Racconti

Margot aveva 25 anni, era una ragazza dal temperamento penetrante e acuto. Viveva nel quartiere residenziale di una città anonima, costruita al fine di ospitare i più rinomati centri di ricerca ed i migliori talenti. Era circondata da persone gradevoli e garbate, con le quali, tuttavia, non aveva legato molto. Non si era ancora innamorata, nessuno l’aveva ammaliata al punto da farle perdere la testa. Lei sognava il grande amore, quello che si sarebbe impadronito del suo sguardo intrigante, schivo, sofferente, della sua anima e del suo corpo, togliendole il respiro. Come ogni sabato sera era davanti al suo aperitivo. Da qualche anno si recava nello stesso posto dove uno sgabello vecchio stile l’aspettava inquieto e accogliente. Il barista la guardava con aria complice, la salutava con un cenno del capo e le portava “il solito”. Si comprendevano a meraviglia, erano in perfetta sintonia; un’espressione corrucciata o un battito di ciglia diverso dal consueto bastavano per rompere il ghiaccio e cominciare una conversazione. “Margot, come ti gira stasera?” “Non sono serena, una strana agitazione mi pervade, ad ogni passo mi pare di essere sull’orlo di un precipizio, se poi penso al mio futuro il mio stomaco comincia a darmi dei segni di repulsione, mi prende una strana nausea… Sarà il cambio di stagione”. “I tuoi studi come procedono?” “Molto bene, le ultime sperimentazioni hanno rivelato la presenza di particelle vettoriali che si muovono nello spazio producendo energia a risonanza oscura. Il problema è come catturare questa riserva inesauribile che aprirebbe le porte ad una riconfigurazione dei concetti di spazio e tempo”. “Vedrai che troverai una soluzione”. Lei intanto beveva. Il liquido frizzante le scivolava sulla lingua e la rassicurava. Sulle pareti del bicchiere, ormai mezzo vuoto, un alone rossastro le ricordava il deserto e gli amici che l’avevano accompagnata durante la sua prima vacanza al di là del confine a cercare la pace invano. Intorno schiamazzi e risate sguaiate rimbombavano sui muri decorati in stile Art Nouveau, una rarità, pochi locali potevano vantare un ambiente così retrò. Generalmente i luoghi di incontro erano saloni disadorni in cui trascorrere qualche ora attivando il programma olografico preferito. “A cosa stai pensando?” “Qui mi sento a mio agio, il fruscio ondeggiante della musica mi fa tenerezza, assomiglia a quella che ascoltavo nella camera in cui da piccola scrutavo il cielo, immaginando l’Universo ed i suoi segreti. Sono cresciuta nella convinzione che i miei genitori non mi amassero veramente, distratti dalle loro sofisticate indagini sulle neuro-tecnologie e dai loro impegni mondani; poche erano le carezze sulle mie guance, molti i rimproveri che giungevano alle mie orecchie. Ora non ci sono più, se ne sono andati come un sussurro che si spegne”. Due lacrime le solcarono il volto, appoggiandosi sull’abito blu che Margot aveva acquistato in una boutique del centro. “Sai che tutti ti stimano e ti ammirano. Non permettere allo sconforto di avere il sopravvento su di te”. Era tardi. Solo alcune coppiette erano ancora ai tavoli davanti ai video dei loro dispositivi. Si divertivano a seguire le gesta dei protagonisti di antiche serie come Star Trek TOS e Voyager. Margot se ne andò. Assorta nei suoi dubbi, si avviò verso il suo rifugio, il suo lussuoso e confortevole appartamento. Prima di andare a letto, l’attendeva la vasca sonica. Immerse tutta se stessa negli aromi più delicati e armoniosi, abbandonando la sua pelle nell’acqua profumata e seducente, come se volesse perdersi e dimenticare la sua vita. Chiuse gli occhi e, per un istante, ebbe la percezione di aver surfato onde gravitazionali, di essere entrata in contatto con l’antimateria, viaggiando tra stelle, asteroidi e pianeti. Non capiva. La sua memoria sembrava un database in cui erano stampate fotografie di mondi lontani e misteriosi. Un brivido le percorse la schiena. Si asciugò, indossò una vestaglia di seta, si distese sul caldo letto sotto il soffitto che un abile artigiano aveva sapientemente decorato: rappresentava un lungo sentiero in mezzo agli alberi, senza inizio né fine. Si addormentò a fatica, osservando quel viottolo nel bosco che sprofondava nell’abisso.

