantenere la concentrazione sembrava qualcosa di impossibile, mi addormentavo a volte anche guidando e anche mentre parlavo con i colleghi al lavoro. Immaginati cosa avranno pensato di me. Sembrava che la vita mi stesse abbandonando in treno. Qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme; figurati come potevo sentirmi.

In tutto questo, per i miei familiari più o meno stretti era impossibile che io avessi qualcosa di serio. Più o meno esplicitamente mi stavano comunicando che, secondo loro, mi stavo inventando tutto, stavo fingendo per non mettere a posto la legna nella cantina, era chiaro, per non andarli a trovare, era evidente, per non andare alle tanto pubblicizzate riunioni dei gruppi spirituali che continuavo a frequentare. Mi sentivo tremendamente confuso, non capivo cosa stesse succedendo. Non c'era una risposta e io avevo solo 30 anni. Com'era possibile tutto questo? Era questa la vecchiaia?

I miei amici mi chiedevano di uscire e accettavo sempre, poi all'ultimo non potevo presentarmi alle cene, alle uscite, ero già esausto alle 7:00 di sera. Se tu che mi ascolti sei sano, ti ricordi com'erano i tuoi 30 anni? Ti chiederei la gentilezza di farmelo sapere con un commento perché io non ho conosciuto i 30 anni come tutti gli altri e quindi per me è importante sapere qual è, diciamo, la normalità.

Non ci volle molto prima che mi venisse l'ansia. Come potevo impegnarmi con i miei amici se poi non potevo uscire con loro? Iniziai quindi a non programmare più nulla, evitavo il problema direttamente. Conoscevo solo il lavoro e il sonno, il sonno e il lavoro. Mi ero completamente ritirato dalla mia vita sociale, sabati e domeniche interminabili a letto. Il mio era un sonno malato, innaturale, narcotico. Studiare era diventato impossibile, tentavo di suonare qualcosa, ma riuscivo a malapena a stringere il manico e le dita erano lente, non rispondevano alla velocità che io avevo in testa.

Chiesi consiglio a più di un medico, ma nessuno riusciva a unire i puntini. Alla fine, un otorinolaringoiatra mi disse che la causa di tutto questo poteva essere nei denti del giudizio: erano in brutte condizioni e sarebbero stati da togliere, ma un dentista non ce l'avrebbe fatta.

Strano, perché in generale sono stato così fortunato con la salute!

Più di un dentista mi confermò che non sarebbe stato in grado di toglierli, quella era cosa per un reparto di maxillo-facciale, una vera e propria mini-chirurgia. Mi feci togliere il primo e, dopo tante altre settimane di sonno, di gelato e di dolore, circa tre, finalmente mi sentivo un po' meglio. Stranamente le spaccature sulle dita e la mia chiazza viola sulla gamba e sui palmi si erano molto attenuate. Che fossero state le massicce dosi di antibiotici? Ma allora il mio era un problema battereico? Cosa c'entrava l'allergia al nichel? Non riuscivo più a capirci veramente nulla.

Dopo molte altre settimane tornai in palestra e in un giorno come tanti vidi un annuncio che mi lasciò di stucco: Steve Vai stava per venire a Reggio Emilia. Non potevo aver letto bene. Steve Vai a Reggio Emilia? Il mio idolo, la mia ispirazione, qui vicino a me? No, non era vero.

E invece lo era. Il mio sogno di avvicinarlo stava per avverarsi. Non si trattava di un concerto, ma di una masterclass. In poche parole, un incontro in cui si suppone che il maestro insegni i suoi trucchi e i suoi segreti. Non credo di poterti raccontare cosa provai in quel momento, un misto di gioia e senso di colpa per la spesa che si doveva affrontare, ma dovevo assolutamente andarci, anche se quei soldi me li sarei cavati dalla pelle. L'occasione era davvero allettante. L'incontro non era in una grande città, anzi era un piccolo paese di provincia. Steve non era molto conosciuto come lo è oggi e, in più, non era neanche un concerto. In quanti saremmo mai potuti essere interessati in zona? In quanti avremmo potuto partecipare? Pochi, e l'avrei quindi visto da vicino finalmente.

Nell'episodio precedente ti dicevo che ho perso fiducia nelle entità superiori, l'unica entità superiore che sono certo che esista oggi è l'inquilino del secondo piano, ma nel 2010 ero ancora certo che qualcuno vegliasse su di me e quindi ancora una volta...per me era evidente: cose terribili in quell'anno, cose inspiegabili che non avevano neanche un nome, ma ricompensate da una gioia immensa.

“Grido Muto” nasce per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili in una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è una sfida in termini di tempo, energia e competenza, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi nella descrizione di questa puntata del podcast, quel posto dove nessuno guarda mai. Ti aspetto martedì prossimo con un nuovo episodio in cui ti racconterò il mio incontro con il mio idolo Steve Vai.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥

“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”

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Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 11), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”

Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.

Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.

In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?

Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.

Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.

In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!

Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.

All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.

Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.

In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.

Ma il rientro non fu tanto semplice.

L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.

Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.

Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.

In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.

In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.

Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.

Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.

Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.

Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.

Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.

La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!

Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!

L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.

Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?

E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.

Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.

Attenzione!

Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.

Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?

È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.

Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.

Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.

Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).

Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.

Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.

Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.

Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Cosa succede se il dolore non può passare mai più? 💊 Rimedi e conseguenze dei farmaci. E...✈️ il mio viaggio in India! 🌍

“La vita di un malato invisibile ruota attorno al dolore, e ogni giorno si devono fare scelte difficili per affrontarlo”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 10), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

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Quando sei un malato invisibile, la tua vita ruota attorno al dolore. Mi dispiace farti riflettere su questo, ma non c'è un modo più gentile o più delicato di parlarne. Da invisibile, il tuo rapporto con il dolore è diverso da quello di una persona normale. Le persone sane provano un dolore forte nella loro vita soltanto di rado, a seguito di incidenti magari, o di eventi ben pianificati, come un intervento o l'estrazione di un dente. Una persona sana, anche inconsciamente, sa che il dolore se ne va e, se non se ne andrà, prenderà qualcosa di facile: una pillola, una qualche polvere magica, e non sarà più un problema.

