Colonnello Lobanovskyj

Валерій Васильович Лобановський

Henry Kissinger: 100 anni nella storia

Henry Kissinger

100 anni sono un bel traguardo da raggiungere per chiunque, questo è fuori discussione. ma se quelle 100 candeline le spegne uno degli uomini più influenti del XX secolo, allora l’evento diventa qualcosa di straordinario. L’uomo che oggi raggiunge il traguardo del secolo di vita, è infatti Henry Kissinger, Segretario di Stato americano tra il 1969 e il 1977 e protagonista, nel bene e nel male della politica americana (e quindi mondiale) in quegli anni (ma anche in quelli successivi) Henry Kissinger è nato Heinz Alfred Kissinger a Fürth in Germania,il 27 maggio 1923 da una famiglia di origine ebraica, che emigrò negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste nel 1938. La famiglia era piccolo borghese, padre insegnante, madre casalinga che accudiva i due figli (Kissinger aveva un fratello, Walther,di un anno più giovane e deceduto nel 2021, evidentemente la longevità dev’essere una dote di famiglia, dato che anche il padre e la madre superarono i 90 anni di vita). I Kissinger si stabilirono a New York e Heinz, che nel fratetmpo aveva cambiato il proprio nome in Henry si iscrisse alla High School George Washington. Era uno studente brillante e per un lungo periodo lavorò di giorno (fece l’operaio in una fabbrica di spazzole, poi in una di pennelli da barba e infine trovò un impiego in un ufficio postale) e studiò la sera per imparare l’inglese. Ma il 1943 cambiò la sua vita: gli Stati Uniti erano in guerra contro l’Asse e Henry e suo fratello Walther si arruolarono nell’esercito americano, e divennero cittadini a stelle e strisce. Poiché parlava inglese e tedesco divenne un interprete per il controspionaggio e fu mandato nella Germania occupata. Era interprete e aiutante del generale che comandava la 84ª Divisione che, nell'aprile del 1945, fu inviata a Krefeld in Germania. Anche il comandante si accorse che quel ragazzo era particolarmente in gamba e così, sia perché parlava bene il tedesco, sia per le sue grandi doti di organizzatore, gli fu affidato l’incarico di riorganizzare l'amministrazione di Krefeld, allo sbando dopo la fuga dei nazisti: mezzo milione di persone senz'autorità, casa, vestiti, cibo. Nel giro di una settimana il soldato semplice Henry Kissinger riuscì a far tornare alla normalità la vita a Krefeld. Venne promosso sergente e subito dopo fu distaccato alla scuola dei servizi segreti del comando europeo, dove insegnava agli ufficiali come scoprire i nazisti che cercavano rifugio nella clandestinità. Anche se l’esercito gli propose di rimanere come insegnate civile, Henry rifiutò, rinunciando ad un buon stipendio per portare a termine gli studi, Fece domanda ad harvard, fu accettato e a 24 anni cominciò una nuova vita.

Laureatosi nel 1950 e ottenuto il dottorato di ricerca nel 1945 con una tesi su Castlereagh e Metternich, rifiutò poi una cattedra all'università di Chicago perché “era troppo lontana dalla scena politica di Washington”, rimanendo ad Harvard anche se con impieghi saltuari. Nel frattempo nel 1957 aveva pubblicato uno studio molto apprezzato denominato “Nuclear Weapons and Foreign Policy” e la sua carriera accademica sembrò decollare: deivenne professore associato nel 1959 e ordinario nel 1962, dirigendo diversi centri di studio dell’università e facendo consulenze per svariati organismi del governo federale L’incontro decisivo per portare Kissinger nella politica di alto livello fu quello con Nelson Rockefeller, miliardario, esponente di spicco del Partito Repubblicano e collaboratore del presidente Eisenhower. Rockefeller offrì a Kissinger di lavorare alla Fondazione Rockefeller con il titolo di direttore degli studi speciali. Nel frattempo collaborò assiduamente con la presidenza Eisenhower, incarico che continuerà anche con i presidenti Kennedy e Johnson.

All’epoca era già considerato un esperto di strategia politica internazionele. Il già citato suo primo libro , Nuclear Weapons and Foreign Policy (Armi nucleari e politica estera), richiamò su di lui l'attenzione di politici, giornalisti, addetti ai lavori e di tutti coloro che si occupavano, in qualche modo, dei problemi strategici del potere americano. In esso Kissinger proponeva una teoria della pace e della guerra assolutamente innovativa e un nuovo modo d'impostare i rapporti di potere rispondente alla rivoluzione avvenuta negli armamenti nucleari. Affascinato dai discorsi della “Nuova Frontiera” di John Fitzgerald Kennedy, fu invitato da Arthur Schlesinger Jr., uno dei consiglieri più stretti di JFK a collborare con la presidenza, anche se questa fu un’esperienza fallimentare. Mai accettato dal gruppo di potere che stava intorno a kennedy, presto i due si stancarono l’uno dell’altro e la collaborazione terminò in fretta.

Gli anni successivi furono drammatici per gli Stati Uniti: l'assassinio di Kennedy, poi la guerra del Vietnam e infine la campagna elettorale del 1968, durante la quale furono uccisi martin Luther King e Robert Kennedy, probabile candidato deomcratico per quelle elezioni. Kissinger aveva collaborato con Lyndon Johnson, che lo aveva mandato in Vietnam per verificare l’attendibilità dei rapporti della CIA. Durnate questi viaggi fu quanto mai evidente a Henry che gli USA stavano sbagliando tutto nel sud-est asiatico. Con la vittoria di Nixon alle elezioni del ‘68 iniziò la carriera politica vera e propria di Kissinger. Nixon ereditava un paese lacerato al suo interno dagli scontri razziali e dalle proteste contro la guerra e decise di chiamare Kissinger per il ruolo di Assistente del Presidente per la Sicurezza nazionale.

Il professore e il presidente avevano molte cose in comune: una naturale predisposizione per la diplomazia segreta, una concezione politica ispirata a un esasperato pragmatismo, una notevole dose di cinismo, un profondo amore per il potere, una stima reciproca, anche se non priva di una certa diffidenza. Kissinger, dopo essere stato avversario di Nixon in ben tre elezioni (come ebbe modo di confessare ad Oriana Fallaci nella celebre intervista poi divenuta il libro “Intervista con la storia”) ne divenne rapidamente il consigliere più importante, il suo consulente, compagno, apologista, amico e portavoce.

In quegli anni l’amministrazione americana passò dalla politica del contenimento e della guerra totale a quella della guerra limitata e del negoziato permanente.

In un mondo in cui il bipolarismo militare non garantiva più quello politico, venne definitivamente abbandonata la dottrina del “contenimento” e della “guerra totale”, tipica del periodo della guerra fredda. Ora che la superiorità militare americana si stava ridimensionando e che altri centri di potere stavano sorgendo nel mondo, era necessaria una diplomazia agile e dinamica, che costringesse a una convivenza internazionale, resa indispensabile per evitare il rischio di una guerra atomica.