Il mattino seguente un vento pulsante soffiava tra i suoi lunghi capelli, intorno un via vai di volti infreddoliti. Era stordita e la testa le girava, mentre una calda diafana luce la incoraggiava a camminare con cautela per assaporare i colori silenti del parco che stava costeggiando. Decise di passare quel giorno di riposo tra rose ormai secche e alberi con poche svolazzanti foglie, decimate dall’arrivo dell’autunno. Un cappotto si sedette sulla panchina in cui si era accomodata nella speranza che nessuno la disturbasse. L’uomo, che si nascondeva sotto un cappello a tese larghe, non proferì parola fino a che non manifestò con voce commossa la propria ammirazione per una margherita che, a dispetto della stagione, si aggrappava al ruvido e arido suolo. “Con quanta tenacia resta al suo posto, non si rassegna, lotta, non si arrende, ignara del lamento con cui le querce preannunciano la sua sorte. Presto dovrà andarsene”. Margot ebbe un sussulto: “Andarsene? Dove? E’ un piccolo fiore, si sarebbe semplicemente assopito per ricomparire con la primavera, ai primi canti di gioia del passero e della possente aquila”. Si alzò. L’uomo la trattenne per un braccio. Le sfiorò le labbra con la mano, quasi volesse impedirle di parlare. “Non avere paura, volevo strapparti un sorriso e invece ho ottenuto l’effetto contrario. Sono costernato e mi scuso.” Margot lo fissò con preoccupazione, un tuffo al cuore la fece sobbalzare, percepì di essere in balia di una tempesta di sensazioni che la soffocavano, debole e indifesa, si ritrasse bruscamente. “E’ colpa mia. Qualcosa in me non va...” Si allontanò senza voltarsi indietro. Attraversò la città correndo all’impazzata come se fosse inseguita. Si fermò quando vide la luccicante insegna del suo locale, quello in cui avrebbe sorseggiato l’aperitivo, il suo aperitivo, in compagnia della sua malinconia e del suo fedele barista. “Caspita, hai un aspetto spettrale, sembri uscita da un incubo”. “Dammi da bere, voglio annegare i pensieri sgradevoli che da un po’ mi stanno martoriando. Ti parrà strano, ma ogni volta che mi specchio mi chiedo che cosa mi porti ad essere tanto sospettosa verso coloro che mi avvicinano, a ritenere che questo sia l’unico porto sicuro e tranquillo in cui riposare la fredda tristezza della sera. Forse perché ci sei tu. L’unico con il quale io possa essere quel che sono e ogni turbamento tace”. “Non attribuirmi troppi meriti. Tu sai di essere speciale”. “Io speciale? Io vivo aspettando. So che prima o poi sarò in grado di comprendere la ragione del mio ‘esserCI’. Purtroppo temo che non sarà un momento piacevole”. “Questo pessimismo mi sbalordisce. Hai già sconvolto il mondo con le tue scoperte”. “L’entusiasmo per i miei primi successi si è trasformato gradualmente in rammarico e tormento. Credo di essere intrappolata in un vortice in cui qualcuno guida i miei passi”. Margot pagò il conto. Uscì dalla porta posteriore, quella che le avrebbe consentito di raggiungere più velocemente la sua casa. Imboccò un vialetto in mezzo a due file di lampioni. Il cancello era vicino quando fu avvolta da un improvviso chiarore. Una forza misteriosa l’aveva sfiorata tanto da farla barcollare. Non si mosse per alcuni minuti, poi si fece coraggio, entrò nel giardino con cautela, salì al decimo piano. Non notò nulla di insolito, si portò le mani alla fronte. Si sedette sul divano di velluto vermiglio. La notte la prese e la condusse nell’ombrosa quiete del sonno.

