Racconti

premio Era un Universo buio e silenzioso. Il tempo intorno a Mary si era improvvisamente spento, i suoi ricordi vagavano da un punto all'altro della sua vita senza un ordine preciso. Lampi di turbamento presero il sopravvento e chiuse gli occhi. Le apparve il suo istruttore di volo, da lui aveva imparato a dominare le emozioni, era stato un lungo e faticoso apprendistato, che, con chiara evidenza, non le era servito a molto, se qualcosa le frullava nello stomaco: era panico. Perse completamente il controllo: sangue freddo, coraggio, pragmatismo erano diventate vuote parole. Urlò a squarciagola al suo fedele compagno di viaggio: “Dove siamo?” PQ7, un androide di ultima generazione, si rivolse a lei con dolcezza, cercando di rassicurarla, nonostante avesse percepito la gravità della situazione. “Non ti allarmare, non siamo fuori rotta, semplicemente dobbiamo rivedere alcuni calcoli per ripristinare la propulsione molecolare della nostra nave spaziale”. Non era questo il problema, lo sapevano entrambi: erano finiti chissà dove e chissà quando. Dopo aver oltrepassato la nebulosa di Paul, che si trovava a 3 mega parsec dalla Terra, le comunicazioni si erano interrotte e i dispositivi dell'astronave si erano ammutoliti, come se avessero incontrato un predatore e non volessero farsi notare. Un brusio intermittente cominciò a penetrare nei loro cervelli, colpendoli con intensità e disorientandoli. Mary era smarrita e sgomenta, eppure questo suono la faceva sentire meno sola, forse qualcuno cercava di mettersi in contatto con loro. Come sarebbe stato bello poter dire “Houston c'è un problema!” Quante volte aveva visto e rivisto i filmati delle missioni lunari. Lo sbarco sulla Luna fu considerato come l'alba di un nuovo giorno. Scienza e fantascienza si univano in quell'evento di portata epocale e di tale rilevanza che avrebbe cambiato la storia. Erano passati quasi mille anni e la storia era veramente cambiata. La Terra, dopo lunghi ed inutili contrasti, che avevano causato la morte di miliardi di persone, si era riconciliata con se stessa, rompendo gli schemi tradizionali di sfruttamento di uomini e risorse e decretando la nascita di un governo sovranazionale. I risultati non furono immediati. Non tutti videro nella mutazione avvenuta un progresso; la ricerca spaziale rappresentò, comunque, un efficace collante tra i popoli. PQ7 riportò Mary alla realtà. Le sussurrò “Sto cercando una soluzione, nonostante il mio cervello quantistico sia fortemente disturbato.” “Se ti può consolare anche il mio cervello umano sta perdendo colpi.” Rispose Mary. “Sono preoccupata perché temo che potremmo andare ad urtare contro qualcosa che non siamo in grado di captare con la strumentazione, né di cogliere con la vista.” Aggiunse. Era un'ipotesi da non trascurare, PQ7 se ne rese immediatamente conto. Mary aveva ragione, anzi aveva una strafottuta ragione, ma un androide non poteva esternare il proprio disappunto in quel modo. Si limitò, sconsolato, a confermare i sospetti di Mary:” Non vi è dubbio. La vera questione è: c'è qualcun altro? O qualcos'altro là fuori?” Gli venne spontaneo esprimere a voce alta un pensiero che si stava insinuando nella sua mente: “Forse abbiamo superato il limite temporale e ci troviamo in un cosmo in cui la nostre capacità e la nostra tecnologia sono nulle, o annullate. Qui tempo e spazio potrebbero avere la stessa valenza, sarebbe come essere incastrati in un vortice.” Il brusio continuava a disturbare le sinapsi di Mary e mandava in fibrillazione le connessioni di PQ7. Provarono un forte desiderio di uscire, di scappare, un desiderio che facevano fatica a reprimere e che li rendeva vulnerabili. Mary cominciava ad avere fame e sete e voleva raggiungere il sintetizzatore di alimenti che si trovava lontano dalla plancia. Si tolse con decisione la cintura di sicurezza: riuscì ad alzarsi, ma sentiva che il suo corpo era pesante, stranamente pesante. Forse era quel brusio. Forse era la nostalgia per il pianeta in cui era cresciuta e aveva studiato. Forse era il timore di non poter rivedere Parigi, la sua città natale. Mary era il frutto di una accurata selezione: il suo DNA era stato assemblato in modo da ottenere un'astronauta perfetta per la realizzazione di importanti programmi di esplorazione. Appena mosse il primo passo inciampò senza perdere completamente l'equilibrio. Si trovava in bilico tra la posizione eretta e distesa, quando ebbe l'impressione di intravvedere, nelle pieghe del buio che li circondava, una specie di baleno. Come si era materializzato? PQ7, nel frattempo, armeggiava alacremente per ricalibrare i sensori e per riavviare i sistemi di bordo. D'un tratto il silenzio li riavvolse. PQ7 abbassò lentamente le palpebre per assaporare quella tranquillità. Quando le riaprì, vide Mary con un vassoio ricolmo di cibo e bevande, la osservò con attenzione inconsueta. Mary se ne accorse. “Ti starai chiedendo come mai in un momento come questo sia la necessità di mangiare a prevalere sulla paura. Io sono così. Fin da piccola nei momenti di maggiore stress avere lo stomaco pieno mi aiutava a ridurre la tensione.” Le incantevoli immagini di Parigi, custodite nel profondo della sua memoria, riaffiorarono con prepotenza: i locali prestigiosi, in cui lo champagne scorreva a fiumi, ed i Boulevard illuminati di notte con una grazia che faceva dimenticare ogni pena, soprattutto in autunno. Il rimpianto per le fresche serate all’imbrunire la fece sobbalzare in quella oscurità paradossale, come se le fosse stato sferrato un pugno allo stomaco. La disciplina imposta agli aspiranti piloti interplanetari non le avevano impedito di apprezzare le gioie della vita mondana. Quando arrivava la bella stagione e le attività didattiche e le esercitazioni erano meno impegnative, abbandonava furtivamente l'Accademia per recarsi nei locali più frequentati e alla moda nella vicina megalopoli, pur avendo la certezza che al rientro le sarebbero piovuti addosso aspri rimproveri, duri da sopportare per uno spirito libero come il suo. Era stata minacciata in diverse occasioni: se non si fosse rassegnata a cambiare atteggiamento, sarebbe stata punita severamente. Il governo, che aveva investito ingenti capitali su di lei, non poteva tollerare le sue bravate da scolaretta e continuare ad infrangere le regole, avrebbe significato a lungo andare l'esclusione da ogni progetto. Dopo l'ultimo definitivo richiamo all'ordine, Mary accettò di collaborare: il senso di responsabilità e la convinzione che il bene dell’umanità fosse un valore assoluto prevalsero sulla sua innata spensieratezza. Per scongiurare il rischio di ripensamenti, fu, comunque, sottoposta ad un isolamento quasi monacale. “Accidenti, ora vorrei essere una persona qualunque, con un qualunque impiego.” Pensò. Non era la verità, stava mentendo a se stessa. Era il senso di impotenza, che la divorava, a spingerla a rinnegare tutti i sacrifici che aveva fatto per avere il comando di un velivolo intergalattico. Il brusio intanto riprese così come si palesarono, questa volta in successione costante, dei bagliori che facevano immaginare di essere osservati. Era proprio così, erano stati intercettati. Un neuroscandaglio li stava analizzando. Il risultato, a loro ignoto, portò alla conclusione che la terrestre e l’androide non avevano consapevolezza di essere entrati in un’altra dimensione. Lo avevano intuito, ma era stato il caso a condurli lì con la loro cosmonave dotata di sofisticati processori di energia. Le leggi di quell’Universo, accettate da tutti i membri e rigorosamente rispettate, imponevano il divieto di interferire con altri mondi e stabilivano che, qualora la Porta Astrale fosse stata oltrepassata, vi sarebbe stato un contatto con gli alieni solo se questi avessero dimostrato una cultura che andasse oltre la semplice acquisizione di dati e conoscenze, nell’ottica frammentaria di una incompleta idea di cosmo. Avrebbero prima dovuto aprire gli occhi su un possibile altro da sé, in uno spazio-tempo diverso. Tutto ciò non era ancora successo sulla Terra, perciò i due incauti visitatori furono bruscamente respinti indietro. La loro navicella cominciò a turbinare fino a stordire Mary a causa dell’accelerazione, mentre un impulso cromo-dinamico disattivò per qualche istante PQ7. Quando ripresero coscienza, ebbero un sussulto. Erano increduli, confusi e, per una frazione di secondo, si scambiarono sguardi stupiti. Si accorsero, infine, che l’astronave non aveva subito danni e sul monitor della plancia videro la Via Lattea. Mary si ricompose ed inviò un messaggio: “Qui Mary e PQ7 stiamo rientrando”. “Da dove?” Chiese lo sconosciuto interlocutore dalla stazione spaziale Alfa. Il quesito li sorprese come un fulmine a ciel sereno. Sugli apparati direzionali non vi era traccia del punto nel quale si erano arenati, tuttavia Mary era certa di aver compiuto un’impresa senza precedenti.

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#fantascienza

Amava camminare per le strade tortuose ed impolverate del paese in cui era nata. Ogni tanto vi si rifugiava per ricaricare le forze ormai allo stremo dopo una vita dedicata ai viaggi spaziali di esplorazione. Trent’anni di duro lavoro le pesavano sulle spalle come un macigno. Avrebbe voluto lasciare le onde gravitazionali che l’avevano accompagnata e cullata dalla giovinezza all’età matura. Ma non poteva, aveva firmato un contratto che la legava al cielo per altri due lustri terrestri. Il suo comandante, un androide dai modi aggraziati, dal fascino seducente e di grande cultura, nei momenti di pausa dalle incombenze della navigazione nel cosmo, rallegrava il suo spirito leggendole le opere degli antichi. Leggeva quei testi come se li avesse scritti lui. Maila ascoltava quelle parole immaginando che prima o poi si sarebbe innamorato di lei.

Era trascorso un mese e la licenza premio era finita. Bisognava imbarcarsi. Le missioni, che erano regolate dalla Confederazione terrestre, non avevano altro scopo che la pura conoscenza dello spazio, nella speranza di trovare altra vita, altri pianeti simili alla Terra, “là dove nessun uomo era mai giunto prima”. Maila si sedette al suo posto accanto al Comandante in attesa del conto alla rovescia. “Come stai?” Le chiese. “Come al solito ... Sono un po’ provata, stanca di avventurarmi verso nuovi mondi sempre più remoti, vagando da un capo all’altro della Galassia. Vorrei fermarmi”. “Vedrai che questo sarà per noi il viaggio più interessante ed intrigante che avremo mai fatto insieme”. Che cosa volesse dire solo un indovino avrebbe potuto svelarlo. Le sfiorò la mano per incoraggiarla. Maila arrossì ed ebbe un attimo di esitazione. Rispose a quel gesto con un sorriso. La meta era un piccolo satellite di un pianeta lontano 200 parsec. Avrebbero passato insieme molti mesi. Questo pensiero le fu di consolazione.