[Il dolore] può presentarsi anche così, senza un motivo apparente, in un attimo, e noi invece sappiamo che non se ne andrà.

Arriviamo a maturare questa consapevolezza dopo qualche tempo che siamo ammalati, ed è una cosa che ti cambia nel profondo. Non c'è modo di abituarsi. A volte qualcuno mi dice: “Mah, guarda, ormai hai queste patologie da tanto, ti sarai abituato!” E invece no, come si fa ad abituarsi? Sì, uno può avere la soglia del dolore più o meno alta, ma quando arrivi a sentirlo, non è che ti abitui. Quella sensazione è nata dall'evoluzione della specie umana, proprio per attirare la nostra attenzione, proprio per farsi notare. È impossibile ignorarla.

Tutti i giorni per noi sono uguali: ci alziamo al mattino, combattiamo il dolore sin da subito, o già da prima, durante la notte, e poi dobbiamo capire una cosa molto importante, cioè come si può affrontare la giornata. Ce la faremo? Se anche ci alziamo con meno dolore del solito, poi la situazione resterà così? Ci arriveremo a fine giornata?

Mah.

Allora dobbiamo fare una scelta tutti i giorni. E questa scelta è: prendo qualcosa oppure no? È uno di quei giorni in cui si riesce a resistere? Oppure, tra un paio d'ore, avrò così tanto male che non riuscirò neanche a ragionare? E credimi, non è una scelta da poco, perché gli antidolorifici non si possono prendere all'infinito. Dobbiamo cercare di limitarli il più possibile per evitare effetti collaterali anche sul lungo periodo.

In passato il mio istinto mi diceva di aspettare, ma le cose sono cambiate. Ora, purtroppo, tendo a prendere più farmaci e forse faccio male. Non so, ma ci sono tanti giorni in cui non posso rischiare di ragionare male con il lavoro che faccio. Io lavoro col pensiero, con la testa. Devo poter pensare, devo essere in condizioni di poter pensare.

Anni fa era tutto diverso. Ci ho messo un po' a prendere coscienza di come stava cambiando la mia vita con il dolore che aumentava, anno dopo anno. Ci sono arrivato gradualmente, un po' alla volta, e a un certo punto mi sono guardato indietro e ho pensato a quando è stata la prima volta in cui ho provato un dolore così intenso da sembrare fuori scala. Me lo ricordo bene quel periodo, e oggi so che lo spartiacque della mia salute risale proprio a quegli anni, in cui le scelte che dovevo fare erano molto più semplici e conducevo ancora una vita spensierata.

Era il 1998, e la mia nuova vita a Parma era certamente stimolante. Trasferirsi lì era stata una scelta naturale, anche se più che ragionata. I miei due fratelli vivevano lì già da tempo, così come alcuni amici, Danilo e Lorenzo, quelli con cui suonavo nel fine settimana quando tornavo dai miei in paese. Ci ricongiungevamo a Pontremoli, ci vedevamo là e dedicavamo almeno un'ora alla domenica pomeriggio per provare le nostre vecchie canzoni, e in più c'era anche un nuovo amico in quegli anni, che aveva iniziato a suonare con noi. Si trattava di Giorgio, molto abile con il basso. A quel punto Marco decise di dedicarsi al canto, mentre a suonare ci avremmo pensato noi. Con questa formazione eravamo anche andati a un festival musicale locale, il Lunigiana Rock. Visto che in questo episodio parliamo di scelte, queste erano le scelte semplici che dovevo fare in quegli anni.

Una scelta che farei oggi, invece, se mi entrasse ancora, sarebbe quella di indossare, ancora una volta, la maglietta che ci avevano dato per l'evento, tutta nera con una scritta gialla sul davanti: Lunigiana Rock.

È un bel ricordo che conservo e rappresenta un periodo davvero spensierato. Era la prima volta che suonavo di fronte a così tante persone, cioè un campo sportivo abbastanza affollato, ed era stato bellissimo. Ero molto tranquillo mentre suonavo, anche grazie alle lezioni che avevo preso negli anni precedenti da un chitarrista professionista a La Spezia. Mi stavo abituando all'idea che quella vita da musicista avrei potuto farla per sempre, perché era davvero l'unica cosa che mi faceva arrivare a sera rilassato e felice.

A volte suonavo per mio conto anche per 7, 8, 10 ore consecutive, senza accorgermene. Una scelta importante di quel periodo, invece, venne presa da me a proposito di un viaggio, cioè una delle passioni che si stava risvegliando in me insieme alla curiosità per il mondo, al volere scoprire cosa ci fosse oltre il proprio confine personale.

Prima di trovare un lavoro stabile, avevo deciso di andare in India a cercare Dio da un maestro spirituale.

Il viaggio mi attirava da sempre e più tardi avrei capito che questa esperienza avevo fatto mi aveva calmato nel profondo, anche se tutto era andato storto sin dall'inizio. In un certo senso, il mio era stato un viaggio risparmio, ma la sorte invece non si era risparmiata. All'arrivo, scoprii che le mie valigie erano state perse e dovetti ricomprare tutto il vestiario, facendomi fare anche qualche abito su misura, visto che laggiù sembravano non esserci abiti della mia taglia.

Nelle settimane successive, poi, mi venne una strana febbre per ben tre volte, senza tosse o raffreddore, ma soltanto una temperatura molto alta che mi faceva venire voglia solo di stare a letto. E a proposito del letto, era un materasso sul pavimento, anzi uno stuoino, possiamo dire, alto solo pochi centimetri. Ma peggio di tutto il resto, al momento di ripartire per tornare a casa, scoprii che il mio biglietto aereo non era stato emesso correttamente.