Si presentò all’Accademia di buonora, si mise comoda al suo simulatore ed iniziò a lavorare, ad inserire ed elaborare dati su dati, come faceva sempre. Le formule che stava testando non davano risultati apprezzabili, quando intuì che avrebbe dovuto modificare il flusso del campo vettoriale. Finalmente l’energia a risonanza oscura era stata intercettata. Aveva raggiunto il suo scopo. Il pallido Sole dietro le vetrate si spense. Il vuoto la avvolse, la portò via con sé. Dov’era? Quale dimensione l’aveva risucchiata? Erano domande alle quali non sapeva rispondere. Qualcosa si frapponeva tra lei ed i suoi desideri. Osservò ciò che le stava intorno: le pareva di galleggiare nel mare in tempesta, sentiva i flutti sul suo corpo, vedeva luci in ordine sparso simili a stelle cadenti. Capì di essere in movimento, un relitto pietrificato lanciato nell’Universo a braccare una preda a lei ignota. Cominciò a ripercorrere la rotta che l’aveva portata lì, le onde gravimetriche che aveva superato, le navi spaziali che aveva eluso o distrutto. Si poteva persino dire che era stata brava nello svolgimento del suo compito. “Ogni traguardo era una tappa del mio vagare, chiusa in una realtà virtuale, inconsapevole della posta in gioco. In esilio da me stessa parlavo con il nulla. Davanti agli occhi avevo solo immagini, simulacri. Solo l’angoscia era vera e ricolma di solitudine e di amarezza. Nessuna intelligenza dotata di coscienza avrebbe collaborato alla realizzazione di un piano tanto disumano. Sono stata ingannata”. Questo fu l’ultimo attimo di lucidità, prima che la sua esistenza si fermasse nel crepuscolo immobile di un planetoide in conflitto con la Terra. Avrebbe voluto evitarlo ma non le fu possibile: le sue specifiche di progettazione la spingevano, inesorabilmente, verso il suo obiettivo. L’impatto fu catastrofico. Nulla rimase di quella civiltà. Margot era il nome in codice che gli ingegneri di biorobotica bellica avevano dato alla prima bomba senziente, ideata per affrontare la complessità di missioni interplanetarie. Persa nelle aspre tenebre di una guerra lontana, Margot si sbriciolò in mille brandelli, ma un frammento della sua memoria continuò a vagare per il Firmamento fino a quando si posò sul suolo da cui era partita.

#fantascienza

ddd Las Vegas, arabescata da case da gioco scintillanti e attraenti, accoglie tra le proprie braccia incontri fugaci, seduzioni di una notte e tormenti di una vita. Le macchine davanti ai Casinò ostentano la loro graziosa e costosa personalità come le donne che avanzano sicure con uomini imbellettati, baciati dalla fortuna o sostenuti dall’intraprendenza, donne ammantate di mistero, indossano velette nere eleganti e sfarzose, cucite magistralmente dalle firme più importanti della moda. Las Vegas, sempre identica a se stessa e sempre diversa, immobile ed in continuo movimento, è difficile conservarne un ricordo preciso, essa muta costantemente a seconda del punto di vista. Il viaggiatore percorre i viali con lo sguardo attonito, rischiando ad ogni passo di perdere l’equilibrio, quasi avvolto da un’ebbra frenesia. Anche il turista più distratto finisce per lasciarsi andare nel turbinio di voluttà che si spande per l’aria e travolge chiunque. Las Vegas, dai mille volti sorridenti, dalle mille insegne luccicanti, dai mille grattacieli che tentano in ogni modo di raggiungere le nuvole, è la città dei sogni e dei sogni perduti, dei desideri e dei desideri infranti.

All’estrema periferia di questo enorme agglomerato si estende una terra apparentemente vuota e solitaria, rinchiusa in un storia che nessuno è riuscito a reinventare. Questa è la Las Vegas dei poveri, degli esclusi, dei condomini che si reggono a fatica e non crollano solo perché hanno pietà dei vivi, delle case fatiscenti senza grondaie, delle roulotte parcheggiate una vicino all’altra formando un quartiere di desolazione ai bordi del deserto. Gli abitanti sopravvivono tra cani randagi e gatti incuranti di quella povertà. Le regole ferree del bisogno impongono una ragnatela di relazioni, trasgredire significa morire. Così ogni tanto qualche sparo lacera il silenzio, disturbando il sonno leggero degli animali e degli spinosi arbusti.

Nacque, nella roulotte più isolata e immersa nel nulla, Evelyn. Il vagito tremolante giunse tra le braccia di Gwenda che lo ascoltò con distaccato tormento. Mise la piccola all’interno di uno scatolone con due copertine e la allattò finché poté, poi dovette porsi il problema del pasto per due.