Il leggero fruscio dei motori a propulsione molecolare che inondava gli ambienti dell’astronave era quasi impercettibile. Nessuno prestava attenzione a quel rumore simile al vento tenue in una giornata di primavera. Avevano appena oltrepassato il sistema solare, quando si accorsero che qualcosa era cambiato, il suono era diverso, discontinuo. Improvvisamente un tonfo rimbombò nei corridoi e nelle cabine, scuotendo la consueta tranquillità. Mentre l’allarme echeggiava come i flutti del mare sulla battigia, la strumentazione di bordo sembrava impazzita. Erano stati colpiti da un oggetto che si era disintegrato. Quando i dispositivi ricominciarono a funzionare, un silenzio oscuro si posò su di loro. Il comandante chiese a tutti di mantenere la calma. “Ognuno alle proprie postazioni, riprendiamo la rotta. Quello che è accaduto è molto strano, ma sembra che tutto sia in ordine. Faremo comunque una minuziosa ispezione dei motori e dello scudi ipergolici”. Maila era tra gli ingegneri la più anziana. La sua esperienza la spingeva a non sottovalutare quell’anomalia. Volle sovrintendere personalmente a tutte le attività di verifica. Non fu rilevato nulla di irregolare. Nessuno aveva fatto caso ad un esserino che girava indisturbato sulla consolle di controllo e che si era accovacciato tra i pulsanti. Da lì poteva osservare l’andirivieni di persone la cui animazione e preoccupazione lo stupiva. “Non si sono accorti di me, né della mia truppa che si annida dovunque. Devo comunicare con questa specie mai vista prima d’ora”. Una voce si insinuò nella testa del comandante, l’unico con un cervello positronico-quantistico in grado di decodificare alfabeti sconosciuti. “C’è qualcuno”. Disse con una certa agitazione. “Sento dei segnali che non riesco a decifrare, ma sono sicuro: c’è qualcuno”. Improvvisamente si sovrappose un’altra sensazione sgradevole, come se ci fosse un pericolo imminente da cui difendersi. Si girò dalla parte di Maila: la vide piegarsi sulle ginocchia. Fu portata in infermeria. Aveva le pupille molto dilatate, respirava a fatica e non riusciva a muovere correttamente lingua e labbra, era come paralizzata; anche gli altri membri della squadra, che si erano recati con lei a testare i motori, rivelarono gli stessi sintomi. Il medico di bordo non sapendo dare una spiegazione, interrogò il data base sanitario per rintracciare casi simili. Il risultato fu deludente, solo un piccolo accenno ad un virus che aveva colpito la Terra nel XXI secolo.

Nel frattempo l’esserino dalla consolle notava il disorientamento generale. “Devo trasmettere con maggiore chiarezza le nostre intenzioni. Vogliamo solo un passaggio”. Niente, il Comandante percepiva la presenza di una entità aliena ma, per quanto si sforzasse, quel rantolio confuso era una porta chiusa. Per la prima volta nella sua lunga esistenza la razionalità lo stava abbandonando. Era avvilito e turbato. Ma non poteva perdere la concentrazione. Radunò tutti gli ufficiali e i sottufficiali. Furono organizzati turni molto serrati di sorveglianza e di perlustrazione. Come le foglie in autunno cadono una dopo l’altra inesorabilmente, così accadde che in poche ore tutti furono colti da malori e portati nella cabina medica. Gli umani erano allo sbando, sgomenti, impauriti da ciò che li stava travolgendo. Maila era morente e gli altri l’avrebbero presto seguita.

Gli esseri che si erano nascosti in ogni angolo della nave intergalattica avevano portato con sé l’infezione da cui erano fuggiti. Profughi inermi non potevano bloccare quello che avevano inconsapevolmente causato nel tentativo di approdare in un pianeta dove edificare una nuova Patria. Solo il comandante poté sopravvivere, ma le sue reti neurali erano state fortemente compromesse. Seduto sulla sua poltrona girevole, ricordava a sprazzi gli avvenimenti che avevano causato la morte dei suoi uomini. L’istinto lo spinse a non atterrare in nessun pianeta per non diffondere l’ignota malattia che aveva decimato il suo equipaggio.

Errò senza una meta per un tempo indefinito, finché un buco nero lo risucchiò portando con sé gli incauti ospiti.

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Il quadrante Nord-Ovest del sistema della Stella Argos era stato illuminato dal fuoco dell’aviazione aerospaziale senza un attimo di tregua. Per un lustro il giorno si era sovrapposto alla notte e le stelle si erano addormentate per non udire il fragore della guerra. Il ricorso alle armi era stato caldeggiato da coloro che avevano capito che il piccolo pianeta Pars soffriva e piangeva le lacrime amare di un regime Presidenziale clientelare che aveva posto dei limiti precisi alle libertà individuali, opponendosi tenacemente alla neonata Confederazione, costituita al fine di preservare i diritti inalienabili di ogni essere vivente. Fu l’entusiasmo dei giovani di tutti i pianeti a supportare quella impresa. Molti avrebbero voluto impedire l’ennesima carneficina, soprattutto i più anziani che sapevano cos’erano l’odore della morte e delle esplosioni delle testate subatomiche. Nonostante l’opinione pubblica fosse spaccata, il Primo Ministro della Confederazione, convinto sostenitore dei principi sanciti dalla Costituzione, con l’appoggio dei delegati degli altri pianeti, che vedevano in questa iniziativa l’opportunità di ampliamento dei mercati, dichiarò la mobilitazione generale. Dopo la firma dell’armistizio, i vincitori completarono la loro missione portando su Pars le loro pratiche democratiche e stipularono dei trattati per favorire lo sviluppo economico.

Erano passati molti decenni, pur avendo beneficiato di aiuti e concessioni particolari, la maggioranza degli abitanti di Pars non si sentì mai parte integrante della Confederazione, né volle conformarsi all’etica degli altri popoli, considerati profittatori senza scrupoli.

Abigail e Jacob passeggiavano sul Monte Snowdon, erano amici da tanto tempo e compagni di studi. Amavano l’arte in tutte le sue forme per questo spesso organizzavano viaggi nei luoghi più suggestivi, dove la creatività si era espressa ai massimi livelli. “Jacob, siamo parte di un tutto che sta dimostrando di rispettare il bello del mondo e della vita”. “Sei un’entusiasta, stare vicino a te è come scoprire ogni giorno un sentiero diverso da percorrere con spensieratezza”. Lei sorrise. “Rientriamo al rifugio si sta facendo tardi. Questa sera ci sarà la commemorazione in onore dei caduti di tutte le guerre”. Era una consuetudine che si ripeteva instancabilmente ogni anno, soprattutto dopo l’ultimo sanguinoso conflitto durante il quale un’intera generazione fu sterminata; numerosi satelliti, prima disabitati, vennero colonizzati dalle tombe, ma molti soldati non ebbero neppure una pietra che li ricordasse. Abigail ogni tanto pensava alla sua famiglia e a tutti quelli che avevano creduto in un ideale. Il corpo di suo padre era stato tumulato nel cimitero monumentale della capitale di Pars. Jacob notò che il suo volto era cupo. La rincuorò abbracciandola. “Potremmo fare visita a tuo padre e deporre un fiore alla sua memoria. Dicono che Pars sia incantevole quasi quanto la Terra, un museo a cielo aperto. Visitandolo onoreremo così il sacrificio suo e di molti altri.” “Mi piacerebbe, ero molto piccola quando partì. Ricordo il suo ultimo saluto e la promessa che sarebbe ritornato”. “Il viaggio è costoso, ma se lavoriamo sodo ce la faremo”. Sei mesi dopo avevano la somma necessaria. Si rivolsero alla più quotata “Agenzia Viaggi Interplanetari”, volevano essere sicuri che il loro sarebbe stato un soggiorno indimenticabile. Pars era lontano 12 parsec. La crociera, che durò dieci settimane, prevedeva lungo la rotta fantastiche escursioni. Erano felici, ma appena misero piede sul pianeta ebbero un sussulto: un caos infernale li accolse, sembrava di essere balzati indietro di un millennio. “State in campana, qui è facile imbattersi in ladri e furfanti”. Disse loro uno degli androidi messi a guardia dei passaggi con il compito di controllare i documenti. Uscirono dalla piattaforma di atterraggio preoccupati per l’odore fetido che sentivano. Intorno spazzatura, ratti e persone distese su materassi logori in ogni angolo. Abigail era smarrita, avrebbe voluto lasciare immediatamente quel posto. Eppure proprio lì una parte della sua vita era sepolta in attesa di un cenno di saluto dalla materna terra. Salirono su un aeromobile che li traghettò all’albergo. Sembrava di aver scavalcato un muro. La situazione era meno pesante, solo qualche mendicante e qualche cane randagio animavano la quiete di quella zona. La loro stanza era raffinata e profumata di essenze rare. Fu un sollievo trovarsi lì. “Non avvilirti. È un mondo di sbandati. Lo sapevamo prima di partire. Non ci succederà nulla, stai tranquilla”. L’abbracciò e la baciò per la prima volta. Si sedettero sul letto, rimasero fermi quasi fossero in attesa che il sipario si abbassasse e tutte le sensazioni sgradevoli sfumassero avvolte dalla nebbia di una lunga notte insonne.

Il giorno seguente affittarono un mezzo e si recarono, accompagnati da una guida molto loquace, alla scoperta dei tesori di Pars. Vagarono per il pianeta, impauriti da tutte le precauzioni che dovettero prendere. Le vestigia architettoniche di straordinario splendore, che restavano qua e là, erano ricoperte di erbacce, ricovero di animali spersi e affamati. Abigail aveva gli occhi lucidi, non riusciva a comprendere il degrado di quella terra. Alfine arrivarono al Cimitero Monumentale. Al padre di Abigail fu riservato il posto più lontano dall’ingresso. La tomba era sudicia, coperta di piante selvatiche e lucertole che approfittavano del calore, a fatica si leggeva il nome, Tom. In ginocchio di fronte a quella lapide, ebbero un unico pensiero: “Ma ne valeva la pena?”

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Erano tutti in fila davanti all’astronave che li avrebbe traghettati su Marte. Il comandante, PQ200, la guardava e con orgoglio pensava alla missione che gli era stata affidata. Lo Stato Maggiore dell’esercito della Confederazione terrestre aveva gestito la selezione del personale. La squadra, composta prevalentemente da androidi, avrebbe dovuto pattugliare i cieli con la massima attenzione. Le rotte del sistema solare non erano sicure, la pirateria stava mettendo in forte difficoltà l’aeronautica terrestre. Molti cargo erano stati depredati. Era fondamentale che nessuno perdesse di vista i propri compagni e che gli ordini fossero eseguiti alla lettera. Le operazioni di imbarco durarono molte ore. Per ultime salirono a bordo giovani coppie intraprendenti in cerca di fortuna e di avventura. Avrebbero custodito e allevato i discendenti di cavie umane che, spinte dal bisogno, si erano “volontariamente” offerte alla scienza per sperimentare una sostanza messa a punto al fine di modificarne la genetica, adattando i loro corpi alle condizioni estreme di un pianeta come Marte. Gli embrioni generati furono conservati nella stiva in capsule idroponiche. Dopo pochi mesi di viaggio, compresa una sosta sulla Luna, toccarono il suolo marziano, erano tutti elettrizzati ed entusiasti: avrebbero scritto una pagina importante della storia dell’umanità. La Terra era quasi morta sotto i colpi dissennati di governi che non avevano perso occasione per creare situazioni di contrasto tra androidi ed esseri umani. La guerra aveva decimato e impoverito il pianeta e, solo al termine della crudele carneficina, le parti riuscirono a trovare un accordo per scongiurare la catastrofe. Frutto di quell’accordo fu l’idea di lavorare insieme con uno scopo comune: costruire il sentiero della pace e del rispetto reciproco in un altro pianeta, dimostrando al mondo intero che vivere insieme avrebbe portato vantaggi a tutti.