Così, avevo potuto fare l'andata, ma il ritorno non era valido. Sarei dovuto restare in India per un lungo periodo, in attesa di chiarire questo equivoco con la compagnia aerea, un periodo che durò ben oltre le due settimane che avevo previsto in origine. Insomma, un disastro sotto molti punti di vista. Le notti erano spesso tormentate per il gran caldo che c'era nelle stanze della comune e anche per il vociare degli animali della giungla, stridulo e irritante, che andava avanti tutta la notte. La sveglia suonava molto presto per la meditazione, già alle 3:30 del mattino, e sui monti dell'altopiano del Deccan a dicembre faceva freddo, anche se eravamo quasi all'equatore.

Nel giro di poco tempo iniziai ad avere un gran mal di schiena e non c'erano medici che potessi consultare a poco prezzo nel villaggio per contenere le spese. Andai allora da qualcosa di un po' diverso, un medico ayurvedico, uno di quelli che praticavano l'antica arte curativa tradizionale dell'India, decisamente a buon mercato, ma meglio di niente, mi dissi. Il medico riuscì a capire cosa avevo semplicemente toccandomi una mano e l'avambraccio.

Chiese consigli sull'alimentazione, sugli alimenti che le persone con il mio tipo di fisico avrebbero potuto mangiare oppure no, e tante altre cose. Mi disse che il mal di schiena era dovuto a un eccesso di energia, un eccesso di fuoco. Con qualche massaggio avrebbe potuto alleviare il dolore, ma la causa era molto profonda. Secondo lui avrei dovuto prendere anche alcune compresse che mi prescrisse. Il suo assistente, tale Shrinivas, mi aveva praticato i massaggi. Le sue mani enormi mi sembravano bollenti e anche se alla fine mi ritrovavo tutto unto come un panzerotto uscito dalla friggitrice, in poche sedute il dolore era scomparso.

Effettivamente, Shrinivas sapeva il fatto suo e grazie a lui le compresse che mi aveva suggerito il medico non servirono, e per fortuna! Perché già l'aspetto ricordava gli escrementi di pecora; ti lascio immaginare l'odore! La causa di quel mal di schiena per me era lampante: qualcosa su cui non perdere neanche un momento a riflettere, e cioè che in India si passa la vita seduti sul pavimento e camminando a piedi nudi, e tutto questo, da occidentale, probabilmente non mi aveva giovato.

A parte questo aspetto, però, in India ero stato veramente bene, e ben presto mi scordai del medico ayurvedico. Al mio rientro in Italia, quando l'India era ormai poco più di un bel ricordo, il mal di schiena tornò. Era localizzato in basso, nell'area del bacino, proprio come quando era venuto fuori in India. Il mio medico curante mi fece fare una lastra e per la prima volta in vita mia sentii dire la parola che nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi dire: artrite.

L'artrite è una malattia infiammatoria persistente e cronica, caratterizzata da dolore e infiammazione a livello delle articolazioni, con importanti ripercussioni sulla mobilità e il sostegno dello scheletro. Le forme più gravi di artrite possono deformare le articolazioni, determinando rigidità e compromissione dei movimenti e limitando notevolmente la capacità di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani. L'artrite può svilupparsi in persone di ogni età, anche nei bambini, e con il passare degli anni, se non riconosciuta e curata adeguatamente, l'infiammazione tende a peggiorare.

[Fonte: ISS]

Il mio medico curante allora mi disse: “Sei ancora giovane, hai solo 20 anni; non ti preoccupare, per ora hai ancora tutta la vita davanti.” Lui era uno di quei medici di una volta, quelli che riuscivano a fare diagnosi anche senza mandarti da uno specialista, e molto spesso ci azzeccava.

Mi chiedo ancora oggi se con quella diagnosi precoce, magari confermata da un reumatologo, si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Allora ero nel pieno delle mie forze e scelsi di ignorare del tutto quella parola, che poi neanche sapevo bene cosa fosse, a dire il vero.

Sì, ok, c'era l'artrosi e l'artrite, ma l'artrite era quella meno grave, giusto? Nei miei pensieri c'era solo il lavoro e la chitarra. In quel momento non so perché, ma avevo l'idea che questa artrite fosse qualcosa di non troppo grave, e non ci pensai più. Altrimenti, come avrebbe potuto venire proprio a me, che stavo benissimo ed ero all'apice delle mie condizioni fisiche? Mi ricordo proprio di aver pensato: “Ci penserò quando sarò più vecchio.” Mi sbagliavo di un bel po'. Dimmi: al mio posto, tu come ti saresti sentito? Avevi la consapevolezza necessaria per capire qual è stato il momento chiave della tua vita? Fammelo sapere in un commento. Per me è stato proprio il momento di cui ti ho raccontato. Sono curioso di sapere il tuo.

A Parma non mi annoiavo mai, impegnato com'ero a cercare un lavoro. Ne ho cambiati molti prima di trovarne uno a tempo indeterminato come impiegato. Ricordo bene la sensazione di avere finalmente risolto un enorme problema, di essere finalmente a posto. Espandevo scuola in quel lavoro, creando programmi per tanti diversi istituti bancari. Fu lì che scoprii che le lezioni di dattilografia che avevo preso a scuola, alle scuole superiori, erano una delle cose più utili che possano esserci nel mondo moderno, perché bene o male tutti abbiamo a che fare con una tastiera e tanto vale saperla usare ad occhi chiusi. Digitavo in fretta e i programmi prendevano vita sotto i miei occhi. Era un lavoro creativo, in un certo senso. Il mal di schiena era a quel punto soltanto un ricordo, tanto più che lavoravo finalmente seduto senza fare fatica e finalmente al riparo dal freddo e dal caldo e dai pericoli.