Ma il capolavoro politico e diplomatico di Kisisnger fu sicuramente la fine della guerra del Vietnam, sulla quale Nixon si era giocato buona parte della sua presidenza. La parola d’ordine divenne “Vietnamizzazione”. L’obiettivo di Nixon era quello di arrivare a un disimpegno onorevole da quella guerra che era diventata ormai insostenibile sia economicamente che politicamente. Kissinger riuscì ad inserire la pace in Vietnam in un disegno strategico molto più ampio, coinvolgendo anche Unione Sovietica e Cina. Egli era già riuscito nell’intento di intavolare dei colloqui per la limitazione delle armi nucleari (i cosiddetti colloqui di Helsinki), dai quali scaturirà il trattato SALT che sarà sottoscritto da oltre 100 paesi e poi il successivo SALT2 Questa sua posizione verso la distensione gli costerà però l’ostracismo sia da parte dei pacifisti di sinistra che dei falchi della destra anticomunista. Sarà ancora lui a preparare il viaggio di Nixon in Cina nel 1972 che porterà alla distensione nei rapporti tra USA e Cina tramite la cosiddetta “Democrazia del ping pong” I tempi erano maturi per portare gli Stati Uniti fuori dalla guerra del Vietnam. Grazie ai cosiddetti accordi di Parigi del 1973 negoziati da Kissinger con il Vientam del nord il conflitto ebbe fine e Henry, assieme al vietnamita Lê Đức Thọ vinsero il premio Nobel per la pace. Fino qua le luci della sua carriera politica. Ma da questo momento in avanti saranno le ombre a prevalere. Il primo colpo alla credibilità del professore sarò il suo coinvolgimento nel golpe cileno dell’11 settembre 1973 (e in generale in tutta quell’operazione di politica estera che va sotto il nome di “Operazione Condor”). Kissinger ebbe un ruolo di sostegno attivo al colpo di Stato militare di Augusto Pinochet, che costò la vita al presidente democraticamente eletto Salvador Allende e che portò ad una feroce dittatura che commise anche crimini contro l'umanità Kissinger sosterrà sempre di essere stato del tutto estraneo agli eventi del 1973, pur ammettendo la sua responsabilità in attività di destabilizzazione – compreso l'avallo a un colpo di Stato che fallì – negli anni 1970 e 1971. Ebbe un ruolo attivo anche nella risoluzione della guerra del Kippur, tra Egitto e Israele. Con lo scoppio dello scandalo Watergate (al quale Kissinger rimase totalmente estraneo, ma che lo coinvolse in qualità di amico e consigliere di Nixon) rimase al suo posto sotto la presidenza di Gerald Ford, anche questa però segnata da luci e ombre: da una parte l’appoggio dato in Angola e in Mozambico alle forze anticomuniste, dall’altra il ruolo decisivo nella fine del regime razzista bianco in Rhodesia e nella sua sostituzione con un governo della maggioranza nera (Zimbabwe) o ancora l’approvazione data al presidente indonesiano Suharto per l'invasione di Timor Est, che provocherà, durante i 24 anni della sua durata, la morte di oltre 100 mila persone. Con la presidenza Ford fin+ anche la carrirera di Kisisnger alla Casa Bianca, poichè la presidenza successiva fu democratica (Jimmy Carter) e poi il partito repubblicano svolò, con le presidenze Reaga ne Bush su posizioni neo-con che poco si addicevano alle idee politiche di Kissinger. Continuò ad essere impegnato in iniziative politiche come Trilateral Commission e svolgendo attività di consulente, conferenziere, commentatore televisivo e scrittore. Nel 1977 entrò a far parte del Center for Strategic and International Studies della Georgetown University.

Grande appassionato di calcio, fornì la sua mediazione con la FIFA per l’assegnazione agli USA del mondiale 1994 e fu poi nominato presidente onorario del comitato organizzatore dell'evento.

Il suo ultimo incarico di rilevo fu la nomina, da parte di George W. Bush a presidente della commissione incaricata di chiarire gli eventi dell'11 settembre 2001: questo suscitò aspre critiche da parte di coloro che lo accusavano di crimini di guerra; Kissinger si dimise dalla commissione il 13 dicembre 2002. Sicuramente un personaggio discusso e discutibile, dai suoi rapporti con Mao, alla sua influenza durante il golpe cileno, fino a quello con Aldo Moro. Oggi quest’uomo che raggiunge l’incredibile traguardo delle 100 primavere è sicuramente divenuto un testimone del tempo e della storia, che lui ha, nel bene e nel male contribuito a scrivere con un’impronta decisiva. Senza dubbio è stato uno degli uomini più influenti del XX secolo, comunque si giudichi la sua carriera politica.

In ricordo di Emiliano Mondonico e di quella sedia sollevata in aria

Mondonico Sedia

Emiliano Mondonico era uno degli ultimi rappresentanti di una categoria di allenatori che ormai non esistono più, quelli schietti, forse anche un po' burberi, ma che i loro giocatori adoravano. Era nato il 9 marzo del 1947 a Rivolta d'Adda (CR), dove i genitori gestivano una trattoria in riva al fiume. Cresciuto nella Rivoltana, squadra del suo paese, passò poi alla Cremonese e successivamente passò in varie squadre: Torino, Monza, Atalanta, per poi tornare alla Cremonese, dove concluderà la carriera, con il record di miglior realizzatore di sempre della squadra grigiorossa con 88 reti. Da allenatore girò tantissime squadre, ma i migliori risultati li ottenne al Torino nelle stagioni tra il 1990 e il 1994. Tornerà ancora ad allenare i granata tra il 1998 e il 2000, ma con risultati non paragonabili al periodo precedente. Nel suo primo periodo al Toro spiccano una Coppa Italia nella stagione 1992/93 ma soprattutto la favolosa cavalcata in Coppa Uefa nella stagione 1991/92, conclusa con l'approdo in finale contro l'Ajax, di cui parleremo dopo. Mondonico calcò le scene del calcio per 15 anni da giocatore e 30 da allenatore, vivendo sempre nel proletariato del calcio che però riuscirà a a portare a livelli di eccellenza, come con il Torino. C'è chi dice che le sue squadre erano sanguigne e che vivevano il calcio “a vino rosso, pane e salame”, ma trovo questa descrizione un po' riduttiva, perché le sue squadre non erano solo grinta e aggressività, ma sapevano anche giocare bene a pallone. Il Torino di inizio anni '90 era era una squadra che rispecchiava in pieno il suo allenatore, non per niente quella squadra arriverà ai vertici delle competizioni europee. In quella quadra giocavano ottimi giocatori, a cominciare da un giovanissimo Luca Marchegiani in porta, ma anche Lentini (nel suo priodo d'oro, prima di deludere tutto e tutti al Milan), Scifo e Casagrande (uno che aveva fatto la democrazia corinthiana con Socrates in Brasile dieci anni prima) e i mastini Bruno, Annoni e Benedetti. E così quel Torino iniziò la sua grande cavalcata in quella che allora si chiamava Coppa Uefa, eliminando via via KR Reykjavik, Boavista, AEK Atene, BK 1903 Copenaghen fino ad incontrare niente meno che il Real Madrid in semifinale, una sfida che farebbe tremare chiunque, ma che i granata riuscirono a superare perdendo 2-1 in Spagna e vincendo 2-0 a Torino (nell'oggi scomparso Stadio delle Alpi). Sembrava fatta, c'era solo da superare l'Ajax in finale. A quei tempi la Coppa Uefa prevedeva la finale su due partite, andata e ritorno, così il 29 aprile del 1992 si giocò al delle Alpi, con gli olandesi che andarono in vantaggio per due volte e il Torino che rimontò con una doppietta del solito Walter Casagrande. Tutto si giocava nell'ultima partita, il 13 maggio all'Olympisch Stadion di Amsterdam (all'epoca non esisteva ancora l'Amsterdam Arena e l'Ajax non poteva giocare gli incontri UEFA al De Meer, troppo piccolo). Il Torino ce la mise tutta, ma era uno di quei giorni in cui il pallone in porta proprio non ci voleva entrare: i granata colpirono tre pali e una traversa su una gran rovesciata di Sordo, ma nulla. Poi, all'improvviso, fallo in area di Frank De Boer su Cravero, ma l'arbitro jugoslavo Zoran Petrović non fischiò il rigore, nonostante le proteste dei giocatori. Fu allora che accadde: le panchine dell'Olympisch Stadion erano piccole, così, per aumentarne la capienza erano state aggiunte delle semplici sedie pieghevoli. Mondonico ne afferrò una e cominciò a brandirla sollevandola in aria in segno di protesta. Anni dopo dirà: “Quella sedia è il simbolo di chi tifa contro tutto e tutti. È il simbolo di chi non ci sta e reagisce con i mezzi che ha a disposizione. È un simbolo-Toro perché una sedia non è un fucile, è un'arma da osteria” A proposito della partita invece: “Quella partita fu un esempio di vita incredibile. Arrivare secondi è la cosa più brutta che esista, meglio venire eliminati al primo turno. Vai in finale e arrivi secondo, arrivi secondo e non conti più niente” Emiliano Mondonico se n'è andato il 29 marzo del 2018 per un male incurabile, lasciandoci il ricordo di un uomo e un allenatore amato da tutti e soprattutto di quella sedia alzata verso il cielo come un'arma verso l'ingiustizia.