I bambini crebbero in fretta tra braccia amorevoli e rigida disciplina. Avevano sviluppato tra loro relazioni sociali basate sulla fiducia e sulla complicità e, come tutti i ragazzi della loro età, durante i momenti liberi amavano rintanarsi da soli Il capogruppo, Andreas, poneva agli altri i suoi dubbi esistenziali: “Siamo su un pianeta che non è il nostro con degli estranei. Perché ci hanno mandato qui? Forse le nostre famiglie naturali non ci volevano?” Anna, che era la più intraprendente, reagiva a quei dubbi incitando alla ribellione. Non era possibile, tutti erano consapevoli della sproporzione numerica e dell’inutilità di un’azione del genere. Non avevano certamente i mezzi per fuggire da Marte. “Potremmo raccogliere informazioni sulla Terra e sulle nostre origini”. Mormorò Malcom. Dove? Questo era il problema. “Perché non indaghiamo in famiglia?” Propose Anna con un sospiro simile a quello di un animale ferito che cerca di rialzarsi. “Non ci contare, questo argomento è tabù”. Obiettò Andreas. “Io ci ho provato tante volte”. Aggiunse con voce sconsolata.

Il giorno seguente, in mensa, trovarono sui tavoli delle specialità al posto del solito cibo liofilizzato. “Che cosa festeggiamo?” Era la giornata interplanetaria dedicata a tutti quelli che erano caduti in servizio per la creazione della prima colonia lunare. Dopo pranzo si sarebbero trasferiti nella sala conferenze per la classica commemorazione. “Caspita me ne ero scordato”. Osservò Steve con disappunto. Non aveva certo voglia di sentire “la solita lagna”. Un fragoroso applauso, soprattutto da parte degli androidi, chiuse il discorso di PQ200. “Che sfacciati, come se fosse tutto merito loro”. Bisbigliò Anna visibilmente contrariata, mentre tutti in file ordinate si ritiravano nei loro alloggi.

“Madre, perché siamo qui?” Chiese Anna quasi d’impulso. Seguì un attimo di disorientamento. “Tesoro, noi siamo qui per tentare di realizzare un sogno, avere un’opportunità di sopravvivenza. Sulla Terra, nonostante la bufera si fosse placata, tutto sembrava potesse crollare da un momento all’altro, era diventato un inferno”. “Perché non siamo venuti qui con i nostri genitori biologici?” “Sarebbe facile dirti che non vi hanno voluto, la realtà è non ci sono genitori biologici. Voi siete figli della ricerca scientifica”. Rispose molto evasiva. Non stava mentendo, ma non fece alcun cenno alle donne e agli uomini che avevano contribuito allo sviluppo del progetto e su come erano stati eliminati. Anna l’abbracciò, era stata onesta con lei, almeno così credeva. Riferì ai suoi compagni la conversazione avuta con la madre. “Anna, siamo degli schiavi, questa è la verità”. Era la rabbia di Andreas a parlare.

Passarono alcuni mesi. I genitori adottivi scomparvero e con loro ogni altra traccia di vita terrestre. I ragazzi erano sconcertati, smarriti e spaventati. Erano i soli esseri umani della colonia. Qualcosa sarebbe successo. Ben presto tutti furono trasferiti in una camerata. Rimasero nell’oscurità più profonda finché le porte si spalancarono bruscamente ed entrò PQ200. “Oggi cominceremo gli addestramenti all’aperto”. Tuonò con tono perentorio. Accompagnati da un gruppo armato di androidi, uscirono con passo rassegnato. Il cammino li portò in una distesa delimitata da un recinto, sembrava un cimitero. Notarono numerose fosse rettangolari sul terreno. Si guardarono intorno e poi tra di loro, furono colpiti dal silenzio che occupava lo spazio, rotto improvvisamente dal fruscio dei phaser. La loro breve vita finì in un battito d’ali.

Il rapporto di PQ200 sull’accaduto fu molto preciso: “Nonostante gli sforzi profusi nell’addestramento, come risulta dalle relazioni periodiche inviate alla base terrestre, i ragazzi e le ragazze non hanno superato l’ultima prova. Sono morti intossicati dall’atmosfera di Marte. Si richiede un nuovo invio”.

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La sabbia era pulita e candida quando arrivò un’onda che travolse il corpo di Betty e lo sospinse verso la battigia in un punto in cui le rocce fermavano l’impeto del mare. Betty fu ritrovata due giorni dopo. La pelle era gonfia e violacea. Non aveva nulla con sé, solo pezzi stropicciati di un indumento dal tessuto pallido e macchiato. L’ispettore Brown l’analizzò minuziosamente con un tricorder e trasferì i dati alla Centrale. Fu così effettuata l’identificazione. L’ispettore capì immediatamente la gravità della situazione. Betty era una proprietà del Governo ed indagare sarebbe stato inutile.

Era stata generata, come tanti altri, al fine di ottenere dei Cyborg efficienti da impiegare nell’esplorazione della Galassia ed in campo militare. Questo ambizioso programma di sviluppo era stato cofinanziato dal Ministero della Difesa, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Ricerca Biogenetica. L’opinione pubblica era divisa. I sostenitori manifestavano, con ardore e con ogni mezzo possibile, l’esigenza di sopportare qualche sacrificio al fine di porre le basi per un futuro in cui i sistemi planetari avrebbero potuto rifornire la Terra delle risorse che cominciavano a scarseggiare. I detrattori, che ritenevano immorale creare individui da trasformare in schiavi del progresso, erano, tuttavia, la maggioranza. Perciò la sperimentazione fu avviata informando esclusivamente le strutture interessate. I figli della scienza, piccoli frutti acerbi consegnati all’oscurità di un mondo assente, venivano allevati in un collegio dove conducevano una vita senza contatti con la società. Il personale si prodigava per loro. Si occupava dei loro desideri e della loro istruzione. Studiare era un’attività che serviva per l’età matura quando tutte le loro potenzialità sarebbero state incrementate a dismisura con sofisticati dispositivi da impiantare in diverse parti del corpo, in particolare nel cervello. Il giardino, che intorno all’edificio sprizzava allegria e spensieratezza, era ben sorvegliato. Oltre il maestoso cancello in ferro battuto, situato alla fine di un viottolo contornato da rose rosse e gialle, nessuno si era mai spinto. Betty aveva un’innata curiosità. Dall’imponente costruzione che la ospitava scrutava gli alberi sempreverdi e i fiori che ogni primavera la sorprendevano per la loro bellezza e per il loro profumo. Non usciva mai da sola, non le era permesso senza autorizzazione e senza un androide sorvegliante. I suoi compagni non si ponevano molte domande, erano felici di far parte di una casta di eletti. Non prendevano sul serio le sue proteste, soprattutto quando chiedeva di assaporare l’armonia del mondo esterno. Tra gli studenti non vi era uno spirito solidale, erano educati all’egocentrismo e alla competizione, pertanto non si facevano scrupolo a riferire ai responsabili della struttura le confidenze dei loro colleghi e godevano quando Betty era ripresa severamente per le sue intemperanze. Ma lei non si dava per vinta, voleva conoscere la strada che intravvedeva dietro l’ultima ombrosa quercia. Aveva quindici anni quando tentò la prima fuga verso il confine del caseggiato. Le sentinelle la intercettarono facilmente e la riportarono indietro. La punizione fu esemplare. Venne segregata in una piccola cella per una settimana. L’umiliazione non la fece desistere dal suo intento.

Nel pozzo senza fondo della sua solitudine intuì che aveva bisogno di un alleato. Fu così che Betty si avvicinò al suo sorvegliante, cercando di disorientarlo per capire la logica del suo agire. Lo aveva soprannominato Amadeus, il suo vero nome era PQ42. Quando ebbero il nulla osta per passeggiare nel parco, in un cantuccio al riparo da occhi indiscreti, lei gli prese una mano e con sguardo supplice sfiorò le labbra sulla sua fronte. “Fammi volare via da questa prigione, anche solo per qualche ora. Voglio incontrare gli altri esseri umani.” “Il mio compito è proprio quello di evitare che qualcuno scappi, e poi… poi...le conseguenze sarebbero terribili. Se io ti aiutassi metterei in pericolo il progetto, la tua esistenza e la mia.” “Desidero solo conoscere ciò che sta al di fuori di queste pareti affrescate da un artista a me ignoto.” La riportò all’interno, salirono insieme i gradini, passo dopo passo giunsero nella sala mensa. Il direttore la rimproverò per il ritardo. Intanto il pensiero di Betty si concentrava sugli altri, seduti in silenzio. Non provava nessuna compassione per quegli arroganti e vili. Si sentiva premere contro la loro estraneità.