Qualche mese dopo, però, in estate mi sarei dovuto ricredere. C'era bisogno di una riunione fatta in fretta e furia e decidemmo di farla attorno alla scrivania di una collega. Non c'erano sedie per tutti e scelsi di sedermi sul davanzale della finestra, appena sopra il condizionatore, che buttava sulle mie gambe e su tutto il corpo quella piacevolissima aria fresca. Fresca eh, niente di più. Nelle estati umide della pianura, il condizionatore è una manna.

Nel giro di 24 ore ero di nuovo bloccato dal mal di schiena, questa volta ancora più forte di come mi era venuto in India, un dolore mai provato neanche laggiù. Shrinivas era un po' troppo lontano a quel punto e decisi di prendere qualche giorno di malattia e aspettare. Ero giovane e forte, certo che sarebbe passato! Bastava solo...aspettare!

E invece no.

Il dolore era insopportabile e più passavano i giorni, più la situazione peggiorava e questo dolore nel bacino diventava più forte. In qualche angolo molto remoto del mio cervello continuavo a ripetermi che i farmaci non si dovevano prendere. Si sa, gli antidolorifici fanno male, lasciamoli ai vecchi. Li avevo già presi qualche anno prima per le ginocchia che mi facevano male. Non volevo sovraccaricarmi. Ero così giovane e inesperto che paradossalmente non avevo niente in casa e in più, in quel periodo, vivevo in realtà sulle colline di Parma. La farmacia più vicina era lontana, tanto più che non sarei neanche riuscito a guidare, neanche con tutta la buona volontà del mondo. Mi era proprio impossibile estendere le braccia e le gambe.

Il dolore era fortissimo, già a letto, ancora più forte da seduto e impossibile da gestire stando eretti. Camminavo chino come un novantenne e se avessi avuto un bastone, sicuramente l'avrei usato. Ripensandoci oggi, quell'evento avrebbe dovuto mettermi in allarme. Non è normale che un uomo di 22 anni si riduca così per un colpo di aria condizionata. Potrà sembrarti strano, ma non collegai quell'evento con la diagnosi di artrite del medico. Nella mia famiglia tutti avevano e avevano sempre avuto mal di schiena, sembrava una cosa normale, quindi.

Riuscii a procurarmi dei farmaci e tutto passò per un po'. quella che allora mi era sembrata una situazione del tutto eccezionale, oggi è la mia realtà. A distanza di 25 anni da quegli eventi chiave, ci sono ancora le crisi di dolore, anzi, più raro che non ci siano le crisi di dolore. Spesso sono improvvise e in luoghi diversi del corpo, non soltanto nel bacino, e si presentano senza avvisare.

Ogni giorno bisogna alzarsi con calma, come ti raccontavo nel primo [edit: secondo] episodio del podcast, e fare delle scelte molto difficili. Se non è il dolore cervicale o l'emicrania ad avermi svegliato, magari alle 2 del mattino, devo per prima cosa capire come mi sento. Certo, mi sento quasi sempre male, purtroppo, ma bisogna andare oltre questa sensazione. Devo ascoltarmi per capire se il malessere deriva dal fatto che il corpo non si è ancora messo in movimento e magari più tardi passerà un po', oppure se è qualcosa che non passerà.

È una valutazione molto difficile, perché dovendo lavorare, la tentazione è quella di prendere un antinfiammatorio sempre, tutti i giorni, o non riuscirò a stare concentrato quando serve. In fondo, come ti dicevo, io lavoro con la testa, coi miei pensieri, con il ragionamento, con analisi di dati, di problemi per cercare la loro soluzione. Come fai se hai un'ascia piantata in testa o in un fianco? Ti è impossibile.

Purtroppo, però, sappiamo bene che degli antinfiammatori non possiamo abusare. Oltre a rovinarci lo stomaco, non si possono assumere per più di qualche giorno per evitare di andare in sovradosaggio, tirandoci addosso anche molti altri problemi. Capisci bene, dunque, che la decisione di prendere qualcosa oppure no, per un paziente che soffre di artrite o fibromialgia, non è una decisione da poco. Il nostro non è un dolore sporadico che se ne andrà. Domani, dovremo fare le stesse scelte e quindi di nuovo sottoporci al rischio di effetti collaterali dell'antinfiammatorio.

Però questa scelta la dobbiamo fare tutti i giorni. La differenza tra prendere un antinfiammatorio oppure no è quella che passa tra il non poter fare fronte ai propri impegni o effetti gravi legati al sovradosaggio.

Tu cosa sceglieresti? Non è una scelta da poco, credimi.

Per evitare tutto questo, infatti, il medico mi ha consigliato di usare il più possibile il paracetamolo, che non “pesa” sullo stomaco. È vero, ma il problema è che ormai non riesce a togliermi il dolore e mentre l'antinfiammatorio di solito mi lascia in buone condizioni per un giorno, il paracetamolo non ha questo effetto. Quindi dovrei prendere una dose veramente molto, molto alta nel tempo.

L'unica cosa certa è che un antinfiammatorio può togliere il dolore per diverse ore e aiutarci a svolgere i nostri doveri, ma allo stesso tempo, quando li assumiamo, diamo un'immagine falsata di noi. Diamo l'immagine di una persona che sì, ha qualche problema, ma in fondo neanche troppi, visto che può comunque lavorare, può comunque farcela. Ma se questa è la percezione che possono avere gli altri, i sani, dei nostri problemi, beh, è sbagliata, è troppo semplicistica. Come ti ho raccontato, per noi è molto più complesso. E poi non è che sotto antinfiammatori uno stia così bene. A volte non fanno abbastanza, neanche quelli.