USA-Iran, 24 anni dopo

Usa Iran

Gli dei del calcio sanno essere bizzosi, dice spesso qualcuno di molto più bravo e famoso di me. E così. a 24 anni di distanza, USA e Iran si incontreranno di nuovo su un campo di calcio dopo quel 24 giugno 1998 allo Stade de Gerland di Lione. USA-Iran non può essere una partita come le altre, mai. Non lo fu allora, in una partita orchestrata in ogni aspetto dalla FIFA (che arrivò a convincere gli iraniani a donare una rosa bianca agli americani), non lo sarà domani, in un clima avvelenato dalle polemiche di questi giorni. L'aspetto sportivo in questo caso c'entra poco. Nel 1998 l'Iran arrivò all'ultimo alla qualificazione ai mondiali battendo l'Australia negli spareggi e provocando una specie di sollevazione popolare, con festeggiamenti che riempirono le strade di Teheran e delle altre città persiane, nonostante il regime avesse fatto di tutto per tenerli nascosti agli occhi del mondo. Anche allora, come oggi, le protagoniste furono le donne, che scesero in piazza ebbre di gioia e pazze per i calciatori. Per la cronaca l'Iran batté gli USA 2-1 provocando una ulteriore ondata di festeggiamenti. Anche oggi, a tanti anni di distanza, l'Iran è favorito nella partita di domani e anche quest'anno si arriva a questa competizione in un clima di tensione, tra gli scontri di piazza che hanno insanguinato ancora una volta le strade di Teheran e che hanno visto ancora le donne protagoniste, ma questa volta molte di loro ci hanno rimesso la vita o hanno subito torture e sevizie da parte della polizia religiosa, mentre la tensione con gli USA, gli storici nemici di sempre non accenna a diminuire, anzi, se possibile aumenta ancora. In tutto questo bagno di violenza e di sangue, di diritti negati e di soprusi per motivi economici, lo sport prova, ancora una volta a farsi messaggero di pace. Fu così 24 anni fa, quando inevitabilmente il pensiero di tutti andò a quei 52 ostaggi trattenuti per 444 giorni nell'ambasciata americana di Teheran nel 1979, sarà così domani, quando a tutti noi verranno in mente le immagini delle ragazze iraniane che si tagliano i capelli per protesta e i corpi di tante di loro morte per la libertà di poter scegliere e decidere della loro vita. Vedremo domani se i calciatori avranno di nuovo il coraggio di fare qualcosa per protestare, come il rifiuto a cantare l'inno nella prima partita, quella contro l'Inghilterra, vedremo se ancora una volta le strade si riempiranno di persone che festeggeranno per una partita di calcio, ma che in realtà vorranno dire molto altro. Noi tifiamo per loro, non ce ne vogliano gli americani. Come disse il grandissimo Vittorio Zucconi a proposito della partita del 1998: “La pace val bene un gol”.

Zoff, Bergomi, Cabrini, Gentile...

Aereo Mondiali

Era il 1982, esattamente 40 anni fa, un Italia che non c'è più, in un mondo che non c'è più. Era l'11 luglio, al Santiago Bernabeu di Madrid, quando la nazionale di calcio italiana, bistrattata da critici e giornalisti alla partenza per quel mondiale, scendeva in campo contro la Germania (Ovest, perché il Muro di Berlino sarebbe caduto solo otto anni dopo) per giocarsi la finale del campionato del mondo. Sembrano passati secoli da quel 1982. Il nostro paese veniva dagli anni della cosiddetta strategia della tensione, il terrorismo di sinistra, l'eversione di destra, i ragazzi che si uccidevano per strada per le contrapposte ideologie politiche, gli omicidi, i sequestri, le bombe, un paese lacerato, diviso, sull'orlo del baratro. Non che il calcio stesse meglio, due anni prima era esploso il primo, gravissimo scandalo di scommesse clandestine sul calcio (il cosiddetto Totonero) che aveva decimato la serie A e di cui forse parleremo in dettaglio in un'altra occasione. Qua ci basti ricordare che una delle vittime più illustri di quella vicenda fu Paolo Rossi, squalificato per tre anni (perderà gli Europei del 1980 per questo) e rientrato solo pochi mesi prima di quel mondiale e che poi ci farà vincere. La nazionale di calcio godeva di poca o nulla considerazione da parte della stampa che, anzi, coglieva ogni occasione di attaccare quella squadra anche con notizie false e di dubbio gusto, non certo un clima ideale per una spedizione come quella. Sulla panchina di quella squadra sedeva un uomo della bassa friulana, ex difensore di Torino, Inter e Catania, il cui nome era Enzo Bearzot. Anche lui era stato al centro delle polemiche in quei mesi precedenti il mondiale, per via delle sue scelte giudicate errate, come ad esempio quella di volere a tutti i costi il già citato Paolo Rossi come centravanti, a dispetto di tanti mesi di assenza causa squalifica e ignorando i segnali che arrivavano dal campionato, dove Roberto Pruzzo aveva segnato 15 reti. Ma Bearzot voleva Rossi (da lui ritenuto ingiustamente accusato nello scandalo Totonero) quasi come se sapesse che Pablito ci avrebbe portati sul tetto del mondo. Era iniziato male, quel mondiale. Nonostante l'Italia, grazie al peso politico di Artemio Franchi, avesse giocato il primo girone in condizioni climatiche favorevoli (a Vigo, in Galizia, temperatura media 15°) i risultati erano stati deludenti, con solo tre pareggi contro Polonia, Perù e Camerun, passando il turno solo per differenza reti. Tutto questo aveva inasprito ulteriormente i rapporti tra la stampa e i giocatori, fino alla decisione della squadra di entrare in silenzio stampa, lasciando al solo capitano Dino Zoff le comunicazioni con i giornalisti. Quel mondiale prevedeva, dopo la prima fase a giorni, una seconda fase, composta da quattro gironi datre squadre e la nostra nazionale finì nel peggiore, in compagnia di Argentina (detentrice del titolo) e Brasile (forse la squadra più forte del mondiale). Inoltre si giocava a Barcellona, dove la temperatura era di oltre 30. Gli stadi nella città catalana erano due, il maestoso Camp Nou e il più modesto Sarrià, casa dell'Espanyol. Per un curioso scherzo del destino, il girone con le tre squadre più titolate (Brasile, 3 titoli, Argentina 1 e Italia 2) era finito nello stadio più piccolo, mentre al Camp Nou giocavano Belgio, Unione Sovietica e Polonia. La FIFA cercò di invertire gli stadi, per dare una vetrina migliore al girone più blasonato, ma l'opposizione del Belgio fece svanire il tutto e così le partite più spettacolari di quel mondiale si giocarono in uno stadio da poco più di 40 mila posti, stadio che oggi non c'è più (fu demolito nel 1997, quando l'Espanyol si trasferì allo stadio de Montjuïc). In questo girone e in questo stadio si disputò quella che, per molti fu la vera finale di Spagna 82, l'incontro Italia-Brasile, giocato il 5 luglio e terminato con la vittoria degli azzurri per 3-2 (tripletta di Paolo Rossi). Ancora oggi quell'incontro viene indicato semplicemente come “La Partita” e decretò la vera rinascita dell'Italia di Bearzot e soprattutto di Paolo Rossi. Con quella vittoria la nostra nazionale vinse il girone e raggiunse la semifinale con la Polonia (0-2 per gli azzurri, doppietta del solito Paolo Rossi) e poi facilmente la finale dell'11 luglio contro la Germania Ovest, che aveva invece faticato parecchio ad aver ragione della Francia di Michel Platini, battendola solo ai calci di rigore. E così si arrivò all'11 luglio 1982, al Santiago Bernabeu, contro i tedeschi, squadra forte ma molto provata dal percorso fatto per arrivare fin lì. La Germania sapeva che per vincere quella partita avrebbe dovuto segnare per prima, perché in caso contrario il baricentro della partita si sarebbe spostata verso gli azzurri, più in forma e galvanizzati dalla vittoria nel “gironcino” e soprattutto dall'aver battuto il Brasile. E dire che la finale sembrava iniziata male per i nostri, che avevano perso subito “Ciccio” Graziani (al 7° minuto, gli subentrò Altobelli) e fallito un calcio di rigore con Antonio Cabrini. Ma dopo l'intervallo l'Italia trovò di nuovo lo spirito che l'aveva portata fin lì e andò in vantaggio con Paolo Rossi (ancora lui) su cross di Gentile. Era successo ciò che i tedeschi temevano: l'Italia era andata in vantaggio e, come previsto, la partita diventò tutta in discesa per i nostri. Al 69° Marco Tardelli si trovò sul piede una palla perfetta e, mentre scivolava la calciò in porta segnando il secondo gol, seguito da quel gesto di esultanza che ancora tutti ricordiamo come “l'urlo di Tardelli”: corse verso il centro del campo battendosi il petto con i pugni come un'indemoniato e urlando a squarciagola “GOL”. Probabilmente una delle immagini sportive più evocative del novecento. In quell'urlo sembrava che ci fosse tutta la rabbia repressa non solo di Tardelli, ma di tutta quella squadra che stava andando a vincere il mondiale a dispetto di tutto e di tutti e che era come se volesse trascinare con se un paese che aveva un gran bisogno di ritrovarsi unito e coeso, dopo quella orribile stagione che tutti volevano mettersi alle spalle. Ormai la partita era girata verso l'Italia, troppo padrona del campo dopo quei primi due gol e così, con un'azione semplice semplice, ma estremamente elegante arrivò anche il terzo goal, segnato da Alessandro Altobelli. In tribuna, a vedere la partita, ospite di re Juan Carlos c'era un signore di 86 anni che si chiamava Sandro Pertini e che era, dal 1978 Presidente della Repubblica. Inutile stare a ricordare qua la figura di Pertini, troppo grande e importante. Il primo e finora unico Presidente socialista è stato una figura talmente importante della storia della nostra Repubblica, sia durante la lotta partigiana che nel dopoguerra, fino alla sua presidenza, da meritare una trattazione a parte. Ma noi, ripensando a quell'11 luglio di 40 anni fa vogliamo ricordarlo esultare (in maniera fin troppo vistosa) ai gol degli azzurri, fino al famoso “Non ci prendono più” esclamato dopo il terzo gol. Sembrava che anche lui volesse che, con quel momento di gloria calcistica, il nostro Paese si risollevasse dalla situazione in cui versava. Era davvero il presidente di tutti gli italiani. I tedeschi riuscirono a segnare un gol con Breitner, ma ormai era troppo tardi. La nazionale italiana, quarantaquattro anni dopo, vinceva di nuovo un mondiale. Quella squadra, su cui all'inizio nessuno avrebbe scommesso, guidata da un allenatore accusato di fare un calcio vecchio (“Sei indietro di 40 anni” gli diceva Menotti, CT dell'Argentina) aveva sovvertito tutti i pronostici, scalato le difficoltà ed aveva portato a casa la vittoria.