Le primavere, che cadevano dal cielo, erano fulmini, colpi sordi e dolorosi inferti dalle stagioni che trascorrevano inesorabili e che l’avrebbero resa ben presto idonea alla mutazione, costringendola ad abbracciare un destino sconosciuto. La sofferenza, l’abitudine alla sofferenza, la stava travolgendo e i sogni erano incubi in cui tutto svaniva tra le sue dita. Amadeus ogni tanto la consolava dipingendola alla stregua di una pioniera alla quale era stata affidata una missione da compiere. “Io, però, non ho deciso nulla.” Rispondeva Betty indispettita. Con sempre maggiore assiduità voleva essere accompagnata vicino al recinto dove la siepe lasciava filtrare qualche brandello di esperienze lontane e fugaci. Da lì poteva vagheggiare con la mente, afferrare un frammento di quello che le era negato. Si figurava una città senza nome, senza una fisionomia precisa, la riempiva di volti allegri, preoccupati o incerti, che l’attraversavano impegnati a rincorrere le loro storie, a rivivere i loro momenti di gioia, a piangere le loro tristezze. “Non farti del male, non puoi andartene. Rassegnati.” “Amadeus, io non riesco a restare indifferente alle ombre che mi stanno martoriando. Sto perdendo me stessa, vorrei annullare questo luogo e salvarmi dall’oblio. Devo trovare il modo di interagire con la diversità, con il lessico quotidiano della gente, quella gente che forse non apprezza la normalità di una qualunque giornata. Spero tu mi capisca.” La voce vibrante con la quale esprimeva la sua inquietudine, il suo corpo consumato da sensazioni profonde e vissute con rammarico e tormento finirono per far avvertire ad Amadeus un’attrazione istintiva. Qualcosa stava succedendo alle sue connessioni neurali. Ubbidienza e rigore erano sempre state le sue parole d’ordine. Ora era confuso, frastornato. Una sera si diedero appuntamento per rovistare nel database storico. Stavano commettendo una grave infrazione. Visionarono con attenzione numerose testimonianze con la passione dei neofiti. Lo stupore prese il posto della paura: la storia dell’umanità, delle sue conquiste e delle sue sconfitte li affascinava. Scoprirono anche la Risoluzione Internazionale n. 81 del 2096, in base alla quale gli Stati firmatari avrebbero potuto procedere sulla strada della manipolazione genetica purché fossero rispettati i diritti inalienabili che da secoli erano alla base della convivenza civile. Per un attimo il gelo spense il loro entusiasmo. “Sono stordita dall’eco che rimbomba in me per un sapere celato in uno stanzone nero, scuro, dimenticato. Devo inventarmi qualcosa per correre più veloce di chi mi vuole ingiustamente reclusa.” “Tu sei un’ingenua se credi che il Governo ti consenta di aprire un varco. Questa è la casa di quelli che non ci sono. Là fuori tu sei nessuno.” Replicò Amadeus con un tono amaro simile ad un lamento. Vulnerabile e incapace di frenare il suo trasporto per quella ragazza dai biondi capelli, stava capitolando. Non aveva più difese. Ormai complici e colpevoli di aver frugato nell’archivio, Betty e Amadeus iniziarono a ragionare, senza alcuna precauzione, sulla fattibilità di un salto nel vuoto, fuori dal labirinto informe di regole assurde e dalla palude in cui Betty annaspava per non sprofondare nell’abisso. Era diventato quasi un gioco. Si divertivano a fare ipotesi su ipotesi. Finchè non osarono spingersi oltre. Durante una delle loro camminate si accorsero che sul lato in cui la siepe era più intricata le sentinelle pattugliavano con minore frequenza. Attesero il momento giusto, si scambiarono un cenno d’intesa, scavalcarono il muro e presero il sentiero che li avrebbe resi liberi. Dopo aver vagato senza una meta per ore, incrociarono una città. Un via vai di persone dall’aspetto anonimo li guardava con sospetto: Betty era vestita con una tuta grigia simile a quelle degli astronauti ed era insieme ad un androide. Si infilarono in un locale in cui la musica spadroneggiava. Una luce fioca illuminava i bicchieri dei pochi clienti. Si sedettero. Un cameriere li vide e si recò da loro per l’ordinazione. Non sapevano cosa dire. Compresero che sarebbe stato meglio abbandonare quel posto. Il tramonto non si fece attendere, li sorprese mentre ammiravano le insegne variopinte e contemplavano i palazzi animati da musica e risate. “Amadeus, siamo tra i vivi. Qui lo spazio ed il tempo hanno finalmente senso.” “Non per me, io non sono capace di definire i concetti di tempo e spazio perché non ne sono cosciente. Non ho una chiara percezione dell’esistente se non in relazione al mio scopo.” “Non importa, imparerai il significato di finito e di infinito.” “Sai che ci costerà molto caro quello che stiamo facendo.” “Sì, eppure non ho rimorsi. E’ il mio amor proprio che mi lancia messaggi chiari. Ho aperto una breccia nel sistema. Pagherò questa ribellione e, purtroppo, tu ne subirai i contraccolpi.” “Non pensare a me, io non ho un prima e non ho un dopo, io dipendo dall’organizzazione che mi ha congegnato. Ho scelto di trasgredire e ora sono qui con te.” “Allora muoviamoci e cerchiamo di cogliere a piene mani quello che questo Universo ci presenta.” Il loro girovagare li portò a fluttuare in un balenio di sentimenti contrastanti, di suoni e colori inconsueti e a frequentare luoghi affollati o solitari, finché una notte furono inghiottiti dalle tenebre.

Quando fu notificata la morte di Betty, nessuno pianse. Si diffuse l’idea che il Direttore ne avesse ordinato l’esecuzione. Ma erano solo chiacchiere che i ragazzi sussurravano tra di loro, soprattutto dopo aver riconosciuto in un automa addetto alle gestione dei rifiuti, Amadeus.

foto Grace aprì la portafinestra che dava sulla spiaggia. Il terrazzo era spazioso, decorato con piante intricate e dai colori esotici. Il tavolo, ornato da un drappo rosso, aspettava i due giovani innamorati. “Danny, sono le 8:00, alzati la colazione è pronta”. “Lasciami dormire ancora un po’… è così bello non avere orari da rispettare”. “Oggi mi piacerebbe noleggiare un motoscafo, non essere pigro”. “Va bene cara, tra cinque minuti sarò da te”. Intanto Grace assaporava il profumo della risacca e fantasticava sul futuro con Danny. Il mare lanciava le onde con voluttà tentando di offrire lo spettacolo più affascinante possibile, mentre l’aurora all’orizzonte si specchiava sulle onde zampillanti. Qualche nuvola di passaggio offuscava il chiarore mattutino esaltando ancora di più i riflessi sulla superficie azzurra. Danny si presentò in vestaglia da camera, Grace sorrise, era la sua vestaglia morbida, setosa, aderente fino al punto da far trapelare il corpo che avrebbe dovuto nascondere. “Danny, sei veramente seducente”. Lusingato da quelle parole, la baciò appassionatamente. Consumarono in fretta la colazione per poter godere della giornata al largo, al riparo da qualsiasi suono, eccetto quello della salmastra marina. Al porticciolo un omino piccolo e tarchiato li squadrò come se fossero degli appestati. Erano abituati a comportamenti siffatti perciò non si scomposero, anche se il cuore di Grace gridava vendetta. Impostarono il navigatore di bordo e lo scafo piano piano abbandonò il molo. Grace osservava l’omino che sfumava tra i flutti fino a che non fu completamente celato alla vista. Danny le accarezzò le gote per infonderle il coraggio necessario ad affrontare la discriminazione di genere. “Non prendertela, non ti curar...” Grace lo interruppe. “Anche qui, nella sala ologrammi, dove nulla è reale, la realtà ci perseguita”. “Purtroppo abbiamo una normativa che risale ad un secolo fa. Oggi gli androidi si sono perfettamente integrati. Vi sono molti nella nostra condizione”. “E’ vero, Danny, ma sono tutte situazioni in bilico. Tra le persone più illuminate vi è molta tolleranza ed è per questa ragione che riusciamo a sopravvivere. Se non fosse così saremmo già stati rinchiusi in uno dei tanti ghetti costruiti nel secolo scorso”. Si fermarono in un punto in cui il dondolio li cullava e offriva ai loro occhi bianche scogliere a picco e minuscoli paesini abbarbicati sui pendii, dove un lieve vento muoveva i fili d’erba che spuntavano ora alti ora bassi sui prati fioriti. Si tuffarono e nuotarono insieme ai delfini che saltellavano con graziosa ironia. L’armonia di quella scena li fece ammutolire. Nulla avrebbe potuto distogliere le loro menti dalla magia di quel paesaggio. Rientrarono turbati e silenziosi. Presto avrebbero dovuto lasciare ai ricordi la loro vacanza. “Domani dobbiamo preparare i bagagli”. Sussurrò Grace. Dormirono abbracciati l’uno all’altra nella speranza che i sogni li aiutassero.

Varcata l’ultima soglia del caseggiato, sentirono riecheggiare il sordo cicaleccio degli abitanti della loro città. Le vie erano inondate di volti anonimi ed ostili. Finalmente raggiunsero il loro appartamento dove furono avvolti da una sensazione di benessere. Durò poco. Due guardie armate bussarono alla porta urlando quasi all’unisono: “Aprite!”. Dopo aver verificato le loro identità, si allontanarono minacciandoli con prepotenza. Nel frattempo sulla strada un corteo procedeva compatto. Manifestava contro la propensione sociale a mettere insieme elementi non compatibili con l’idea tradizionale di famiglia. “Tutti nei ghetti”. Questo era lo slogan. “Ci distruggeranno”. Mormorò avvilita Grace.

Passarono mesi e anni tra insulti, e-mail minatorie, visite ripetute da parte delle forze dell’ordine. “Non ci si salva dagli incubi, noi stiamo precipitando nel buco nero della vessazione”. “Grace, capisco la tua frustrazione, ma vedrai che il nuovo Governo modificherà la legislazione in vigore”. “Il tuo ottimismo è disarmante”. Nel pomeriggio, liberi da impegni lavorativi, vollero passeggiare tra gli alberi del vicino parco. Le querce splendevano riverberando il verde delle foglie sulla ghiaia dei sentieri. L’abito vaporoso e trasparente di Grace svolazzava sospinto da una leggera brezzolina primaverile. Danny la strinse forte. “Ti amo... Sapevamo che non sarebbe stato facile, non c’è tregua per quelli come noi, ma io sarò sempre al tuo fianco, te lo prometto”. Si alzarono e proseguirono verso il viale dei Eroi, tra questi primeggiava lo zio di Danny che aveva perso la vita in uno dei tanti viaggi interplanetari di esplorazione. Due ragazzi, che provenivano da una traversa, avanzarono rapidamente verso di loro e sputarono per terra in segno di disgusto e disapprovazione. “E’ giusto tutto questo?” “No, Grace, non lo è”.

Un altro inverno si posò su di loro. Danny amava quella stagione, le piante spoglie, gli aghi dei pini. Si divertiva ad arrampicarsi sulle cime innevate per poter rotolare sulla soffice neve. Grace lo seguiva, ma senza lasciarsi trascinare dal suo entusiasmo. Si era accorta che qualcosa stava cambiando. Era spesso sola. Il suo Danny trascorreva molto tempo fuori casa. Il palpito stanco del suo orologio si era trasformato in una fredda malinconica melodia. Le lunghe attese sfinivano i suoi sensi e la sua fiducia. Non poteva più indugiare. Quella sera lo avrebbe messo con le spalle al muro.

Era notte fonda quando udì la chiave girare nella toppa. “Che cosa ti sta succedendo?” Disse Grace in preda alla collera. “Nulla, che cosa ti sei messa in testa?” Ribatté Danny in modo insolitamente sgarbato. “Perché sei così distante?” “Non sono distante, ho solo qualche problema in ufficio”. Distolse lo sguardo. C’era dell’altro. Grace lo capì e uscì con passo felpato per dissolversi nelle tenebre. Riapparve all’alba sotto il palazzo dell’azienda, per la quale Danny svolgeva il ruolo di Direttore Generale, vi era una fontana multicolore che addolciva il grigio cemento. Al centro una spirale saliva verso il cielo sfumando in un tripudio di spruzzi maestosi. Comunicò in ufficio che quel giorno non avrebbe preso servizio per ragioni di salute. Voleva farsi perdonare da Danny invitandolo a pranzo nel locale in cui si erano conosciuti. Lo vide uscire per la pausa, non era solo, una ragazza bellissima appoggiava la testa sulla sua spalla, la sua pelle ricordava la luminosità candida della Luna piena, una cascata di riccioli inondava le loro schiene. Rimase a guardarli finché non scomparvero dietro l’angolo. Chiunque avrebbe detto che quella era proprio una bella coppia. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Le sue sinapsi si erano bloccate su quella figura femminile attraente ed elegante. Rimuginava e rimuginava.“Sarò sempre al tuo fianco”, con quanta fierezza Danny aveva pronunciato quella frase. “Il livore mi sta travolgendo… e se mi fossi sbagliata?” Si diresse verso la loro abitazione.