Gwenda, una donna dai lineamenti gradevoli ed attraenti ma dai modi sgraziati, aveva cominciato a vendersi all’età di 16 anni, quando era fuggita di casa sperando di trovare, sotto le luci di qualche locale notturno, l’uomo che l’avrebbe amata e sposata. Invece finì in un bordello come tante altre. Mentre offriva il suo corpo osservava la stanza in cui era stata ingabbiata: l’orologio a muro che scandiva i minuti con lentezza estenuante, le pareti scrostate e unte su cui erano appesi quadretti raffiguranti vecchie città, la tenda rossa che separava il bagno dalla camera. Durante il giorno passeggiava avanti e indietro nei quartieri più malfamati dove i bambini giocavano tra pietre e reti arrugginite. Sembrava volesse rubare la loro ingenuità.

Ben presto Gwenda divenne quello che era stata costretta a fare, il suo viaggio l’aveva plasmata, era oramai uno dei tanti frammenti di umanità, senza nessuna prospettiva. Se ne andò dal bordello con quattro vestiti, gli stracci indispensabili per battere il marciapiede. Poi rimase incinta. Aveva 19 anni.

Evelyn crebbe senza carezze o baci, circondata da una profonda solitudine, prigioniera di un presente invisibile in cui nulla aveva senso, la brutalità con cui venne allevata si poteva intuire dai suoi abiti sporchi, dal suo corpo segnato dalle percosse. “Perché non ti ho lasciato morire in un cassonetto della spazzatura?” Gridava Gwenda quando Evelyn piangeva. “Ne ho abbastanza di te, mi hai rovinato la vita”. Una sera Gwenda rientrò con James, occhi grandi, barba lunga ed incolta, puzzava di birra e di fumo. Era un senza tetto perciò la sistemazione che aveva trovato era per lui una manna. La roulotte era abbastanza grande per tre e non era infestata dai ratti che scorrazzavano nei vicoli più lontani dal centro, tra i cartoni adibiti a letti occupati da anime perse. Quell’uomo entrò nella loro vita portando con sé la violenza e la sporcizia delle vie e dei pub immersi nel buio del degrado.

Gwenda non era felice ma almeno aveva trovato protezione. Nessuno l’avrebbe più maltrattata. Il suo James non l’avrebbe permesso, ma i guadagni non bastavano mai. “Credi di poter continuare così?” Le diceva spesso James in preda ai fumi dell’alcool. Lei lo guardava con rabbia. “Pensi che vada a divertirmi?” “Brutta sgualdrina!” “Bastardo!” Poi si avviava sotto i lampioni dei viali più malfamati alla ricerca dei consumatori di sesso a basso costo.

Evelyn se ne stava in disparte, parlava poco e non sapeva che cosa fosse la scuola. Finché un giorno non fu recapitata una lettera in cui l’Amministrazione Comunale faceva notare che era giunto il tempo di sedersi in un’aula. Fu così che Evelyn conobbe la durezza del suo essere diversa. I compagni la dileggiavano, i maestri non si curavano di lei, avevano troppo da fare nelle classi di un Istituto di Istruzione Pubblica che ospitava gli avanzi di una società dimentica degli ultimi. “Non voglio andare a scuola”. “Perché?” Chiese Gwenda. “Tutti mi prendono in giro”. “E allora? Non sai difenderti?” Evelyn non rispose. “Tu frequenterai le lezioni, altrimenti l’assistente sociale ci farà visita e ti porterà via. E’ questo che vuoi?” “No mamma, no…” Frequentò le lezioni per qualche anno in modo discontinuo. Nessuno si preoccupò per le sue assenze.

Aveva otto anni, quando in un tardo pomeriggio assolato Evelyn si accorse che James la squadrava dalla testa ai piedi. “Cara Evelyn sei proprio una bella ragazzina… qualcuno a scuola ti ha toccato?” Lei non sapeva cosa dire. Tacque. Le accarezzò il sedere. “Vieni qui, ti do un bacino… che bel corpicino.” Alfine la strinse a sé con durezza. La spogliò… le urla della piccola non lo scoraggiarono. Stesa a terra sanguinante, sotto il peso del sudore appiccicoso di quella pelle coperta di peli, rimase inerte fino al mattino seguente. “Cosa è successo? Cosa ci fai lì?” “Mamma ho tanto male”. Evelyn le mostrò la parte intima dilaniata. “Non darti pena, domani starai meglio. Ci farai l’abitudine. Forza, ora vai a lavarti”. James decise di costruire una baracca più isolata in modo da scongiurare un’eventuale incursione da parte di vicini sospettosi. Evelyn si recava in quella baracca guardando per terra, immaginando un mondo abitato da fantasmi vestiti di bianco che cercavano di salvare le vite bruciate, scordate, bloccate nella melma di un dolore troppo grande per sciogliersi con lacrime ormai inutili.