«Palla al centro per Müller, ferma Scirea, Bergomi, Gentile... è finito! Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» (Frase finale del commento di Nando Martellini)

Jock Stein. Dalla miniera alla Coppa dei Campioni

Stein

Questa sera vi racconterò la storia di un uomo che incrocia in molti punti quella di Valerij Lobanovskyj. Il protagonista della nostra storia si chiama John Stein, ma tutti lo chiamavano Jock , ed era nato a Hamilton, nella contea di Lanarkshire, in Scozia, il 5 ottobre del 1922. Lui e Lobanovskyj sono nella classifica dei dieci migliori allenatori di tutti i tempi redatta da Football Pantheon (Stein al 10°, Lobanovskyj al 7°), oltre che in quella degli allenatori più vincenti della storia (2° e 3° dietro al mostro sacro Alex Ferguson). Ma la cosa che più li accomuna è la fine delle loro vite e delle loro carriere. Ma andiamo con ordine. Come detto, Stein era nato nella contea di Lanarkshire, come altri due grandissimi del calcio inglese, Matt Busby e Bill Shankly, che fecero grandi rispettivamente il Manchester United e il Liverpool. Da adolescente lavorava in una miniera di carbone, come il padre prima di lui e il nonno prima ancora e giocava a calcio nel tempo libero, nelle giovanili del Blantyre Victoria. Esentato dal servizio militare al tempo della seconda guerra mondiale, andò poi a giocare negli Albion Rovers, ottenendo un contratto prima part time e poi da professionista. Era un mediano di scarsa tecnica, ma ottimo senso della posizione. Dopo i Rovers andò in Galles per un anno, ma il quasi fallimento della squadra per cui giocava lo convinse a ritirarsi a soli 29 anni, quando arrivò la chiamata del Celtic di Glasgow, dove divenne presto un titolare  e poco dopo capitano della squadra dei cattolici di Glasgow, vincendo la Coronation Cup (un torneo istituito per festeggiare la salita al trono di Elisabetta II), fino ad arrivare a vincere il campionato e la coppa di Scozia nell'anno successivo. La sua carriera sul campo non sarebbe durata ancora molto, perché nel 1956, durante l'Old Firm (il derby con i Rangers) ebbe un grave infortunio alla caviglia e dovette ritirarsi. Ma solo un anno dopo fu chiamato ad allenare la squadra delle riserve del Celtic. dove tutti notarono il suo modo di allenare decisamente inusuale per quei tempi. Il posto di capo allenatore del Celtic si liberò e Stein pensò che quel posto fosse suo, ma la dirigenza opto diversamente, così Jock andò al Dunfermline, squadra semisconosciuta, che però giocava in prima divisione. Fu subito un trionfo, il primo anno il Dunfermline vinse la coppa di Scozia, battendo proprio il Celtic. A tutt'oggi quella Coppa è l'unico trofeo mai vinto dal Dunfermline. Una breve parentesi a Edinburgo, all’Hibernian, (dove arrivò comunque alle semifinali di Coppa di Scozia) e poi finalmente arrivò la chiamata del Celtic per la stagione successiva. Fu l'inizio di un’era che avrebbe portato una valanga di successi nell’East End di Glasgow. Stein rimase al Celtic tredici anni trasformandolo in una potenza europea, con un calcio sempre spregiudicato, proiettato all’attacco, veloce e creativo. «Il miglior posto per difendersi è l’area di rigore avversaria» diceva serio. L'apice di quell'incredibile epopea fu la stagione 1967-68, nella quale il Celtic raggiunse la finale di Coppa dei Campioni, sfidando a Lisbona la grande Inter di Helenio Herrera, già vincitrice di due edizioni della Coppa. Due opposte filosofie di gioco si scontravano sul campo, il Celtic completamente votato all'attacco e l'Inter, molto più equilibrata e con un occhio di riguardo per la difesa. All'iniziale vantaggio dell'Inter (rete di Mazzola su rigore) risposero Tommy Gemmell e Steve Chalmers che fissarono il risultato sul 2-1 finale. Il Celtic sarebbe arrivato in finale di Coppa dei Campioni anche nel 1970, perdendo dal Feyenoord. Stein lasciò il Celtic nel 1978 e si trasferì in Inghilterra, al Leeds, dove rimase però solo per sette settimane. Fino a quando, Ally McLeod si dimise dalla carica di CT della Scozia in seguito alla disfatta nel Mondiale d’Argentina. In ottobre assunse la guida della Nazionale Scozzese, che guidò al Mondiale di Spagna ‘82 e ottenne la qualificazione a quello successivo (Messico ‘86). Per questo risultato mancavano ancora due partite, una con il Galles, in programma il 10 settembre 1985 e lo spareggio con la vincitrice del girone dell'Oceania (poco più che una formalità). La Scozia pareggiò con il Galles per 1-1 e staccò il biglietto per Mexico 86, ma a due minuti dalla fine della partita successe l'incredibile. Stein si era molto arrabbiato con i suoi giocatori in quella partita, soprattutto nell'intervallo, quando la sua Scozia era andata al riposo in svantaggio per 1-0 a causa del gol di Mark Hughes, dopo tredici minuti, su passaggio di Peter Nicholas, liberatosi in un colpo solo di Aitken e Nicol che si erano quasi scontrati tra di loro. Inoltre il portiere Leighton dovette essere sostituito per aver perso una lente a contatto (!) e questo episodio fece innervosire Stein ancora di più. In molti notarono che il mister della Scozia non sembrava in forma quella sera, ma pensarono che fosse perché sentiva particolarmente quella partita. In realtà Stein aveva problemi cardiaci, ed assumeva dei farmaci, ma nelle settimane prima di questa partita li aveva sospesi, per limitarne gli effetti collaterali. Ma all'inizio del secondo tempo sembrava essersi calmato e stare meglio, tanto che scherzò anche con il secondo portiere Rough quando questi entrò in campo al posto di Leighton. Il secondo tempo passava e il risultato non si sbloccava, finché a dieci minuti dalla fine su un'azione iniziata da Miller e proseguita da Gough e Nicol la palla, dopo una serie di tocchi dei giocatori gallesi, colpì il braccio di Phillips. L’arbitro olandese Keizer indicò il dischetto del rigore. Prese la palla l’ultimo entrato Cooper. L’ala dei Rangers calciò rasoterra, non troppo angolato alla sinistra del portiere dell’Everton Southall che per poco non arrivò sulla palla. Era l'1-1, la Scozia aveva agguantato la qualificazione ai mondiali. Stein, era sudato e nervoso, litigò anche con un fotografo. A pochi istanti dal termine si udì un fischio, Stein pensò fosse quello finale e scattò dalla panchina, ma dopo due metri si accasciò portandosi le mani al petto. Il medico e lo staff intervennero prontamente. Mentre la partita finiva e i giocatori scozzesi andavano a festeggiare sotto la curva dei propri tifosi, Stein veniva portato in barella negli spogliatoi. I medici fecero tutto il possibile, ma non ci fu nulla da fare. Il cuore di Stein si era fermato lì, sul campo, a due minuti dalla fine della partita. Il vice di Stein, che era uno di cui avremmo sentito parlare molto negli anni a seguire, un certo Alex Ferguson, urlò al capitano Miller di far stare i giocatori in campo, perché Stein stava male. I giocatori avevano intuito qualcosa, ma pensavano ad un semplice malore per lo stress della partita. Quando, dopo mezz'ora rientrarono negli spogliatoi, videro il massaggiatore in lacrime. Non ci fu bisogno di spiegazioni, avevano già capito tutto. Jock Stein non sarebbe stato in panchina con loro nello spareggio. Jock Stein non sarebbe andato con loro in Messico. Jock Stein era morto e qua la sua storia si ricollega a quella del nostro Valerij Lobanovskyj, anch'egli colpito da una malore mentre era in panchina, anche se lui non morì all'istante, ma in ospedale qualche giorno dopo. Ho sempre pensato che se un allenatore potesse scegliere come morire voglia che questo accada lì, sul campo, su quel rettangolo verde attorno al quale si è dipanata tutta la sua vita, un po' come un cantante sogni di andarsene sul palco all'apice di una grande performance. A Jock Stein e, in parte a Valerij Lobanovskyj accadde proprio questo.