Se non conoscevi le patologie di cui soffro, forse starai cominciando a capire perché i pazienti come me vivono una vita davvero difficile. E credimi, siamo tantissimi. Se invece soffri delle mie stesse malattie, avrai capito perfettamente cosa intendo. Ci sarebbe ancora tanto da dire sui farmaci che può dovere assumere chi soffre di artrite o fibromialgia, ma ti prometto che ne parleremo più avanti. Ti do appuntamento alla prossima puntata, come sempre di martedì. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🔥💥🤒 Sono solo un asociale o sono le mie patologie a rendermi così? 🤕💔🚫

“Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue.”

In questo episodio ti racconto il mio rapporto con gli altri, in particolare i gruppi di persone con cui ho avuto a che fare nella vita e come la malattia abbia cambiato questi rapporti.

[...]

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 7), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Come esseri umani, tutti facciamo parte di un gruppo di persone: l'umanità, appunto, ma anche altri gruppi, anzi parecchi gruppi. Siamo animali sociali che spesso esprimono il meglio di sé quando fanno parte di un insieme di persone che hanno lo stesso scopo.

Che bello quando si sente di poter creare qualcosa con altri, creare qualcosa di più grande della semplice somma delle parti! Si prova una sensazione magnifica di inclusione, di potenza, di fratellanza, persino.

Oggi, da malato invisibile, mi è molto difficile sentirmi a mio agio come membro di un gruppo qualsiasi; uno di lavoro, ad esempio. Mi manca la sicurezza di poter dare il meglio di me.

Ma non è sempre stato così.

Nel 1990, ad esempio, vivevo ancora nel paese fra le montagne, a cavallo fra Toscana e Emilia, e avevo proposto ai miei pochi amici di suonare insieme. Era stato tutto molto spontaneo. Io avevo creato qualche motivetto con i pochi accordi che sapevo fare e Danilo, uno degli amici storici che frequentavo molto all'epoca, mi aveva dato una mano a sistemarli e a suonarli, facendomi nel frattempo ascoltare i suoi. Danilo aveva una voce squillante, a differenza della mia, e anche lui aveva una chitarra da suonare. Te l'ho dett; era il momento storico migliore per i chitarristi. Molti ragazzini volevano suonare quello strumento: erano gli anni degli AC⚡DC, dei Nirvana e dei Pearl Jam.

Ci divertivamo moltissimo, anche se io ero una schiappa con i testi. C'era un nostro amico, però, a Pontremoli, che era molto più in gamba di noi nell'arte di emozionare con le parole. Si trattava di Marco, e possedeva la chitarra acustica fantastica che avevo visto qualche settimana prima. Sapevo che gli piaceva scrivere poesie, oltre che strimpellare, e nel giro di poco tempo anche lui era entrato nel gruppo in maniera fisiologica e naturale. I testi che scriveva e cantava con la sua voce bassa e profonda ci avevano dato una grossa spinta a continuare.

Le canzoni fiorivano. Ora eravamo in tre, con tante possibilità in più di imparare l'uno dall'altro, di scambiarci suggerimenti di ascolto per scoprire nuova musica, aspirazioni e idee.

Dopo poco insistetti così tanto con i miei genitori che mi regalarono pure una chitarra acustica. Non li ho mai ringraziati abbastanza e quindi lo faccio adesso: grazie di cuore!

Se il dolore ai polpastrelli che avevo provato con la chitarra classica era già forte, quello provato con le corde in metallo della chitarra acustica era stato qualcosa di fuori scala. Erano più sottili e più tese; erano più vicine tra loro, quelle corde, e ci volle un bel po' ad abituarsi ad essere ancora più precisi, ancora più forti, ancora più determinati ad ignorare il dolore e andare avanti (una cosa che più tardi mi sarebbe stata davvero molto utile nella vita), ma era troppo importante per mollare. Dovevo andare avanti.

Ti racconto tutto questo per farti capire cosa potessero fare le mie mani e quanto era importante per me il suono della mia nuova chitarra. Mi piaceva tantissimo: potevo fare molte più cose e le mie dita diventavano sempre più forti, sempre più in grado di dosare la giusta quantità di forza in un punto piccolissimo per stringere le corde dove serviva e poi spostarsi velocemente sulla nota successiva. Un lavoro, insomma, di grande precisione che avrei continuato a fare ancora per molti anni.

Per la promozione in terza media, i miei cedettero di nuovo alle mie suppliche per avere una chitarra elettrica. Gliel'avevo chiesta fino allo sfinimento. Era ora di fare il salto di qualità, ma allora non mi rendevo conto che nel bilancio familiare una spesa di 650.000 lire era una grossa somma. Oggi me ne vergogno un po', ma in quegli anni questo fervore musicale mi stava dando un po' la testa. Mi sentivo sempre più importante, persino troppo, vista la situazione, e così mi sentivo in diritto di chiedere tutto, di avere tutto.

La mia nuova chitarra elettrica, tutta bianca, la comprammo a Parma in un pomeriggio di luglio del 1991. Senza sapere troppo di chitarre, avevo preso quella che mi piaceva di più esteticamente, pur restando nel budget. Ovviamente, con il suo piccolo amplificatore al seguito o sarebbe stata inutile per le mie mani. All'improvviso, si era aperto un nuovo universo di possibilità.

Questo strumento era un po' più facile da suonare; serviva meno forza per suonarlo, ma molta, moltissima precisione in più. I suoni distorti, infatti, se non sono suonati con una precisione maniacale, provocano soltanto un gran rumore, ma niente musica.