Dopo due anni di angherie, insulti e abusi Evelyn era diventata docile, tanto docile da essere gettata tra le braccia lorde di un idraulico e di un elettricista, che in cambio fornivano servizi a domicilio. Fu Gwenda, che di fronte ai conti da pagare, ebbe l’idea di uno scambio: sua figlia per l’azzeramento dei debiti. I brandelli di quegli uomini chini sul suo volto si univano nella mente di Evelyn assumendo la forma di fotografie sovrapposte, saldate così bene da staccare il suo corpo da ogni pensiero. Quando poteva si nascondeva, mimetizzandosi come un camaleonte, oppure si allontanava da quel grigiore, ma, non sapendo cosa fare, ritornava sui suoi passi e tutto ricominciava come prima.

I giorni scivolavano lentamente, mentre Evelyn imbruttiva nel fisico e nella mente. Avrebbe potuto chiedere aiuto. A chi? Persino le Istituzioni l’avevano abbandonata al suo destino. Non ebbe neppure diritto a cure adeguate quando fu portata al Pronto Soccorso in seguito ad una caduta che le aveva causato una forte commozione cerebrale. Era stato James, voleva ricordarle che era lui il padrone. “Smettila di frignare”. “Sto male, ho la testa che scoppia e mi viene da vomitare”. “Allora vai fuori, ti siedi e aspetti senza lamentarti”. Evelyn si sdraiò per terra e attese il rientro della madre. La luna piena ebbe pietà di lei, la vegliò e la consolò.

Cominciò a bere tutto quello che riusciva a trovare. “Piantala di bere. Conciata così come pensi di trovare qualcuno che paghi per te?” La rimproverava aspramente la madre. “A James vado bene anche così. Non è vero mamma?” Gwenda si girò per prendere un oggetto qualsiasi. Voleva picchiarla. Ma Evelyn non era più lì. Se ne era andata con il cuore che batteva all’impazzata.

“Mio Dio sto camminando da ore senza tregua. Ho fame ho sete ho sonno sono tanto stanca. Indietro… no. Meglio morire qui sotto l’insegna colorata di un albergo per ricchi... Mi devo fermare… le mie mani tremano. Mi manca la mia bottiglia. “Scusami, Scusami, Scusami”, non sono una lebbrosa. E invece sì sono una randagia senza nessuno. “Signore, Scusami, ti va di stare con me?” “Quanto?” “Dieci dollari”. “Sei a buon mercato”. Lui è steso su di me come tanti altri. Non mi fa più male. “Cosa sono questi segni?” “Non sono affari tuoi, paga e vattene”. Ora ho dieci dollari … ecco il negozio che vende alcoolici. Nessuno mi chiede se sono maggiorenne. Meglio così. E’ quasi il tramonto. Le piazze e i casinò sono oramai affollati...ed io non so dove dormire, riposare, aspettare che succeda qualcosa. Qualcuno mi fissa “Quanto?”, tentenno… troppo tardi, è scomparso. Seguo un vagabondo come me nella speranza che mi indichi un posto appartato… Sì, bene, adesso posso distendermi...”

DOPO TRE MESI

Il mercato del sesso di Las Vegas non aveva più segreti per lei, aveva un giro di clienti che le permettevano di sopravvivere. Talvolta all’imbrunire, prima di iniziare a vendere se stessa per un pezzo di pane, si recava alla stazione ferroviaria. Si metteva sul ciglio del binario per assaporare l’ebrezza della partenza. Appena si aprivano le porte di un treno qualsiasi, chiudeva le palpebre, figurandosi di salire su un vagone per andare a Dallas, dove viveva il figlio di James. Lo aveva conosciuto qualche anno prima, quando, senza più denaro, si era rivolto al padre per un aiuto. James lo invitò ad andarsene sputandogli addosso una serie di insulti mescolati a volgarità tipiche del suo modo di esprimersi

Tommy aveva 19 anni ed una nutrita collezione di arresti per spaccio, ubriachezza violenta e furto. Non era indubbiamente un santo, ma ad Evelyn importava poco, anche lei era una sbandata, senza avvenire.