Amedeo Gordini. Un italiano alla corte di Francia

Gordini

L'Emilia è notoriamente la culla del motorismo sportivo italiano. Qua sono nati e vissuti Enzo Ferrari, i fratelli Maserati, Ferruccio Lamborghini. Qua si è consumata la triste storia della mancata rinascita della Bugatti, negli anni '90. Per non parlare dei fantastici bicilindrici Desmo delle Ducati, o della Moto Morini, anche se qua le ruote sono solo due. Ma la storia che vi voglio raccontare oggi è quella di un uomo forse meno famoso di quelli già citati (e la cui storia si intreccia con alcuni di loro): Amedeo Gordini. Il nostro protagonista nasce a Bazzano, all'estremità ovest delle provincia di Bologna il 23 giugno del 1899, coetaneo quindi dei già citati Ferrari e Maserati tutti nati negli ultimi anni dell'800. Sovente ci dimentichiamo di Gordini nella storia del motorsport italiano, probabilmente perché, come Ettore Bugatti (anche lui nato negli utlimi anni dell'800), costruì la sua fortuna oltralpe. Terzo figlio di Augusto e Lucia Patelli, di professione mezzadri in un podere di Bazzano, già a 8 anni si innamora delle auto da corsa, assistendo al passaggio del giro dell'Emilia. Ben presto scopre che la sua vera passione sono le auto da corsa e non il lavoro nei campi e a 11 anni fa già l'apprendista in un'officina che ripara biciclette, per poi approdare alla sede bolognese della FIAT, dove ha la fortuna di lavorare con Edoardo Weber (poi fondatore dell'omonima casa) dal quale apprende i segreti della taratura dei carburatori, all'epoca il componente più critico nei motori da corsa. Ma sull'Europa spirano i venti della guerra e nel 1917 viene chiamato alle armi. Nell'esercito perfeziona le sue conoscenze in special modo quelle di tornitore, così, terminato il conflitto, si trasferisce a Milano, al reparto motori della Isotta Fraschini e anche qua ha la fortuna di lavorare con uno dei grandissimi del motorismo dell'epoca, Alfieri Maserati. Ormai riconosciuto da tutti come un abile tecnico, nel 1922 va a lavorare per l’ingegner Moschini, concessionario Isotta Fraschini a Mantova, occupandosi della preparazione delle auto da corsa. In questo contesto conosce un giovane pilota di moto, anch'esso mantovano, che corre anche in auto con le piccole Chiribiri, un certo Tazio Nuvolari, al qual fa provare una sua vettura da corsa, realizzata installando un motore Hispano Suiza su un telaio SCAT. Nuvolari è talmente colpito che vuole che Gordini i occupi della preparazione e della gestione delle sue auto da corsa e il loro sodalizio durerà fino al 1924. Nel 1925 Nuvolari ottiene un importante ingaggio dalla Bianchi per correre in esclusiva con le moto e così Gordini, con in tasca una lettera di presentazione di Enzo Ferrari, va a cercar fortuna in Francia, per la precisione a Parigi, dove viene immediatamente assunto dall'officina “Duval e Cattaneo”, concessionari Isotta Fraschini per la Francia, grazie alla sua esperienza con i motori della casa milanese. Poco tempo dopo, con l'amico Arduino Cipriani fonda una sua azienda e diviene concessionario FIAT. Nel frattempo è diventato cittadino francese e Gordini è sempre affascinato dalle competizioni, ma questa volta decide di mettersi al volante delle auto che prepara: prima una Fiat 514, quindi una Fiat 508 S Balilla “Coppa d’Oro”, con cui sbalordisce alla 24 Ore del Bol d’Or. Nel 1936 la sua strada si incrocia con quella di un altro italiano emigrato in Francia, Enrico Teodoro Pigozzi, che in quell'anno ha fondato la “Société Industrielle de Mécanique et de Carrosserie Automobile”, meglio nota come SIMCA. È l'inizio del primo periodo d'oro di Gordini, costellato di successi e che durerà fino al 1952, ottenedo vittori su vittorie, con piloti come Jean-Pierre Vimille, Maurice Trintignant, Raymond Sommer e il principe Bira. Risale a questo periodo il soprannome con il quale sarà poi per sempre conosciuto in Francia, “Le Sorcier” (il Mago), per la sua capacità di ricavare prestazioni incredibili da semplici motori di serie. Nelle sue mani piccole vetture come la SIMCA 5 o la 8 divennero in grado di correre la 24 ore di Le Mans. Ma ancora una volta i venti di guerra spazzavano l'Europa e di lì a poco tutto il mondo sarebbe sprofondato nel buio della guerra un'altra volta e tutto si fermò fino alla seconda metà degli anni 40, quando, sull'onda dell'entusiasmo post bellico Gordini decise che era ora di dare vita alle “sue” vetture e così, nel mezzo della rinascita post bellica iniziò a progettare e costruire delle monoposto per il neonato mondiale di Formula 1. Le monoposto di Gordini però avevano dei palesi difetti di costruzione e questo, unito ai troppi impegni assunti (la scuderia correva in Formula 1 e in Formula 2, dato che le categorie avevano regolamenti identici, a parte l'uso del compressore o meno) portò ad una situazione disastrosa, tanto che Gordini dopo un paio d'anni si ritrovò sul lastrico. Risale a quel periodo la scoperta di un giovane pilota argentino, reclutato per una gara nel suo paese e la cui abilità colpì a tal punto Gordini da volerlo portare in Europa con lui: si chiamava Juan Manuel Fangio e cosa abbia fatto nel mondiale di Formula 1 negli anni seguenti lo sappiamo tutti. Il Mago non si scoraggiò e continuò a sfornare idee e vetture tecnologicamente all’avanguardia fino al 1956, anno nel quale decise che la Formula 1 non faceva per lui e gettò la spugna. Amedeo Gordini era una persona ombrosa e timida e sognava una nuova rinascita in quegli anni. Il caso pose sulla sua strada Pierre Dreyfus, amministratore delegato di Renault, casa alla quale legherà il suo nome in maniera indissolubile. Iniziò a sviluppare modelli sportivi derivati dalle vetture Renault, dalla prima Dauphine Gordini del 1957, per poi passare alle leggendarie R8 Gordini e R12 Gordini protagoniste di tanti successi nei rally e in pista tra il 1964 e il 1974. Nel 1963 l'officina di Gordini si trasferisce a Noisy-le-Roi e nel 1968 diventa a tutti gli effetti un pezzo di Renault, trasferendosi a Viry-Chatillon dove ancora oggi ha sede il reparto sportivo di Renault che ha il nome di Usine Amedée Gordini. Anche le Alpine (altro nome storico dell'automobilismo di casa Renault) che correvano alla 24 ore di Le Mans in quegli anni esano spinte da motori marchiati Renault-Gordini. Persino i primi motori turbo della Formula 1, negli anni 80, quelli con cui Alain Prost vincerà i gran premi del Sud Africa e del Brasile (prime vittorie di un motore turbo in Formula 1) portano sulle testate il logo Renault-Gordini. Quando uscì di scena l'ultima Renault-Gordini il Mago aveva ormai 75 anni e si ritirò nella sia officina storica in Boulevard Victor. Venne decorato per ben due volte con la Legion D'Onore per meriti sportivi e morì il 25 maggio del 1979. Vent'anni dopo il Comune di Parigi gli intitolò una piazza, vicino alla Porte de Versailles, dove per tanti anni, in Boulevard Victor, aveva avuto sede l'officina Gordini, per aver «Per molti anni ha rappresentato da solo, sulle piste di tutto il mondo, l'automobilismo francese», come disse l'allora sindaco della capitale francese Jean Tiberi.