Anche per il nostro piccolo gruppo musicale si aprirono nuove prospettive, nuove possibilità di incastrare il suono di uno strumento con quello dell'altro. In breve tempo fu tutto un fiorire di chitarre. Anche Danilo ne prese una, una stupenda chitarra elettrica blu metallizzata, marca Fender. Ci divertivamo sempre di più suonando insieme a Marco, che continuava a sfornare testi su testi; insieme funzionavano bene. Dopo qualche mese, anche Lorenzo, un altro grande amico che viveva a Milano, si prese una chitarra elettrica. Era l'imitazione di uno strumento degli anni '60, con un suono fantastico quanto il suo colore rosso fuoco e un grande amplificatore adatto anche al rock pesante. Anche lui aveva scritto qualche canzone, guarda un po', e così lo inglobammo nel gruppo immediatamente.

Ognuno di noi aveva un'anima musicale diversa: chi amava la musica leggera italiana, chi il rock inglese e il pop, chi quello americano, chi il country e le ballate. Ciascuno portava un contributo e un punto di vista diverso al gruppo, e quello che nasceva era davvero qualcosa di più della somma delle parti: un genere unico. Eravamo al settimo cielo.

La prima crisi del gruppo arrivò qualche tempo dopo, quando ero già alle scuole superiori. Ci eravamo resi conto che c'erano davvero troppe chitarre e troppe voci nel gruppo, ma nessuno, giustamente, voleva fare un passo indietro. In particolare, io insistevo molto per fare un salto di qualità. Mi sentivo sempre più sicuro sullo strumento, stavo facendo progressi suonando i pezzi dei Nirvana, dei Deep Purple e naturalmente anche dei Pink Floyd. Essere in grado di suonare le canzoni dei miei idoli, che adoravo, mi dava tanta arroganza e sicurezza. Una cosa che ho notato solo a distanza di anni. Con i miei amici insistevo molto anche perché fossero d'accordo con me e per qualche ora siamo stati davvero a un passo dallo scioglimento. Non riuscivamo a trovare una soluzione. In quegli anni non c'era internet e WhatsApp, e le nostre discussioni duravano settimane, visto che ci vedevamo solo di sabato e di domenica. Per fortuna, la nostra amicizia non ne risentì, visto che poi facevamo anche molte altre cose insieme che stemperavano i toni. Si andava al fiume, a giocare a pallone, a fare le grigliate insieme nei boschi quando era stagione. Noi, in fondo, eravamo i “Crackers”, quel gruppo musicale così particolare che faceva tanti generi in uno. Finite le discussioni, si tornava più amici di prima, perché in tutti noi c'era la consapevolezza che potevano esserci dei dissapori, ma si doveva trovare una soluzione.

Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa oggi, da adulto e ammalato invisibile.

Quanti gruppi ho incontrato nella mia vita! Ho cambiato lavoro un sacco di volte: nuovi gruppi, nuove regole e nuove consuetudini da cambiare tutte le volte e, in questo caso, obiettivi che non sempre sono condivisi da tutti i membri del gruppo. I gruppi dell'età adulta spesso sono spietati: tolleranza zero, pressioni e manipolazioni varie: o sei come noi, o non sei uno di noi.

Avrei potuto fare parte di tanti gruppi musicali, come poi è stato, ma nessuno di questi mi avrebbe mai preparato abbastanza ai gruppi sociali dell'età adulta. Anzi, avere sperimentato l'unione intima dei gruppi musicali è qualcosa che ti porta nella direzione diametralmente opposta: a fidarti completamente, cosa che nei gruppi di persone che frequento oggi non posso fare fino in fondo.

Sì, perché da malato invisibile c'è sempre una certa tendenza degli altri ad ignorare chi sono. Sarebbe bello poter dire che la malattia non è ciò che ci definisce, ma nella società della produzione, purtroppo, è esattamente quello che accade: o sei produttivo, o fai quello che il gruppo si aspetta da te e come il gruppo se lo aspetta da te, oppure sei un problema e non c'è spazio né per la creatività né per il rispetto delle difficoltà di chi è ammalato.

Anche i gruppi sociali convenzionali sono un problema. Faccio fatica a partecipare a tutte le attività proposte dagli amici, dai conoscenti e anche dai parenti più o meno stretti. “Ma perché non ci vediamo martedì alle 7 di sera? Dai, una pizza...”

Come faccio a spiegare per l'ennesima volta che le mie energie finiscono già alle 5 del pomeriggio, quando va bene? Altro che martedì sera!

“Ma perché non ci vieni a trovare? Prendi la macchina, parti e via. Ah, io, alla tua età... Sapessi cosa facevo!”

Eh, se solo potessi guidare più di un'ora senza mal di schiena e senza addormentarmi, forse lo farei. Forse tu alla mia età non avevi l'artrite, la fibromialgia e la psoriasi.

Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue. Al gruppo che non ci capisce può sembrare che siamo sfaticati, che non ci interessi davvero quello che facciamo o che non siamo portati per farlo. So che tanti di noi, malati invisibili, hanno subito pesanti conseguenze sul lavoro a causa di questa enorme difficoltà di comprensione. Alla fine, noi malati invisibili sappiamo di essere soli anche in gruppo, anzi, spesso proprio in gruppo.

C'è una cosa che non sono ancora in grado di fare, nemmeno dopo tanti anni di vita: non generalizzare. È vero che noi malati invisibili facciamo fatica ad essere capiti e accettati in diversi tipi di gruppi, ma non dobbiamo neanche perdere la speranza. In fondo ci sono gruppi di persone davvero meravigliosi. Il gruppo musicale dei Def Leppard, ad esempio. Erano famosi negli anni '90. Il loro batterista perse un braccio in un incidente stradale, ma gli altri membri della band decisero di non sostituirlo. Attesero che si riprendesse e che imparasse a suonare quasi da zero una batteria modificata per essere suonata con un braccio solo. Wow! E se esistono gruppi come quello, allora c'è speranza che ne esistano di simili che possano capirci. Non dobbiamo perdere la speranza.