Era l’ora di cena. Danny aprì la porta, nelle stanze volteggiava l’odore delle pietanze che Grace stava cuocendo per lui. “Mi dispiace per ieri, sono stata aggressiva senza motivo”. “Non ti preoccupare”. Le sfiorò le guance con le labbra e aggiunse “Io ti amo”. “Cosa ne dici se domani chiediamo un paio di ore di permesso per fare quattro chiacchiere da ‘Chez Maxim’?” “Non posso. Domani sono molto impegnato… Devo visitare alcune filiali”. “Va bene, sarà per un’altra volta, amore mio”. Grace era molto loquace e scherzosa. Si coricarono tardi. Danny si stese e si addormentò in pochi minuti, incurante di Grace. Il Sole era alto quando si salutarono. Grace convinse il suo capo ufficio, fortemente contrariato per la prolungata assenza, che la questione da risolvere era di fondamentale importanza. Con estrema cautela, si mise sulle tracce di Danny e lo pedinò fino a quando salì al quinto piano di un vecchio edificio in periferia. Grace si trattenne una manciata di secondi. Chiuse le palpebre. Quando le riaprì, ebbe la conferma e i pochi dubbi si dileguarono. Danny e riccioli d’oro si abbracciavano, si coccolavano in modo sensuale. L’aveva tradita con una donna. Le girava la testa per l’umiliazione. Un turbinio di idee, il desiderio di ferirlo in qualche modo si mescolavano ai sensi di colpa. “Che cosa ho fatto per meritarmi questo”. Presa dal panico della sofferenza non sarebbe stata in grado di sostenere un colloquio inutile e carico di astio. Scelse di andarsene. Mentre stava preparando i bagagli, Danny rientrò. “Che cosa stai facendo?” “Mi pare abbastanza evidente, non voglio rappresentare per te un ostacolo”. “A cosa ti riferisci?” “Alle tue misteriose assenze, alle bugie, ai sotterfugi… ti ho sorpreso con la tua amante. Vuoi che te la descriva?” “Non è una cosa seria, tu sei unica per me”. Borbottò Danny imprecando contro la sua sfortuna. “La sfortuna? Quale sfortuna? Il tuo atteggiamento rivela quello che minimizzi con tanta violenza verbale”. “Mi puoi perdonare?” “No, perché avresti potuto dirmelo e non l’hai fatto, sei un vigliacco”. Di fronte a tanta ostinazione, Danny perse la calma. “Sei insolente ed ingrata e, comunque, non puoi separarti da me, sei una mia proprietà e hai bisogno di un tutore per muoverti all’esterno di queste pareti”. “Non pretenderai di ridurmi in schiavitù?”. “Sto solo dipingendo il tuo futuro. Appena fuori saranno le autorità competenti a decidere la tua sorte. Potrebbero anche disattivarti se io non garantissi per te”. “E tu non garantirai, immagino”. “Se te ne vai, ed è una scelta che puoi fare, io ti rinnegherò”. Grace in Danny, il suo Danny, aveva scoperto l’indifferenza e la crudeltà che si celano nell’animo umano. Si era fidata di lui. Lo aveva ammirato per la sua tenacia nel difendere la loro unione. Sprofondò nella poltrona. “Come sei mutato, persino la tua voce è diversa. Quello che non capisco è perché vuoi che io resti qui”. “Non voglio perderti, voglio che tu stia con me. Tu sei un’opera d’arte, per averti ho sudato sette camicie, ho sborsato parecchi quattrini. Ho subito gli insulti della gente, vivendo in una campana di cristallo che si è trasformata in una prigione. L’evasione che mi sono concesso mi ha dato uno scossone, ho avvertito il brivido di una normalità che con te non ho mai potuto avere.” “Mi stai proponendo di diventare la tua domestica?” “No. Tu sei la mia compagna. Con te mi sono divertito e nell’intimità sei sempre stata impagabile”. Non si era nemmeno accorto di quanto fosse stato sarcastico e sgradevole. Grace era disorientata e mortificata, la sua esistenza si stava sgretolando. Si spostò in camera da letto e cominciò a riflettere sulla risoluzione da adottare. “Quali alternative ho? Non voglio rassegnarmi a fare la prostituta. Fuggire è un rischio, eppure non posso arrendermi, devo escogitare un sistema legale per eludere il filo spinato che lacera la mia dignità”. Soffocò un gemito e, con un gesto inconsulto, lanciò la lampada blu, alla quale era molto affezionata, sul pavimento. “Tutto bene cara?” La voce di Danny rimbombò nel corridoio. “Certo, ho urtato la lampada”. “Pazienza, la ricompreremo”. Così Grace fece buon viso a cattivo gioco, valutando e progettando nel contempo in modo meticoloso un piano per ottenere l’emancipazione.

Si rivolse al Comitato per le Pari Opportunità. Il movimento, nato dall’iniziativa della parte più aperta della società, aveva tentato più volte di promuovere leggi a tutela dei soggetti deboli, ora Grace offriva un’occasione come tante, ma più intrigante e difficile. Ben presto divenne la paladina dei diritti negati. Danny riteneva di trovarsi in una botte di ferro e mai avrebbe supposto di combattere l’aspra morsa della richiesta di libertà. Invece la convocazione del Tribunale arrivò. Fu consegnata, ironia della sorte, da un androide.

“Quali sono le sue richieste?” Intimò il Giudice un po’ seccato dal clamore che si era creato intorno alla causa portata in giudizio. “Voglio solo che mi venga riconosciuto lo status di libera, voglio avere la facoltà di poter troncare la mia relazione con l’uomo che è davanti a lei e che sorride in modo beffardo”. “Si rende conto che è la prima volta che mi viene sottoposto un caso simile?” “Ne sono consapevole, la mia è una battaglia per i diritti civili. Anche noi abbiamo sentimenti. Se una storia finisce, credo sia un inutile sacrificio il legame imposto dalla legge. Vostro Onore, quando sarà il momento di emettere una sentenza, pensi a tutti coloro che sono nella mia stessa posizione. Non ritiene che sia giusto convivere per scelta e non perché obbligati da un contratto?” Danny fissava Grace con disprezzo. Era sua, lui era il suo padrone. Mai e poi mai la Corte avrebbe accolto la sua istanza. Sarebbe stato un precedente vincolante per la giurisprudenza. Tutti gli androidi si sarebbero ribellati. Era inaudito anche solo ipotizzare quello che sarebbe accaduto. La Corte alfine deliberò. A Grace fu riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. La notizia si diffuse velocemente. I faziosi si infiammarono scatenando in diversi luoghi della città scontri violenti. Quando la bufera si placò e la quiete ebbe il sopravvento, tutti concordarono su un punto: la pacifica convivenza avrebbe portato vantaggi all’umanità. Anche gli irriducibili detrattori della robotica di quarta generazione, dopo il primo sgomento, capitolarono, accettando la nascita di una nuova era. Solo piccoli sparuti gruppi giurarono di opporsi alla trasformazione in atto. Tra gli aderenti vi era Danny. Lo squallore in cui era piombato gli appariva insopportabile. Grace aveva traslocato. Nella loro dimora i locali erano disadorni, sull’intonaco le tracce dei mobili, che aveva portato con sé, lo sbeffeggiavano. Ad ogni sospiro, vampate di calore lo rendevano cieco dalla rabbia. Si sentiva offeso nella sua virilità. Voleva annientarla.

Si procurò al mercato nero un phaser molto potente e, supportato dalla sua combriccola, le tese un agguato. L’afferrò per un braccio, la fece cadere, puntò l’arma e la uccise. “Adesso vai ad implorare giustizia”. Mormorò con ripugnanza.

Era stata un’esecuzione premeditata e perpetrata con ferocia su un essere libero. Per la prima volta un uomo fu processato e dichiarato colpevole di robocidio.