Quella volta che Bobby Moore fu arrestato

Bobby Moore

Bobby Moore, all'anagrafe Robert Frederick Chelsea Moore (Barking, 12 aprile 1941 – Londra, 24 febbraio 1993), è stato un calciatore inglese, di ruolo difensore, capitano della Nazionale inglese campione del mondo nel 1966 e del West Ham. Così inizia su Wikipedia la pagina che parla di uno dei più forti difensori inglesi di tutti i tempi (secondo Pelé “Il più forte difensore contro cui abbia mai giocato”). Ma Bobby Moore non è ricordato solo per quello, ma anche per essere stato, nel 1970, al centro di un giallo internazionale. Quindi voliamo indietro nel tempo e andiamo all'hotel Tequendama di Bogotà, capitale della Colombia, il 18 maggio 1970. Alf Ramsey, CT dell'Inghilterra, campione del mondo in carica dopo la vittoria a Wembley nel 1966 ha deciso che per il mondiale di Messico 70 la nazionale dei tre leoni partirà molto prima, sia per acclimatarsi al clima sudamericano che per abituarsi all'altura, ma anche per fare stare i suoi ragazzi al riparo dai media. Sono ospiti, per l'appunto dell'Hotel Tequendama perché dovranno giocare due amichevoli in altura, una contro la Colombia e una contro l'Ecuador. I giocatori si annoiano in albergo e gironzolano tra negozi e bar (con una certa preferenza per questi ultimi). Tra quelli che vagano per l'hotel ci sono anche i due Bobby, Charlton e per l'appunto Moore, che di quella nazionale è anche il capitano. Tra i negozi dell'hotel c'è una gioielleria, denominata Fuego Verde e i due decidono di farci un giro, anche perché Charlton avrebbe una mezza intenzione di comprare qualcosa per sua moglie Norma. Fanno un giro, non comprano niente, ma mentre stanno per uscire la commessa, Clara Padilla, si mette a urlare “Al ladro! Al Ladro!” Confusione generale, accorrono in tanti, tra cui anche Ramsey. La signorina Padilla giura che le è stato sottratto un braccialetto, sembra di diamanti e smeraldi. I due Bobby continuano a dichiararsi innocenti, che, erano entrati solo per guardare perché forse Charlon voleva comprare una collana per la moglie ma di non aver visto nessun braccialetto. La situazione sembra calmarsi, mentre Ramsey caggiunge che se avesse voluto, Bobby Moore si sarebbe potuto comprare tutto l'albergo, compresa la signorina Padilla. Con la situazione apparentemente calma la nazionale inglese parte per l'Ecuador, per giocare la seconda amichevole. Ma il volo di ritorno, che avrebbe dovuto portarli in Messico fa tappa a Bogotà e i giocatori all'arrivo trovano la polizia colombiana che arresta Moore per il furto. Nell'arco di tempo che gli inglesi sono stati a Quito per la partita sono spuntati fuori dei testimoni oculari che avrebbero visto Moore compiere il furto con Charlton che faceva il palo (!). Così l'Inghilterra parte per il Messico senza il suo capitano, che per fortuna ottiene i domiciliari a casa del presidente dei Millionarios (squadra di calcio di Bogotà) e anche l'autorizzazione ad allenarsi con le giovanili della squadra. Poi, improvvisamente arriva la notizia che Moore può raggiungere i compagni in Messico dove saranno poi eliminati dal Brasile (la squadra che poi batterà in finale l'Italia per 4-1), con la promessa che si sarebbe eventualmente recato all'ambasciata colombiana a Londra in caso le indagini avessero rivelato delle novità. Per la cronaca l'indagine andò avanti per altri cinque anni, senza trovare non solo capi d'accusa contro Moore, ma nemmeno prove dell'esistenza del bracciale di smeraldi. Ma come andarono effettivamente le cose? I giornali inglesi sostennero fin dall'inizio che si era trattato di un complotto contro gli inglesi, mai troppo amati da quelle parti del mondo e per di più campioni in carica. A inizio anni 2000 il Foreign Office rilasciò dei documenti che facevano un po' di chiarezza su quanto accaduto. Sembrava che assieme ai due Bobby nella gioielleria ci fosse un terzo calciatore inglese, ma poi venne fuori che la polizia colombiana sapeva che ad aver sottratto il braccialetto era stata una donna. Il giornalista Jeff Powell, che scrisse la biografia di Moore disse che questi aveva accennato al fatto che fosse possibile che uno dei ragazzi più giovani della squadra avesse fatto qualcosa di stupido, come uno scherzo finito male. Moore continuò a professarsi innocente anche negli interrogatori successivi, dicendo che lui e Charlton non avevano rubato nulla e non sapevano se ci fosse qualcun altro nel negozio. Due furono le prove che scagionarono Moore. La prima fu la misurazione del suo pugno, che risultò troppo grande per passare nel foro della teca dalla quale sarebbe stato asportato il braccialetto; la seconda fu che la signorina Padilla affermò che Moore avesse portato via il braccialetto con la mano sinistra per farlo scivolare nelle tasche del blazer. Solo che il blazer di Moore non aveva tasche dal lato sinistro. Il rapporto del Public Office non dice il nome della donna che avrebbe commesso il furto, ma la sensazione che la colpevole fosse la signorina Padilla è molto più che un'ipotesi. Moore fu rilasciato dopo quattro giorni, anche grazie alla telefonata del primo ministro britannico Harold Wilson, che fece valere il peso della Gran Bretagna. Bobby Moore ci ha lasciati nel 1993 per un tumore al colon. I suoi interventi su Jairzinho nelal partita contro il Brasile ai mondiali di Messico 70 sono stati portati per anni ad esempio nelle scuole di calcio inglesi come esempio di pulizia, forza e precisione.