Nel frattempo dobbiamo fare un certo lavoro di pulizia, se mi passi il termine. Se un gruppo di persone non ci capisce, allora è inutile insistere: meglio abbandonarlo. Se possiamo, se ci è possibile, smettiamo di frequentare quel gruppo: continuare ci farebbe stare ancora peggio. E se non ci tuteliamo noi da soli, chi lo farà? Un consiglio che mi sento di darti è di non pensarci troppo, a costo di sembrare freddo, superficiale e maleducato.

Non abbiamo energie da perdere. Spostiamoci altrove. Nuove persone arriveranno, nuovi gruppi ci accoglieranno. Ci sarà sempre una nuova possibilità. Le persone che ci possono capire sono una su un milione, ma ci sono. Non smettiamo mai di cercarle, o la malattia ci avrà già sconfitti; ci trasformerà nei mostri che non siamo e che non dovremmo essere mai. E poi noi siamo tanti, tantissimi. Siamo in ogni gruppo. Siamo un gruppo. Troviamoci almeno fra di noi, nei commenti di questo podcast, nella pagina Facebook che trovi nella descrizione di questo episodio https://www.facebook.com/GridoMutoPodcast). Restiamo aperti a riconoscerci tra tanti invisibili, ma uniti, in qualsiasi gruppo sociale.

Ci sentiamo martedì, stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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✨ Le mie mani hanno una data di scadenza. Come farò dopo? 🤔

“Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare.”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 6), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

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Sono passati tanti anni da quando ho perso il senso del tatto. Soltanto di recente sono riuscito a recuperarlo in parte, ma non ho più trovato niente che sia bello da toccare tanto quanto la prima chitarra che ho avuto fra le mani. Riesco ancora a sentirne l'odore, quell'odore della colla mista a quello del legno di abete di cui era fatta. Fantastico! Spesso mi avvicinavo al foro centrale della chitarra, quello sotto le corde, per aspirarne il profumo a pieni polmoni.

A cavallo tra gli anni '80 e '90, la chitarra era ancora all'apice della sua gloria e ci sarebbe rimasta ancora per un po'. Il rock e l'heavy metal erano sempre più famosi in tutto il mondo e la chitarra elettrica era uno dei simboli più forti di quei generi musicali. Di conseguenza, anche i chitarristi di fama mondiale si moltiplicavano. Era normale che tra i ragazzi della mia età quello strumento esercitasse un fascino irresistibile. Di fatto, chi non voleva fare il cantante di una rock band voleva fare il chitarrista. Per me, questa attrazione magnetica si era concretizzata proprio nello strumento che stringevo, prestato da una cugina che non finirò mai di ringraziare, anche se ora non c'è più.

Avevo visto la chitarra in mano ai grandi del rock e ora finalmente potevo suonarla, o almeno provarci. Suonare era una parola un po' grossa all'epoca. Come mi diceva qualcuno, più che suonarla, la “facevo suonare”. Con il tempo ho imparato quale fosse la differenza enorme tra queste due cose, ma in quel momento la gioia di ascoltare questi suoni nuovi e sapere che ero io a produrli, a decidere quando farli iniziare e quando farli finire, era qualcosa di elettrizzante. Io ero il regista di quei suoni e nessun altro. Non era certo la chitarra elettrica dei Pink Floyd, d'accordo, ma era pur sempre una chitarra e passavo ore e ore chino sopra di lei, con il libro di scuola davanti, a cercare di imparare quei tre o quattro accordi che c'erano in quelle pagine. Alcuni di questi accordi, che si chiamavano barré, non riuscivo proprio a farli. Il Fa maggiore, ad esempio; bisognava mettere il dito totalmente disteso in verticale e stringere ben sei corde insieme. Si usava il lato destro dell'indice della mano sinistra. Ci voleva troppa forza e le sei corde di nylon della chitarra facevano così male che non riuscivo a premerle come si doveva per eseguire l'accordo correttamente. Ne uscivano dei suoni muti o gracchianti e mi chiedevo se ce l'avrei mai fatta.

Riuscivo a fare altre cose, però. Con quello che avevo imparato nelle lezioni di musica a scuola, imparai a suonare da solo le melodie di alcuni brani di Pink Floyd. Mentre eseguivo la prima nota della melodia, il mio cervello calcolava al volo la distanza della nota successiva sul manico della chitarra e, le volte successive, usavo semplicemente la memoria. Oggi mi rendo conto che questo non fosse il metodo migliore per imparare a suonare uno strumento, ma allora l'importante era il risultato. Ricordavo dove avevo messo le dita per suonare quella canzone, tutto lì. Ero al settimo cielo. La mia memoria e il mio orecchio musicale mi aiutavano moltissimo e riuscivo così a ripercorrere i passi dei grandi della musica.

Parlando con il professore di musica a scuola, riuscii a ottenere il permesso di suonare la chitarra al posto del flauto. Ero l'unico ragazzino che aveva uno strumento diverso dal flauto e gli occhi degli altri erano puntati su di me. Stavo in qualche modo cominciando a realizzare il mio sogno?

Mi sentivo diverso dagli altri, osservato, e questa volta non era per la vergogna di grattarmi in classe. Alcuni dei miei compagni erano un po' invidiosi e questo mi dava soddisfazione. Devo ammetterlo.

Sapendo che non riuscivo a fare i barré, il professore aveva scarabocchiato su un foglio a quadretti i punti in cui avrei dovuto mettere le dita per fare altri accordi. Si trattava di accordi nuovi, quelli che sul libro non c'erano e che mi sarebbero serviti per accompagnare le canzoni che i miei compagni suonavano col flauto.

Il prezzo da pagare per tutto questo era abbastanza alto per la mia età. La chitarra classica, con la sua custodia di plastica rigida e spessa, era uno strumento pesante e ingombrante, quasi quanto lo zaino pieno di libri. E portare tutto questo peso, avanti e indietro da scuola a casa e viceversa, su e giù per gli autobus e nei tragitti a piedi, era un po' faticoso, ma non mi importava perché mi stava rendendo più forte, sia nell'animo che nel fisico.