racconti #sociale #fantascienza

Roby stava sorseggiando distrattamente uno champagne, non uno qualsiasi, uno di quelli della riserva speciale, raro a trovarsi ormai. Era una donna di successo, ammirata ed apprezzata. Si era precocemente distinta per il suo talento negli studi di Economia Globale, studi che l’avevano portata ad avere grandi soddisfazioni ed una brillante carriera. Aveva sempre vissuto nel presente senza porsi tante domande sul suo futuro. Dopo aver degustato quelle meravigliose bollicine, si diresse nella stanza da letto dove ebbe un sussulto quando, guardandosi allo specchio, per la prima volta vide sul suo viso dei segni, erano delle rughe, piccole ma eloquenti. La consapevolezza che forse non avrebbe potuto godere a lungo dei suoi privilegi la spaventò, ma ancor di più la rese inquieta la certezza che sarebbe stata emarginata in uno dei tanti “Ricoveri”, costruiti in gran segreto. Nel 2323 il governo centrale aveva stabilito che tutti gli anziani avrebbero dovuto essere collocati a riposo in “accoglienti case” predisposte al fine di non pesare troppo sul bilancio. Nessuno era in grado di dire precisamente che cosa accadesse lì dentro, eccetto gli addetti ai lavori. Questi avrebbero potuto fornire informazioni precise, ma erano degli androidi che non facevano trapelare nulla. L’idea di riformulare la società in base all’età e alla capacità lavorativa era ormai una realtà consolidata, così come quella di far crescere i giovani, generati in base ad una precisa e ben definita progettazione cromosomica, in luoghi protetti, in modo che nessuno potesse interferire con le attività educative volte a plasmare le loro menti. Quelli che non erano sufficientemente dotati, il cui DNA non era stato assemblato con perizia, venivano semplicemente utilizzati come manodopera nelle Unità di Produzione. La sperimentazione partì quasi per caso nel XXI secolo: le coppie cominciarono col chiedere una manipolazione genetica che preservasse dalle malattie i loro figli, vollero poi modificarne alcune caratteristiche fisiche o attitudinali ed, infine, preteso che fossero istruiti senza essere contaminati da quelli che non potevano essere considerati puri, cioè UGM come loro. Furono così istituiti per legge due registri nei quali, con grande attenzione, furono annotate le nascite in base alla tipologia di procreazione. Dopo qualche decennio non fu più necessaria questa procedura perché i nati in modo naturale vennero dichiarati illegittimi, nonostante le proteste degli umanisti che credevano ancora nel concepimento frutto della passione di amorosi sensi e nella bellezza della diversità. Nel lussuoso appartamento in cui abitava, Roby cercava ora di fare un bilancio della sua esistenza. Lucy, l’unica amica che avesse avuto e con la quale fosse riuscita ad avere un dialogo, sia pure limitato agli argomenti della banale quotidianità, era un’androide evoluta, che le era stata molto utile durante le lunghe giornate passate ad elaborare algoritmi per la gestione delle risorse e indicatori per il RAV, Rapporto Annuale di Valutazione. Il governo pretendeva molto, ma teneva in gran conto gli UGM come lei che dimostravano di comprendere la loro missione ed il loro ruolo. Ne era pienamente consapevole e si sentiva a suo agio nella gabbia dorata che le avevano costruito intorno. Si guardò di nuovo allo specchio, chinò la testa e si chiese “Che cosa c'è là fuori, al di là di quei lussuosi edifici?” Appoggiò le mani sul vetro di una finestra: al di sotto strade poco trafficate, piazze illuminate da generatori di fotoni. Qua e là intravvide delle ombre muoversi: erano gli UN che, partoriti in clandestinità e sopravvissuti ai rastrellamenti delle forze dell’ordine, furtivamente, sbucavano dai loro nascondigli per procurarsi del cibo. Con gli occhi bassi e coperti da cappucci, che di tanto in tanto facevano trapelare i loro lineamenti, scrutavano, sospettosi e guardinghi, ogni minimo movimento. D’improvviso la sua attenzione cadde su un uomo, un bell'uomo di mezza età, il cui volto era ben visibile. Che cosa ci faceva lì senza alcuna protezione? Perché camminava avanti e indietro come se stesse aspettando qualcuno? Non si rendeva conto del pericolo? Agli appartenenti alla casta superiore era vietato uscire liberamente, avrebbero dovuto trasmettere all’Ufficio Sorveglianza e Protezione le loro intenzioni e solo con il PASS vidimato ed una scorta avrebbero potuto varcare la soglia di casa. Lui era lì da solo, con le braccia conserte, in attesa di chissà chi o di chissà quale evento. Quell'uomo l'aveva colpita, sia per il suo portamento elegante, sia perché non riusciva a comprendere la sua naturalezza in una situazione di evidente rischio. Si diresse verso il guardaroba, scelse un abito anonimo e lo indossò. Era irrequieta e turbata. Continuava a rimuginare tra sé e sé quello che lo specchio le aveva rivelato. Forse aveva a disposizione un lustro e poi… poi avrebbe scoperto, suo malgrado, il segreto che si celava attorno ai famosi “Ricoveri”. Chiese il PASS: voleva in qualche modo sottrarsi alla sua immagine e forse al suo destino. Chiuse il portone di casa, si girò e lo vide ancora al suo posto, si accorse che la osservava intensamente, con aria di sfida. Un brivido la prese per mano e l'accompagnò fino all'affollato locale, dove si incontrava l'intellighenzia dello stato. Prese un caffè, fece quattro chiacchiere, ma la sua mente era aggrappata ad altro. “Mi aveva guardato con interesse. Perché? Chi era quello sconosciuto?” Rientrò ad ora tarda, congedò la scorta e si diresse verso l’ascensore. Salì fino al 45° piano, il migliore di tutto il palazzo, aprì la porta e fu accolta dal consueto profumo e questo la fece precipitare nella sua confortevole e raffinata sala da pranzo. Tuttavia, non era serena, un impulso irrefrenabile la spinse verso la vetrata del salotto: lo scorse a fatica a causa dell'oscurità, ma ne era certa, stava sotto un piccolo riparo. Lui, sempre lui, ora fermo, ora con gli occhi al cielo, meglio con lo sguardo verso i piani più alti dei palazzi, indubbiamente in affanno. A malincuore Roby lo lasciò e si coricò. Aveva bisogno di dormire, il giorno seguente sarebbe stato molto impegnativo: avrebbe consegnato il Piano Economico per il nuovo anno. Si alzò all'alba, fece una colazione leggera, preparò il materiale, sicura che il suo lavoro sarebbe piaciuto: perfettamente in linea con le aspettative, proponeva una strategia che non trascurava azioni mirate per l’ambiente, messo a dura prova da uno sfruttamento dissennato. La temperatura era salita di tre gradi. Erano, perciò, aumentate le aree desertiche e diminuite le risorse d'acqua. I più refrattari, e nelle alte sfere non erano una componente minoritaria, sembravano impermeabili a qualsiasi cambiamento. Per convincerli si era premurata di allegare i dati forniti periodicamente dall’UMAR, Ufficio Monitoraggio Aree a Rischio. Arrivò l'auto che l'avrebbe condotta al Palazzo del Consiglio di Stato. Era dotata di tutti i comfort, compreso un sintetizzatore di alimenti e bevande. Roby si sedette sbirciando fuori dall'oblò: era ancora al suo posto, i piedi calpestavano con costante pazienza il marciapiede, quell'uomo non voleva proprio andarsene. In pochi minuti fu a destinazione. La riunione fu lunga, il risultato negativo. Era la prima volta, ma costituiva un precedente che avrebbe avuto conseguenze rilevanti: per lei e per tutto il pianeta. Era avvilita e sorpresa, in fondo non aveva messo in discussione l'impianto strategico della società, aveva solo aggiunto un elemento di novità. Guardò i Consiglieri come si fa quando ci si avvicina a degli appestati e subito si tenta di fuggire per evitare il contagio. Non vedeva l'ora di respirare aria pura. Ma dove? Se tutto intorno era artificiale, e le poche anime che giravano erano fantasmi ingannati dall'aspro sapore dell’incertezza della latitanza. Le imposero di fare sostanziali modifiche e fu riaccompagnata. “Sostanziali modifiche!”, il suo cervello non faceva che ripetere questo imperativo. Se non l'avesse fatto, qualcuno se ne sarebbe occupato e per lei sarebbe stata la fine. Umiliata ed impaurita, sentì dentro di sé un moto di ribellione. Ad aspettarla vi era lui, non se ne era andato. Tirò quasi un sospiro di sollievo. Non era più intimorita dalla sua presenza. Ma chi era? Chi cercava? Da dove proveniva? Gli interrogativi erano sempre gli stessi e non erano di poco conto: lacci e lacciuoli imbrigliavano tutti ad un destino segnato fin dal primo vagito. Roby era nata e vissuta in quell'atmosfera. Lei era più che mai integrata e funzionale allo status quo. Sapeva come era stata generata e per quale fine. Con orgoglio amava ripercorrere le immagini della sua giovinezza, quando interagiva e dialogava con gli androidi, che l'addestravano a diventare una brava studentessa e che la gratificavano con elogi continui, del resto apprendeva con una facilità inconsueta. Si distraeva solo quando durante le ore di cultura generale, era seduta a fianco di uno studente per il quale nutriva una certa simpatia, l'aveva colpita perché ogni tanto durante le lezioni scuoteva la testa come se avesse dei dubbi su ciò che veniva insegnato della storia umana. Non si andava molto indietro, la linea del tempo partiva dalla colossale ristrutturazione sociale avvenuta nel corso di trecento anni. La filosofia era stata bandita, così come le arti. Tutto si concentrava sulle competenze che avrebbero formato dei bravi funzionari. E dall'Accademia uscivano veramente dei grandi professionisti. Stava quasi per entrare nell’ascensore, quando cambiò idea. Si fece coraggio sospirando profondamente, si lasciò alle spalle tutte le esitazioni e, in gran fretta, si avvicinò a quell'uomo. Si fermò per un attimo impietrita per l’emozione: lo aveva riconosciuto, scuoteva il capo come un tempo. Erano l'uno di fronte all'altra, Roby tremava, avrebbe voluto abbracciarlo, ma lui l'afferrò prima che si muovesse, la trasse a sé e le diede un bacio sulla guancia. “Ti aspettavo, finalmente sei arrivata. Sono Andrej, ti ricordi di me vero?” “Come dimenticare il tuo volto, con quell'aria sbarazzina. Come mai ti ritrovo qui dopo tanti anni?” Chiese Roby. “Forse non sai che, a causa dei miei continui scontri con l’educatore PQ10, fui confinato nella scuola speciale di rieducazione. Questa fu un’esperienza fondamentale, paradossalmente fu proprio lì, tra i reietti, che ebbi la conferma che le mie perplessità erano fondate: stavamo precipitando in un abisso senza ideali e senza prospettive, se non quelle decise prima della nostra nascita. Ma non era sempre stato così. Un tempo si poteva sognare, illudersi e qualche volta piangere per le miserie e le ingiustizie.” Roby non capiva. Le uniche testimonianze che circolavano erano quelle consentite dal regime. Dove aveva scovato le tracce di un passato così remoto e diverso? “So cosa stai pensando. Esistono degli archivi. Entrarvi è molto difficile, ma non impossibile. Noar era riuscito a decifrare i codici di accesso e aveva curiosato nell’onda degli eventi. Era stato intercettato, condannato ed inviato nella mia sezione. Grazie a lui, nei momenti in cui potevamo eludere la sorveglianza, sempre molto stretta – le nostre discussioni erano dei sussurri rubati alla rigida disciplina di quella colonia di infami – mi avvicinai al tempo in cui le persone, quelle imperfette, avevano dato vita a civiltà i cui prodotti del pensiero sono stati cancellati. A noi è stato precluso il confronto con uomini e donne che avevano combattuto e si erano sacrificati per la libertà, l’uguaglianza ed il rispetto di tutti gli esseri umani. Interessante, vero?” “Questo, comunque, non spiega il fatto che tu mi abbia atteso con silente tenacia.” Osservò Roby. “Una mattina mi alzai, entrai nella sala dell’appello, non trovai il mio amico. Purtroppo anche lui era scomparso, intuii che, come tanti altri, era stato eliminato. Una fitta terribile mi attraversò il cervello e mi fece perdere i sensi. Fui portato nella mia cella. Piansi. Riaffiorò così il tuo sguardo su di me. Ebbe l’effetto ristoratore di una carezza che non avevo mai avuto e che mi aiutò a superare il mio dolore e a trovare una soluzione. Come un fiume in piena, gli anni trascorsero, lasciando in me un segno profondo. Una sera, era la scorsa primavera, ti vidi e ti seguii, andasti a nasconderti in un palazzo vuoto, trasgredendo le minime norme di sicurezza. Compresi che qualcosa in te stava cambiando.” “Veramente l’unica vera novità era il desiderio di cercare una via d’uscita dal rischio molto concreto di veder collassare il mondo. Avevo bisogno di abbandonare i miei soliti schemi e la mia quotidianità per poter riflettere da un altro punto di vista. I miei sforzi sono comunque stati vani.” Mormorò sconsolata. La tranquillità di Andrej contrastava e non poco con l’evidente ansia che Roby sentiva piano piano crescere. Con un moto di fastidio lo allontanò, come se avesse percepito un pericolo e gli disse: “Cosa nascondi? Perché ti hanno risparmiato?” “Mia cara, io mi sono salvato dalla morte, al contrario del mio amico Noar, fingendo di aver superato la mia crisi di identità. Rinnegai tutto ciò in cui avevo creduto ed intrapresi la faticosa strada della riabilitazione. Fui tanto convincente, persino con me stesso, che chiusero la mia pratica con un Nullaosta ed una nota di merito per le mie abilità di Interceptor. Sono io a segnalare le anomalie del sistema e a porvi le dovute correzioni. Tu hai oltrepassato i limiti, vagando in incognito e ponendoti dei quesiti e degli obiettivi non coerenti con il nostro modello di organizzazione. Il tuo ultimo Piano Economico, con quelle inutili divagazioni sull’ambiente, ne è la prova. Una mina vagante, ecco cosa sei.” Roby non oppose resistenza. Abbassò le palpebre. Andrej estrasse da un fodero ben nascosto sotto il suo abito l’arma in dotazione alle squadre speciali. La colpì senza alcun rimorso e le appoggiò dolcemente una rosa scarlatta sul petto: era la sua firma. Se ne andò, sotto una tremula luce, nella certezza che fosse giusto averle dato la possibilità di morire con dignità.