Breve storia della ferrovia Porrettana

Piteccio

Oggi vi racconto la storia della prima ferrovia transappenninica, una storia che risale addirittura alla fine dell'800. Sì, perché la prima ferrovia ad attraversare la catena montuosa che taglia in due l'Italia, dividendo la Pianura Padana dal resto della penisola, non è stata la celebre Direttissima Bologna Firenze (costruita solo a partire dal 1913 e completata nel 1934), ma la linea che collega Bologna con Pistoia, correndo lungo la valle del Reno e poi dell'Ombrone Pistoiese. Ma procediamo con ordine e facciamo un salto indietro al 1845, quando tre fratelli imprenditori di San Marcello Pistoiese, Bartolomeo, Tommaso e Pietro Cini presentarono al Granduca di Toscana un progetto di una ferrovia per attraversare l'Appennino. Occorre premettere che in quel tempo il Granducato disponeva di una rete ferroviaria di tutto rispetto con linee che collegavano varie città. Mancava un collegamento verso nord, limitato dalle montagne. La proposta dei Cini prevedeva di risalire da Pistoia la valle dell'Ombrone con pendenze importanti, raggiungere a Pracchia il punto più alto e poi passare nella valle del Reno con una galleria di 2700 metri e da lì proseguire fino a Bologna. Contemporaneamente un certo ingegner Ciardi di Prato, in opposizione al progetto dei Cini, presentò un suo progetto, che prevedeva una pendenza e un percorso minore, partendo ovviamente dalla sua città anziché da Pistoia. Questo scatenò una accesa competizione fra le due città, essendo evidente che il passaggio della ferrovia per l'una o per l'altra ne avrebbe elevato l'importanza. Dal lato di Bologna, poi, la presenza delle Stato Pontificio era un altro problema, essendo il papa Gregorio XVI contrario alla costruzione delle ferrovie. Ma qua le cose cambiarono rapidamente con l'ascesa al soglio pontificio di Pio IX, che la pensava in maniera diversa. La “soluzione pistoiese” perse slancio, sia a causa delle controversie, ma anche dei moti del 1848 e per un po' di tempo non se ne parlò più. A dargli nuovo slancio fu la l'Austria, che voleva un veloce collegamento del nord Italia con il porto di Livorno. La nuova esigenza favoriva ovviamente il passaggio per Pistoia e al Granduca Leopoldo II non rimase che assecondare il volere del potente alleato. Dopo l'insediamento a Modena di una Commissione Internazionale, comprendente tutti gli stati interessati, la commessa venne affidata alla “Società Anonima per la Strada Ferrata dell'Italia Centrale” (quella dei Cini, costituita anni prima). Il contratto fu firmato a Modena il 26 gennaio del 1852. Ironia della sorte il Cini non poté firmarlo perché era morto il giorno prima. I lavori però faticarono a partire, a causa della cronica mancanza di fondi. Nel 1853 si iniziarono alcuni lavori preliminari e lo scavo di due pozzi per la realizzazione della galleria dell'Appennino, ma ne 1854 ancora non era successo nulla e la situazione della società concessionaria era tragica. Fu l'intervento del conte di Galliera e della casa Rotschild parigina alle sue spalle a permetterne il salvataggio. Si dovrà arrivare però al 1856 per avere una nuova convenzione tra i Granducati di Parma, Modena e di Toscana, lo stato Pontificio e il governo austriaco e a una nuova società a capitale misto che avrebbe dovuto costruire la ferrovia tra Piacenza e Pistoia, con una diramazione a Reggio Emilia per Borgoforte e Mantova, una delle fortezze del cosiddetto “Quadrilatero” degli austriaci. Era evidente che l'impronta della ferrovia fosse principalmente militare e strategico e non commerciale. La nuova società affidò il progetto all'ingegnere francese e Jean Louis Protche e alla sua equipe che si era portato dalla Francia. La costruzione della tratta in pianura (inaugurata nel 1859) procedette spedita e rapidamente si iniziarono anche le opere più ardite: il valico fu superato con una galleria di 2727 metri (iniziata nel 1858) e una seconda, in curva con tornanti a forma di “S”. L'ardito viadotto di Piteccio completava l'opera. Ma nel frattempo era arrivato il 1860 e con esso l'unità d'Italia, che costrinse a rivedere tutte le convenzioni in essere (essendo la “Commissione di Modena” di fatto decaduta). Venne abbandonata la tratta Reggio Emilia-Borgoforte (non essendoci più le fortezze del quadrilatero austriaco) e venne affrontata la parte montana con una serie di tornanti che tenevano la pendenza al di sotto del 22 per mille, a scapito di una maggiore lunghezza della tratta. Il 3 novembre 1864 veniva inaugurata la tratta Pracchia-Pistoia, eliminando il servizio di diligenza e portando la durata del percorso da 14 a 5 ore. Ma la Porrettana era nata inadeguata, lunga e costosa: 47 gallerie, viadotti e pendenze del 26 per mille, a binario semplice per 98 km, con un grado di prestazione pessimo. Anche la migliore locomotiva da montagna dell'epoca non consentiva la movimentazione di più di 3000 tonnellate di merci al giorno. L'utilizzo intensivo per il trasporto merci non consentì lo sviluppo di traffico turistico locale (eccezion fatte per le Terme di Porretta). la galleria dell'Appennino era devastante per i viaggiatori, a causa del fumo acre delle locomotive a vapore che invadeva le carrozze.. Furono aperti dei pozzi di ventilazione a e realizzati degli impianti di ventilazione (i cosiddetti “Saccardo”, funzionanti con motoria vapore, uno dei quali è ancora visibile all'imboccatura nord della galleria). Si arrivò persino a predisporre squadre di macchinisti pronte a saltare al volo sui treni all'uscita delle gallerie per sostituire i colleghi asfissiati. Oltre a questo si verificavano spesso problemi di frenatura causati da scorie untuose sui binari nei tratti coperti e il clima in inverno era spesso impegnativo. Nonostante tutto questo la ferrovia raggiunse un lelevato volume di traffico, arrivando, durante la Prima Guerra Mondiale a 70 corse in 24 ore. Da Firenze a Pistoia venivano impiegate locomotive semplici, per poi essere sostituite da quelle “di spinta” per la tratta Pistoia-Pracchia. Nonostante l'impiego delle moderne macchine della serie 470 a cinque assi accoppiati si arrivava (in doppia trazione) a sole 420 tonnellate trasportabili. Nel 1927 iniziò una nuova era, con il primo esperimento in Italia di gestione centralizzata della circolazione con Dirigente Centrale. Nello stesso anno la linea venne elettrificata in trifase, permettendo un traffico di 60 treni giornalieri. Nonostante le prestazioni migliorate grazie alla trazione elettrica la linea era ormai al limite a causa del binario singolo, delle pendenze e della tortuosità del percorso. Il colpo di grazie le venne dato dall'apertura della già citata Direttissima, completata dopo tanti anni di sforzi e sacrifici, declassando la Porrettana a linea locale con solo cinque coppie di treni al giorno. Curiosamente, proprio su questa linea, nella stazione di Sasso Marconi, si innestava la linea a scartamento ridotto che collegava il cantiere di Lagaro (utilizzato per la costruzione della Direttissima). La realizzazione di quest'ultima, alimentata a 3000V in corrente continua portò alla modernizzazione della Porrettana, che fu così convertita alla nuova tecnologia e dotata di rotabili più moderni. Ma il mondo stava per precipitare nella più grande tragedia del 900, la seconda guerra mondiale era alle porte e la ferrovia Porrettana si trovò nel mezzo della Linea Gotica, con tutto quello che accadde da queste parti. I tedeschi in ritirata distrussero tutto ciò che poterono, facendo saltare 29 ponti (tra cui il grande viadotto di Piteccio), 8 gallerie, 10 stazioni, oltre 50 km di binario. La ricostruzione avvenne a tempo di record (l'intera tratta fu riaperta nel 1949), ma ormai la linea era una semplice linea locale, anche se fu spesso utilizzata per test di rotabili particolari, proprio a causa del suo percorso difficile (oltre alla vicinanza a Firenze, sede dell'Ufficio Materiale e Trazione). Nel 1965 venne soppressa anche il sevizio della Ferrovia Alto Pistoiese (FAP) tra Pracchia e Mammiano che si innestava sulla Porrettana, togliendo anche questo traffico. Tra le altre cose la FAP ha una storia molto interessante, che forse racconteremo in un'altra occasione. Da qua in poi la storia diventa recente, con l'introduzione del CTC (Controllo Centralizzato del Traffico) negli anni '80 e il nuovo cadenzamento della linea caratterizzato dalla “rottura della tratta” a Porretta. Solo tre treni continuarono a fare la tratta completa fino al 1990. La linea divenne di fatto una suburbana delle città di Bologna da un lato e Pistoia dall'altra, con l'arrivo di nuove elettromotrici dedicate al trasposto passeggeri locale. Nello stesso periodo vennero soppressi tutti gli scali merci presenti sulla linea (Bologna Borgo Panigale, Casalecchio di Reno, Sasso Marconi, Marzabotto, Pioppe di Salvaro, Vergato, Riola, Porretta Terme) e gli ultimi merci Omnibus che servivano per il trasporto di legname alla Cartiera di Marzabotto (altro opificio che meriterebbe di veder raccontata la propria storia). Questi ultimi cambiamenti hanno di fatto spezzato la linea in due: da un lato la parte bolognese, inserita nel Servizio Ferroviario Metropolitano di Bologna, dotata di nuovi e moderni rotabili, nuove corse e con un traffico “importante”, dall'altro la tratta Porretta-Pistoia, dove rimangono solo pochi treni con piccole composizioni di elettromotrici per servire uno scarso traffico locale. Oggi solo 6 coppie di treni percorrono quest tratta, che negli ultimi anni si sta cercando di valorizzare a fini turistici da parte delle Pro Loco della montagna pistoiese.