“Devo racimolare soldi soldi soldi. Voglio andare da Tommy… insieme a lui posso smettere di bere e poi... poi quella volta è stato gentile, mi ha regalato delle caramelle e mi ha salutato con un gesto affettuoso. L’ho seguito con lo sguardo mentre si allontanava fischiettando una vecchia canzone che a me piace tanto...”

Quando il treno spariva dietro l’orizzonte, Evelyn rimaneva a scrutare quella linea che le aveva offerto, per un attimo, la possibilità di sognare di essere sollevata e guidata da un lieve soffio di vento verso lidi lontani ed incantati. Finalmente bussò alla porta di Tommy. L’indirizzo le era stato fornito da un amico del patrigno al quale era stata più volte venduta e che era sbucato fuori dal nulla, come quando improvvisamente il prestigiatore materializza una colomba sotto un panno. “ Che cosa vuoi?” “L’indirizzo di Tommy”. “Lo sai che è un poco di buono”. “Per favore, mi dai l’indirizzo di Tommy?” “Va bene, va bene, ma tu poi mi devi ringraziare”. Lo ringraziò, accontentando le sue voglie. Con quel misero pezzo di carta giunse a Dallas. Quando Tommy la vide, fu colto dallo stupore. “Cosa ci fai qui?” “Posso restare con te?” “Stai scherzando, vero?” “No, sono scappata e ho pensato di venire qui”. “Mi sa che ti manca qualche rotella, comunque per stanotte non c’è problema”. Le notti si moltiplicarono e alla fine rimase lì, nonostante lui bevesse tanto quanto lei e fosse aggressivo tanto quanto il padre. La storia riprese a correre, Tommy non era molto diverso da James anche se in qualche momento appariva sofferente, cupo. Lui la seguiva quando si prostituiva, per evitare che qualche cliente alzasse le mani o non pagasse. Certo, non sempre le gambe lo sorreggevano adeguatamente, perciò poteva capitare che entrambi fossero bastonati senza pietà.

“Mi fa comodo avere una sgualdrina da sfruttare. E’ che, in certi momenti, mi fa pena... posso maltrattarla quanto mi pare non si ribella. Ieri mi ha parlato di bambini. Figli… Stamattina ha trascorso qualche ora vicino al cortile di una scuola. Una donna ha chiamato l’ufficiale di pattuglia accusandola di aver fissato con troppa insistenza gli scolari… Boh… la sua testolina non funziona bene… forse, forse, non lo so. E’ strana...”

Vivevano nel seminterrato di un condominio decrepito, grigio, contornato da altri edifici simili, sommersi dal degrado e dal sudiciume. Non vi erano mobili, solo coperte luride, qualche abito altrettanto lurido ed un fornello a gas per riscaldare quel poco che avanzava nella borsa della spesa dopo l’acquisto di birre o whisky. All’esterno, le strade offuscate dalla nebbia dell’oblio si lasciavano attraversare da ogni sorta di esistenze disperate: animali randagi, uomini e donne altrettanto randagi, vite bruciate, interrotte, inutili agli occhi dei più, tutti impegnati a procurarsi il cibo per sfamare stomaci ormai devastati dagli stenti.

DOPO DUE ANNI

Evelyn si sentiva grande, pronta ad avere un figlio. Questo desiderio si trasformò presto in un’ossessione. Quando poteva, andava al parco cittadino, si siedeva davanti all’area giochi dove i bambini correvano in lungo e in largo, urlando senza tregua la loro felicità. Fu così che conobbe Emily. L’argomento delle loro conversazioni era prevalentemente legato alla maternità della nuova ed unica amica. “Quando nascerà tuo figlio?” “E’ una bambina … fra due mesi”. “Hai già comprato la carrozzina?” “Sì, all’emporio dell’usato, io e mio marito non siamo benestanti”. “Come si chiama tuo marito?” “Paul, purtroppo lo vedo molto poco perché fa il cameriere turnista in un locale H 24. Quando finisce il turno è così stanco che a fatica raggiunge il letto per dormire”. Dopo una breve pausa aggiunse. “Ma verranno sicuramente tempi migliori”. “Se vuoi, qualche volta posso stare con te… a casa tua per farti un po’ di compagnia”. “Davvero lo faresti?” “Certo, perché no?” Evelyn divenne stranamente euforica, si preparava al parto, come se fosse la sua maternità. Quando faceva visita ad Emily, toccandole il pancione, provava un brivido lungo tutta la schiena.