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Aveva le spalle larghe, era alto e possente. I suoi occhi azzurri come il mare incantavano chiunque lo avvicinasse. Forse era il fascino della divisa su cui si adagiava la luce, forse era la sua espressione gioviale a renderlo affascinante. Aveva perso memoria del suo nome, conosceva la sua matricola di fabbricazione, PQ809, ed era un poliziotto. Sì, era un poliziotto. Quando aveva cominciato a svolgere l’attività cui era stato assegnato dal capitano, un guizzo d’orgoglio si fece strada tra le sue connessioni neurali. Il ruolo lo spinse ad implementare il suo database con le informazioni necessarie per prevenire piuttosto che contrastare azioni sediziose o illegali. Era armato e doveva pattugliare il quartiere più a nord della città, il luogo in cui uomini e donne amavano incontrarsi per interrompere la routine di una vita dura e dolorosa, scontrosa e fugace. Lui guardava quell’umanità apparentemente stanca ancor prima di nascere, ma che non aveva smesso di osservare la Luna e di rincorrere il senso dell’esistenza, cercando nella violenza una via di uscita. “Ehi, amico sei di nuovo tra noi?” Disse uno di loro. “Sono qui come sempre, forse non dovresti fare a me questa domanda, ma a te”. “Abbiamo un androide filosofo”. Rispose ridendo con sarcasmo e volgendo il capo indietro verso gli altri, i compagni di sempre. “No, sono semplicemente un poliziotto che deve mantenere l’ordine”. “Che cosa teme il governo? Siamo così pericolosi?” PQ809 se ne andò pensando: “Certo che siete pericolosi”. Da un momento all’altro qualcosa sarebbe potuto accadere. Sotto il cielo increspato, ruvido e aspro vi era una insoddisfazione dilagante che sfociava spesso in attacchi improvvisi quanto inutili contro il nuovo regime. Al distretto era ben voluto da tutti. I componenti della squadra di cui faceva parte erano in quel periodo dislocati in altre zone della città, dove i disordini erano assenti. PQ809 invece quotidianamente toccava con mano l’acqua gelida dei fiumi, acqua che sarebbe potuta esondare senza preavviso, tentando disperatamente di travolgere tutto senza lasciare traccia. Con questo stato d’animo pattugliava le vie immaginando di trovare come per incanto la realtà rovesciata, quiete e serenità. Invece la situazione era sempre la stessa. “Ehi poliziotto filosofo, sempre da queste parti?” “Questo è il mio lavoro, perciò sì, sono sempre da queste parti”. “Prima o poi farai una brutta fine. Questo è il nostro territorio e mal si concilia la tua presenza”. Avrebbe voluto obiettare che senza di lui sarebbero stati in balia degli eventi da loro stessi causati, ma non volle replicare.

All’improvviso vide un vecchio dall’aria stanca e dal volto solcato da profonde rughe. Si diresse verso di lui. “Cosa fai qui?” L’uomo era seduto per terra, lo fissò un attimo. “Sono un’ombra, sono il passato che vorrebbe vegliare sul presente.” Mormorò con voce lieve e roca. PQ809 con aria interrogativa non si mosse in attesa di una spiegazione. “Mia figlia è morta proprio qui. Quando la trovai giaceva sotto una pioggia battente, sola, abbandonata sul marciapiede come uno straccio”. “Cosa è successo?” “E’ una lunga storia. Dopo la fine della guerra, tutti noi eravamo impegnati nella ricostruzione di una società pacifica, inclusiva, dove vi sarebbe stato posto per tutti e per ciascuno a prescindere dalle caratteristiche genetiche, biologiche e funzionali. Questo era il nostro intento. Eppure qualcuno non era d’accordo, preferendo allontanarsi per organizzare la resistenza armata e combattere fino all’ultimo respiro contro il Governo Federale liberamente eletto e che non perdeva occasione per propagandare il proprio ruolo di garante ”. “Quello che mi dici, non mi aiuta a capire”. “Lo so”. Due lacrime scesero sulle guance sfigurate, la mano tremolante indicava verso il centro della città. PQ809 lo seguiva a fatica anzi gli sembrava che stesse divagando. Non era vero e lui lo sapeva. “Mia figlia nacque dopo una lunga serie di tentativi. Finché non arrivò la notizia che un piccolo embrione si era trasformato in una cucciola. A quei tempi io facevo il tuo lavoro, ero molto occupato. La piccola crebbe nel collegio più prestigioso di questa città. Ci vedevamo ogni fine settimana ed erano momenti di gioia. Amava fare lunghe passeggiate, diceva che la rilassavano”. Intorno a loro il chiasso si era fatto assordante, ma nessuno dei due pareva farci caso. Notarono invece due grandi fanali che si stavano avvicinando, l’aeronavetta si accovacciò sul suolo e attese. Due ragazze salirono in fretta come se ci fosse un allarme da qualche parte. “Non sei stupito? Eppure sei sempre qui”. Riprese il vecchio con tono rassegnato “Il mezzo che hai visto si presenta regolarmente e la scena cui si assiste è sempre la stessa. Dove sia diretto nessuno lo sa. Quello che è sicuro è che le ragazze si dissolvono nel nulla”. “Non mi sono mai accorto della stranezza di questi comportamenti”. Si sentiva a disagio, come se fosse responsabile di una grave omissione. Tacque per qualche minuto. “Ma...Tua figlia perché si trovava qui?” “Era un sabato qualunque quando uscì con un’amica per fare quattro chiacchiere e distrarsi. Era incantevole, indossava un abito di seta blu attillato che contrastava con l’agitazione con cui si muoveva. Si avvicinò alla porta frettolosamente senza salutare. Uno strano presentimento si impossessò della mia mente. Fu un attimo. Decisi di seguirla. Passo dopo passo, cercando di non farmi notare, la vidi svoltare in un viale cupo e poco frequentato. Persi le sue tracce. Quando rientrò non osai chiederle nulla”. “Ti ascolto da un po’, ma ancora non ho compreso come sia morta tua figlia”. Incalzò PQ809, ma il vecchio era completamente immerso nella sua narrazione. “Due mesi dopo il pedinamento mi abbracciò con una valigia in mano. Le chiesi una spiegazione prima che varcasse la soglia, le sue labbra sottili non pronunciarono una parola. Era già lontana quando si voltò verso di me con tutto il suo corpo e urlò: ‘Ti voglio bene’. Scomparve ed io rimasi immobile, annichilito”. “Non potevi fermarla?” replicò PQ809. “Come si fa a fermare una donna di 20 anni? Solo quando mi ripresi, mi feci coraggio e mi recai al Distretto di Polizia. I miei colleghi non mi badarono più di tanto, non era stata rapita, se ne era andata volontariamente. Aveva 20 anni osservarono. Era vero, era responsabile delle proprie azioni”. Il vecchio abbassò il capo, era stato colto da un improvviso malore, aveva il vuoto dentro, qualcosa di oscuro lo stava divorando. “Non si fece più sentire. I giorni scorrevano lenti, le pagine del calendario finirono per coprire il pavimento. Le strappavo con la rabbia del leone ferito. Indagai per conto mio sui casi irrisolti riguardanti giovani donne la cui vita si era fermata senza il ritrovamento di un cadavere. Giunsi in questa piazza, molte erano passate da qui”. “Vuoi dire che qui si commettono omicidi? Tua figlia si è trovata implicata in qualcosa di poco chiaro?” “Ne ero convinto, anche se la speranza che la mia ipotesi fosse smentita dai fatti albergava nel mio cuore”. Il vecchio si alzò e se ne andò senza concludere la conversazione.

PQ809 non gli chiese altro anche perché non nutriva dubbi sul fatto che lo avrebbe rivisto.

Invece no, il vecchio non riapparve. Cos’era successo? Tutto era avvolto nel mistero: la comparsa del vecchio, la sua sparizione, la morte della figlia. PQ809 non riusciva a darsi pace. In cuor suo, se così si può dire, desiderava trovare soluzione ad un caso che lo aveva colpito al punto da diventare un’ossessione. Girava senza tregua alla ricerca di qualche indizio ma era come giocare a mosca cieca, nessuno conosceva la ragazza e tanto meno il padre e, se anche qualcuno li avesse notati, certamente non lo avrebbe detto a lui. Qualcosa gli sfuggiva. “E’ possibile che io abbia sognato tutto?” Decise di terminare le ricerche e di rivolgersi all’ingegnere che lo aveva progettato e addestrato. Non fu rilevata alcuna anomalia

Un anno dopo fu trasferito in un’altra zona della città. Era il rione degli scienziati. L’aria profumava di fiori freschi e di corteccia. Il parco brulicava di ragazzi, sorvegliati a vista da guardie armate, qualcuno correva, altri camminavano lentamente, altri ancora si godevano il sole primaverile seduti sulle panchine. I palazzi intorno svettavano verso il cielo facendo intravvedere una umanità indaffarata. PQ809 si rese conto ben presto, e con soddisfazione, che tutto era perfettamente organizzato. Quello che lo turbava era la rabbia con cui i ribelli attaccavano quel modello di società. Lo comprese rapidamente. Quel mondo viveva ad un ritmo quasi delirante. Le sirene suonavano con puntualità da caserma sempre alla stessa ora. In file ordinate tutti uscivano per raggiungere il posto di lavoro o rientravano negli alloggi. Erano quelli i momenti in cui si poteva leggere sui loro volti una grave tristezza. “I loro occhi sono muti, inespressivi”. Pensò sommessamente PQ809. Intorno non scorgeva luoghi di ritrovo, nessuna insegna colorata, l’atmosfera era piatta, la musica inesistente. Un filo di vento, che si intrufolava tra gli alberi, era l’unico suono oltre quello delle sirene. Sentì un brivido. Era imbarazzato ed intimorito dalla nostalgia per il chiassoso quartiere in cui aveva prestato servizio. Come per incanto gli sovvenne il vecchio stanco e ferito, evaporato dalla sua memoria finché, per uno strano scherzo del destino, gli parve di distinguere proprio lui. Lentamente calpestò il sentiero che li separava. “Finalmente sei qui, ti stavo aspettando”. “Che cosa significa?” PQ809 sarebbe voluto scappare. “Sei preoccupato, eppure non dovresti stupirti, non è il caso che ti ha condotto qui. La legge da qualche anno non prevede lunghi periodi di sosta in uno stesso luogo per evitare che androidi ed esseri umani familiarizzino. Prima o poi saresti arrivato. Quello che vedi è il fallimento degli ideali in cui molti di noi avevano creduto. Quest’area è una specie di bioparco, noi siamo animali in via di estinzione. Voi androidi avete preso il controllo del governo e di tutte le attività produttive. Non avete bisogno di noi se non per studiare ed implementare la vostra sfera emozionale. Conclusa questa fase l’Umanità non ci sarà più”.