Storie dal terremoto nove anni dopo

Mirandola

Oggi sono passati 9 anni da quel 20 maggio 2012 nel quale la terra tremò nella pianura modenese e nelle zone limitrofe, facendoci capire che anche nella apparentemente tranquilla e paciosa Pianura Padana si correvano rischi di questo tipo, che avevamo sempre associato ad altre parti d'Italia e a luoghi molto differenti. Non voglio raccontare quei giorni di un anno per me molto, troppo importante per tanti motivi, un anno che ha segnato la mia vita in maniera indelebile, con eventi belli e meno belli, ma una cosa accaduta circa 8 mesi dopo. Mi passarono incidentalmente un lavoretto da fare presso il Comune di Mirandola, uno dei più colpiti dal sisma. La persona con cui dovevo prendere contatto era nella sede provvisoria del Comune, ricavata in un plesso scolastico, ma il lavoro era da fare nel palazzo Comunale storico, un edificio risalente a prima del 1500 e che era stato pesantemente danneggiato dal sisma. Ovviamente essendo in piena zona rossa mi ci portarono con un mezzo dell'amministrazione comunale (l'ingresso al centro storico era vietato a tutti). Parcheggiammo l'auto in una stradina ed entrammo da un ingresso laterale. La parte dove si trovava il CED era rimasta abbastanza intatta, un po' di crepe nei muri, ma tutto sommato credevo peggio. La prima cosa che mi colpì fu la stanza a fianco al CED, adibita ad uffici: le scrivanie erano ancora al loro posto, ma oggetti e suppellettili erano sparse dovunque, faldoni, fogli di carta, come se in quel luogo non fosse più entrato nessuno dai giorni del terremoto e fosse stato lasciato com'era in quei giorni del maggio precedente e forse era proprio così. Ma la cosa più impressionante doveva ancora arrivare. Finito l'intervento (si trattava di sostituire un disco in un server, nulla di complesso) il mio accompagnatore mi disse: “Vieni che ti faccio vedere una cosa”. Lo seguii lungo corridoi polverosi, pieni di oggetti caduti, calcinacci e sporcizia fino ad una parte credo più antica del palazzo, che aveva subito molti più danni di quella in cui eravamo in precedenza. Qua il soffitto antico (realizzato ancora impastando insieme canne e calce, come si faceva un tempo) era completamente crollato, mentre molti muri divisori erano rimasti in piedi. Aprimmo una stanzetta molto piccola all'interno della quale stava, solo e abbandonato, circondato di macerie, un armadio rack contenente un sistema IBM (credo fosse un P Series, ma non ci giurerei). Il server occupava solo la parte inferiore dell'armadio, mentre quella superiore, vuota, era completamente piegata da un lato a causa del crollo del soffitto. Ma la cosa incredibile era che quel server, in mezzo alla polvere e ai calcinacci, in un armadio piegato in due ERA ACCESO E FUNZIONANTE! “Non si è mai spento” disse il mio accompagnatore. “Ha continuato a funzionare sotto i calcinacci che cadevano e la polvere”. Non sarà poetico come il fiore che cresce anche tra le avversità, nelle crepe dell'asfalto, ma io in quella immagine ci ho visto la tenacia di chi non si arrende mai, nemmeno nelle difficoltà più grandi, la tenacia della gente della mia terra.

6 dicembre. A trent’anni di distanza

Salvemini

Il 6 dicembre del 1990 era una giorno di sole. Lo ricordo perfettamente, come se fosse ieri. Avevo vent'anni e una fidanzata che frequentava l'Istituto Tecnico Salvemini di Casalecchio di Reno. Ma ero anche, da tre anni, volontario presso la Pubblica Assistenza del mio paese. Quella mattina, come spesso mi accadeva, non avevo voglia di studiare. Come facevo spesso passai dalla sede dell'Associazione, che era, allora, in centro al paese. Non ero in servizio, chissà, forse dovevo fare qualcosa, o forse, semplicemente, ero passato perché non avevo voglia di andare in facoltà. Come degli spezzoni di un film, ritornano alla memoria brandelli di quella giornata. L'ufficio, nella vecchia e angusta sede, in fondo, due scrivanie ingombre di carte e un uomo, che, nonostante la vita ci abbia posti negli ultimi anni su posizioni contrapposte, considero ancora oggi un mio amico. Parliamo, non ricordo l'argomento a tanti anni di distanza, ma probabilmente questioni di gestione dell'Associazione. All'improvviso il centralinista ci passa una telefonata (era il 1990, il primo servizio di telefonia cellulare, l'ETACS, era stato messo in funzione solo l'estate precedente in occasione dei mondiali di calcio e il cellulare era ancora un oggetto misterioso). Il mio amico risponde, dice poche cose e poi mette giù. Mi dice: “Cambiati, è caduto un aereo su una scuola a Casalecchio, ci hanno chiesto un'ambulanza”. Chiedo quale scuola, lui mi dice “Il Salvemini” e io sbianco. Non esisteva un modo per contattare la persona che amavo, come detto e, anche se ero abbastanza sicuro che lei non fosse lì, ma nella sede principale, il tarlo mi rodeva il cervello, mentre velocemente indossavo la divisa. Poi partimmo, passammo a prendere il nostro autista a casa (sì, allora si faceva anche questo) e poi andammo. Arrivammo giù, per forza di cose, che la situazione era già sotto controllo, in fondo facevamo parte della seconda schiera di ambulanze, quelle inviate in appoggio. Altro flashback, arriviamo in via del Fanciullo. Ancora ragazzi e ragazze che piangono, sono gli ultimi rimasti, quelli che non so sono fatti nulla e ancora non sono stati evacuati. Giriamo dietro alla scuola, scendiamo giù dalla rampa in discesa e vediamo lo squarcio nel muro. E’ enorme, il fumo continua ad uscire dalle macerie, i vigili del fuoco stanno finendo di spegnere le fiamme, sembra una scena apocalittica. E io continuo a non sapere dove sia lei. Rimanemmo lì per un po’, senza fare nulla, in attesa che ci dessero istruzioni, tra l'andirivieni dei vigli del fuoco e dei funzionari militari e delle forze dell'ordine e gli ultimi studenti frastornati. Poi venimmo dirottati all'Ospedale Maggiore, a disposizione per eventuali trasferimenti di pazienti ustionati verso ospedali attrezzati (in Emilia Romagna i centri Grandi Ustionati stanno solo all'Ospedale Maggiore di Parma e al Bufalini di Cesena) e infine, dato che non c’era bisogno di noi, fummo fatti rientrare.

Ebbi sue notizie solo verso mezzogiorno, fortunatamente non era in via del Fanciullo e non aveva avuto nulla a che fare con l’incidente, almeno fisicamente, perché quell’evento tormentò la sua psiche per molti anni a venire. La nostra storia si concluse sette anni dopo e da allora non l’ho più rivista, ma questa è un’altra storia.

Questo non è il racconto di un eroe che fece chissà cosa in quella giornata, perché in realtà non feci praticamente nulla, ma ci finii dentro, sia personalmente che come operatore. Non ho mai raccontato questa storia e le due persone che la condivisero con me oggi non ci sono più. Forse, dopo trent’anni, era il momento giusto per raccontarla.