In quel periodo riuscii anche a partecipare a corsi di atletica nella mia scuola. Sono sempre stato una schiappa nelle gare di velocità, ma in quelle di forza lì riuscivo benissimo. Fui uno dei pochi in tutta la scuola a partecipare alle gare provinciali di salto in alto e in lungo e, in seguito, riuscii ad arrivare terzo alle competizioni provinciali e a piazzarmi bene anche alle regionali, pur gareggiando con ragazzi molto più alti di me. Anche questo, e sentirmi sempre più forte fisicamente, mi dava un senso di grande sicurezza. Mi faceva sentire migliore degli altri. Da lì a sviluppare una certa arroganza, anche in casa, il passo fu davvero breve. Mi sentivo sempre più importante.

L'inverno e le sue giornate buie e nevose passarono molto più rapidamente quell'anno. Dopo avere ricevuto per Natale una chitarra classica tutta mia, mi ritrovai velocemente alla primavera del ’90. Le mie mani diventavano sempre più forti a forza di esercizi, lezioni di musica e canzoni. Passavo tutto il tempo che potevo sullo strumento a suonare canzoni che conoscevo, o almeno le loro melodie, e un giorno, con grandissima sorpresa, riuscii a produrre un accordo decente di fa maggiore: uno di quelli che prevede il faticoso dito indice che blocca tutte le corde. Non riuscivo a contenere la gioia; ero così contento che al centro del petto sentii una bella sensazione che si allargava con il respiro fino a raggiungere le mie mani.

Era la forza creativa che mi spingeva a suonare accordi simili, provare a farli in altri punti del manico dello strumento e vedere che effetto si otteneva; cambiare il movimento della mano destra e vedere cosa sarebbe cambiato di conseguenza: il ritmo della canzone o l'effetto sull'accordo, perché non era la stessa cosa suonare le corde con la mano destra in un verso piuttosto che nell'altro.

Comprai un grande poster da appendere in camera su cui c'erano tutti gli accordi che si potessero desiderare, raggruppati per tonalità. Era in inglese, ma non era un problema. In breve tempo avrei imparato anche la terminologia musicale anglosassone, diversa dalla nostra. Non c'era più niente che potesse fermarmi, a quel punto, tranne una chitarra acustica che vidi per la prima volta dal vivo a casa di uno dei miei amici, Marco.

Era tutta nera con finiture rosso acceso ed emetteva un suono divino per le mie orecchie, molto più brillante e definito rispetto alla mia chitarra classica. Gli accordi eseguiti su quello strumento sembravano un coro di angeli rispetto a quelli della chitarra classica. Era incredibile come suonasse. Il mio orecchio comprese subito che tutti i musicisti che avevo amato fino a quel momento usavano chitarre acustiche nei loro dischi, oltre a quelle elettriche. Per le chitarre classiche non c'era posto, esattamente come nella società di oggi non c'è posto per i malati invisibili. La mia nuova chitarra classica, all'improvviso, mi sembrava già vecchia.

Da quel momento, iniziai ad ascoltare e riprodurre in testa le canzoni di diversi artisti che avevano fatto della chitarra acustica il loro segno distintivo. Tracy Chapman, ad esempio, o Neil Young, Bob Dylan, Suzanne Vega. Un nuovo vaso di Pandora si era aperto per il mio orecchio musicale. Nel frattempo, avevo in mente un po' di cose che io e il mio amico potevamo fare: suonare insieme, ad esempio. Se ci ripenso oggi mi sembra impossibile che le mie dita potessero fare tutte quelle cose e mi sembra impossibile anche la tenacia che avevo e che mi spingeva ad imparare tutto. Anzi, ad andare avanti, imparando, nonostante le dita che mi bruciavano sulle punte. Chi me lo faceva fare? In fondo, sicuramente il desiderio di spiccare in mezzo a tanti altri della mia età, ma c'era di più: amavo creare. Le dita si sarebbero adattate.

Oggi ci sono giorni in cui, con le stesse dita, non riescono ad aprire un barattolo di marmellata ed è così da tanto. E non ho neanche 50 anni. La perdita del senso del tatto, infatti, è solo uno dei problemi che affliggono le mie mani, purtroppo. Sicuramente vale per tutti il fatto che, andando avanti, le articolazioni stiano sempre peggio, ma è come se per me questo processo fosse accelerato di 10, di 20 volte. Penso al futuro, imminente, e mi chiedo come potrò fare ad essere autosufficiente.

Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare. Questo è quello che ho sempre fatto nella mia vita: non soltanto lavorando, ma in tutto il resto del tempo. Anzi, soprattutto nel resto del tempo. Le mie mani stanno perdendo la capacità di interagire con il mondo, di farmi interagire con il mondo. Cosa farò quando non sarò più in grado di creare? Potrò considerarmi ancora me stesso? Sembra banale, ma questi sono i miei pensieri e ci penso spesso e non ho una risposta. Forse potresti darmi tu il tuo punto di vista con un commento, ad esempio.

Spesso indugio in questi pensieri, ma mi sforzo di scacciarli via con prepotenza. Ci sono tante cose che non posso più fare, ma ce ne sono tante altre che a questo punto della mia vita non avrei immaginato di poter ancora fare, o di poter fare, in generale. Questo podcast, ad esempio, e questo mi dà conforto, perché penso a quante altre cose belle potrò fare in futuro, cose che ora nemmeno immagino e che neppure le malattie mi impediranno di fare.

Ci sentiremo presto per il seguito della mia storia; una storia che somiglia sempre di più a un lungo viaggio sulle montagne russe. Ti do appuntamento a martedì prossimo con un nuovo episodio.

A presto, e stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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