“Mio Dio sta per nascere devo organizzarmi. La mia bambina deve vivere in una bella casetta con un giardino pieno di fiori, alberi ed un’altalena come quella del parco. Sarà felice...”

Tra le fantasie di Evelyn e la realtà nulla si frapponeva. Era convinta che presto sarebbe stata madre. Sospesa sopra un precipizio, si muoveva nel vuoto che aveva creato tutto intorno. I suoni ed i profumi non esistevano più, solo i suoi piedi, che procedevano lentamente, le davano qualche sensazione, si staccavano da terra cercando un appoggio sicuro per non rischiare di piombare con la memoria nello scantinato della sua vita.

Un giorno qualunque Evelyn si eclissò. Si procurò un coltello affilato, uno zaino abbastanza grande ed imbottito con il pile. Seguì Emily fino a che si infilò in un vicolo da cui non avrebbe avuto via di fuga. Evelyn era completamente assorta in una specie di delirio in cui inquietanti figure si spostavano, una dopo l’altra, scandendo il ritmo del suo incedere, intrecciandosi secondo regole assurde, senza un senso preciso, erano sovrapposizioni di cose e persone che a loro volta richiamavano altre cose ed altre persone. Davanti a lei solo un’enorme pancia, la sua pancia dove la sua bambina l’aspettava. Il coltello fece scorrere il sangue e la sua bambina nacque.

“Ho deciso si chiamerà Rosemary. Finalmente posso andare al parco con il passeggino e parlare con le altre mamme...”

Corse verso il luogo in cui aveva vissuto fino a quel momento, dove vi era un giaciglio appositamente predisposto. Ma fu bloccata da due agenti di polizia. Dopo poco arrivò l’ambulanza, non ci fu nulla da fare. Rosemary era già morta.

Evelyn fu condotta in carcere in attesa di comparire davanti al giudice che decise di pronunciarsi a sfavore della libertà su cauzione. Ad udienza terminata fu riportata nella sua cella.

“La mia bambina… mi hanno detto che è morta… sono io la colpevole? Mi gira la testa, sono stanca. Le sbarre sono vecchie arrugginite... il colore non mi piace ma non importa me ne andrò presto...”

Non se ne andò presto. Ci volle un anno per la celebrazione del processo che vide un’imputata confusa e tremante. Nel periodo di detenzione aveva incontrato psicologi, psichiatri, insegnanti, preti che riferirono in Tribunale la sua storia di soprusi e violenza cieca che l’avevano mortificata fin dall’infanzia. Le percosse le avevano causato importanti danni cerebrali. Il suo delitto era frutto dell’abbandono e della miseria, sotto lo sguardo indifferente di coloro che avrebbero potuto aiutarla e non l’hanno fatto. Nulla valse a farle avere una condanna adeguata alla sua condizione mentale. Lo stato stava per condannarla un’altra volta, per lei il futuro sarebbe stato solo un albero secco, pronto per essere estirpato sotto un cielo fradicio di dolore.

La giuria, infatti, non ebbe dubbi. Riconosciuta colpevole di due efferati omicidi, le fu comminata la pena di morte. A nulla servirono gli appelli e la richiesta di grazia. Evelyn sarebbe dovuta morire.

Fu trasferita nel braccio della morte. Attese 11 anni l’esecuzione della sentenza. Il 3 aprile le fu consegnata la notifica.

“Cara Evelyn – recita la missiva – l'intento di questa lettera è informarla che è stata fissata la data per l'esecuzione della sua condanna a morte (...). Questa lettera costituirà notifica ufficiale (...). Il 7 aprile del corrente anno è la data per la sua esecuzione tramite iniezione letale (…). Cordiali saluti”.

Il 7 aprile 2020 il teatrino della vendetta fu allestito per la recita dell’ultimo respiro di Evelyn. L’iniezione letale era pronta.

L’ago attraversò la sua carne in quel giorno di primavera. Il viso, illuminato da una rossastra luce, non lasciò trasparire emozioni, il tempo per lei si era fermato in un vicolo grondante di sangue.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”.

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