PQ809 spaventato dal tono perentorio del vecchio, che lo inchiodava, aveva le reti neurali in fibrillazione. Qualcosa di terribile stava per cadergli addosso. “Quando ti ho conosciuto, ti ho raccontato di me e di mia figlia. Quella storia sconclusionata merita un finale”. Sospirò. “Era notte fonda, proprio dove ci siamo incrociati la prima volta, lei ed i suoi amici stavano preparando un attentato per sovvertire la situazione ed ottenere dignità e libertà. Era fin troppo evidente quello che stavano facendo, ma si sentivano protetti, erano entusiasti e ingenui. Arrivò l’aeronavetta della polizia. Fu una strage. Tra i poliziotti c’eri anche tu. Tu hai ucciso mia figlia.” “Io non ricordo nulla”. “Non puoi. Sei stato riconfigurato”. “Cosa pensi di fare?” Chiese PQ809 in modo sommesso. “Sono vecchio, parlare con te è stato l’ultimo atto da uomo libero”. PQ809 non commentò, girò lo sguardo verso il Sole, meditando di fuggire con il suo segreto. Voleva a tutti i costi ritornare là dove aveva commesso il delitto e dove forse avrebbe potuto lasciare una testimonianza. Fu intercettato dalle sentinelle poste a guardia degli ingressi ai diversi settori in cui era stato suddiviso l’abitato. Fu resettato e portato al Centro di Rieducazione. Il vecchio fu arrestato mentre vagava senza una meta, sbattendo di qua e di là quel povero corpo avvilito e rassegnato. Venne internato in una casa di riposo, una di quelle costruite appositamente per traghettare le persone alla morte. Sul frontone dell’edificio vi era scritto: “Albergo per anziani – in memoria di tutte le vittime delle atrocità compiute contro L’UMANITÀ ”.

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Aprì lentamente le palpebre. Non vedeva bene e non riusciva a muoversi. Era disteso in modo scomposto, come se fosse inciampato. Mentre il cielo lasciava trapelare una luce fioca, quasi impercettibile, gli sovvennero alcuni versi: “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque […] a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.” Volti sfocati gli apparivano ad intermittenza. Si sovrapponevano, si scontravano senza pace, anime in pena perse in un fiume sotto la tempesta. All’orizzonte apparve una diafana palla infuocata. Era disorientato, non riconosceva il suolo su cui era adagiato. Un sasso, due, tre e altri ancora rotolarono tintinnando: un rumore metallico colpì i suoi sensori. Cosa aveva prodotto un suono tanto aspro? Dopo qualche secondo, irruppero lamenti affannosi e tristi e un pianto sommesso in lontananza. Forse era la sua immaginazione, spaventata dalla bianca e tenue luce di un Sole fiacco e lento, che dava l’impressione di essersi svegliato solo per guardarlo con sarcasmo e ironia.

Al tramonto le tenebre, simili ad un velo opaco, avvolsero il grigiore dei suoi occhi. Quanto sarebbe durata la notte? Aveva importanza? Perché si arrovellava con questo dilemma? Non poteva aspettare: notte o giorno che fosse. Gli sembrava di impazzire: il suo corpo non rispondeva agli impulsi neurali, era paralizzato, inerme. Si concentrò prima di tutto sulle mani. Dopo mille tentativi, finalmente un dito si alzò e si allungò sulla superficie, un altro lo seguì, poi un altro ancora. Erano spostamenti lievi, ma decisi, finché, con uno scatto repentino, fece una piroetta e si sorprese a scrutare il paesaggio quasi informe che aveva di fronte. Cominciò a perlustrare il territorio. I passi attenti serpeggiavano con cautela su una terra rossastra e monotona. Ad un tratto comparvero alcune impronte qua e là. Qualcuno evidentemente lo aveva preceduto. Si sentì a disagio, perso, confuso. Aveva bisogno di ricomporre la sua identità, senza la quale non avrebbe potuto interpretare e rielaborare la sua situazione. Si toccò il volto, si esaminò con cura per definire la sua forma: era umanoide, ma non era di carne ed ossa. Queste erano le uniche informazioni in suo possesso. Inquieto e avvilito, riprese il cammino. Nel suo incedere verso l’ignoto, scorse verso oriente altre orme e distinse chiaramente dei rottami verdi sagomati in modo bizzarro: erano piccoli brandelli di titanio persi nel vuoto. Ai primi bagliori mattutini, il panorama cominciò ad essere meno piatto ed indecifrabile. Accanto a colline, crateri e strade ben tracciate, si mostrarono, imponenti cupole trasparenti, un’enorme piastra di metallo e un prisma regolare, contrassegnato dal termine BLOCCO e dalla prima lettera dell’alfabeto. Si sedette su un masso che la natura aveva ben modellato, l’aurora si stagliava tra le costruzioni, sarebbe dovuto entrare in quella piccola base per un’ispezione, ma il suo istinto lo tratteneva lì dov’era. Il cervello… il cervello intanto aveva ricominciato a mandargli dei segnali apparentemente incomprensibili. Assomigliavano ad un insieme disordinato di ologrammi che correvano e si incrociavano in attesa di essere ricomposti da un regista: un fabbricato di mattoni e cemento, un grande parco, una piscina e degli esseri umani. Tanti particolari iniziarono piano piano a riaffiorare. Non era solo suggestione: era vissuto da un’altra parte. Cominciava ad essergli chiaro che non si trovava dove sarebbe dovuto essere. Le ore trascorrevano veloci. Lui era ancora su quella pietra a meditare, mentre le stelle giocavano a confonderlo. Avrebbe dovuto varcare la soglia di quegli edifici, continuare ad indugiare non gli avrebbe giovato, ormai se ne rendeva conto.

Spalancò con forza il portone del BLOCCO A: buio pesto. Sporse in avanti il busto, una pioggia di fotoni lo aggredì. Era in un cimitero, là erano ammassati i resti di un numero indefinibile di androidi. Nello sgomento riemersero, all’improvviso, la sua vita e la sua morte. Era stato acquistato da una coppia di Zurigo. “Benvenuto PQ20” – gli disse il signor Meyer – “I tuoi compiti sono semplici: dovrai occuparti del giardino, tenere in ordine, cucinare, insomma avrai la gestione della nostra residenza. L’unico ruolo impegnativo che io e mia moglie ti affidiamo è quello di leggere a voce alta per noi e, nelle serate di gala, per i nostri amici i libri che lei ti indicherà.” La signora Meyer era una donna di rara bellezza, la pelle vellutata e chiara risaltava sotto gli abiti sgargianti che amava indossare. Aveva un gusto molto raffinato in campo letterario e una dose notevole di nostalgia per i sentimenti che si rifugiavano in quei testi dimenticati, ma preziosi. Aveva perciò cominciato a raccogliere le opere degli autori più famosi di tutti i tempi. La sua collezione comprendeva pezzi di antiquariato di grande valore. Non era stata un’impresa facile. Le case editrici non pubblicavano da almeno tre secoli carta stampata, preferivano digitalizzare i pochi scritti in circolazione. Dovette, quindi, girare tra le botteghe più remote per realizzare il suo sogno. Il marito, il signor Meyer, la sosteneva in questa sua passione, ma non ne capiva le finalità e non provava nessun piacere ad ascoltare tutte quelle noiose parole messe in fila. Si adattava ai desideri della moglie, ai suoi bisogni spirituali. Era un ingegnere in quantistica multidimensionale, per lui Poesia erano le discussioni con i colleghi sulla possibilità di oltrepassare i confini della Via Lattea, grazie ai nuovi motori molecolari, o il rombo di una navetta spaziale lanciata a scandagliare l’Universo. Non avendo imparato a leggere con la giusta intonazione interpretativa e tanto meno a recitare – abilità considerata obsoleta ed inutile da parecchi anni – la signora Meyer volle qualcuno che lo facesse per lei. All’Agenzia le avevano assicurato che PQ20, era all’avanguardia e avrebbe assolto degnamente questa funzione. Faceva parte di una nuova generazione di androidi ed era stato ideato, oltre che per svolgere le normali attività, anche per interagire con gli esseri umani come se fosse uno di loro. Entrò così nella casa dei signori Meyer. PQ20 in breve tempo rivelò tutte le sue qualità. La signora Meyer pretendeva di portarlo con sé dovunque andasse. Con lui avrebbe voluto condividere il suo amore per l’arte. Questa aspirazione implicava una competenza non prevista nelle specifiche di progettazione di PQ20, il quale, tuttavia, fiducioso e affascinato da quel mondo, confidava sul fatto che la sua matrice cromosomica si sarebbe evoluta.

Faceva freddo, era febbraio inoltrato, quando si rivolse alla signora Meyer con una voce calda e affettuosa. “Ho notato che lei predilige gli autori che vanno a scavare negli avvenimenti più drammatici e aspri della storia e percorrono i sentieri più intimi ed impervi dell’Essere Umani.” “Siamo nel XXXIII secolo, il progresso scientifico, complice la nascita di un governo federale sovranazionale, ha risolto la maggior parte dei problemi che hanno angustiato gli uomini. Sotto un’unica guida l’economia è diventata meno competitiva e più solidale, anche l’ambiente ora è molto meno sfruttato ed inquinato. Si sono aperti i cancelli del Sistema Solare, abbiamo raggiunto tutti i pianeti e ne utilizziamo le risorse. Abbiamo anche delle colonie penali nello spazio. I detenuti scontano la loro pena su Mercurio sotto la direzione di androidi sentinelle.” Rispose la signora Meyer. “Io sono un’appassionata di vecchi cimeli – aggiunse – così li definisce mio marito che odia l’odore di inchiostro che si è impadronito del nostro salotto, ma apprezza il mio entusiasmo.” Dopo una pausa in cui la sua espressione assunse un’aria seria, riprese: “Mi rendo conto di non aver soddisfatto la tua curiosità. Non so esattamente quale sia la ragione che mi spinge alla ricerca di quei contenuti. Certo è che mi aiutano ad analizzare meglio tutte le sfumature del mio io e della mia umanità.” “Per fare questo non servono grandi speculazioni: siete il nostro specchio, voi dovreste rappresentarvi esattamente come noi pensiamo voi siate. Ci avete fornito di una sensibilità uguale alla vostra. Solo che voi siete esseri finiti, mortali. Per noi l’infinito non è un mito privo di fondamento e potremmo restare sulla Terra anche dopo la vostra scomparsa.” Osservò PQ20 “E’ proprio la vostra coscienza dell’esistente a rendermi cupa: in essa colgo con timore i segni della decadenza. Per non smarrirmi mi immergo nel dolce naufragio dell’arte. Approdo nell’unico porto sicuro dai dubbi che mi assalgono sul divenire che trascinerà nell’oblio me e la mia biblioteca.” Mormorò con voce roca e accorata la signora Meyer. Lo sguardo interrogativo e fiero di PQ20 la spinse a precisare. “In ogni frammento di esistenza, la mia per esempio, vi è l’infinito cosmico. Lo sento in ogni singola composizione che mi leggi.” Stagione dopo stagione, quella strana coppia divenne una celebrità. Molti cercavano di assistere agli spettacoli che ogni settimana venivano organizzati dai signori Meyer. PQ20 declamava sonetti, terzine, quartine, interpretava romanzi, opere teatrali. Champagne e bordeaux, scorrevano a fiumi. Non mancavano gli invidiosi, quelli che non erano abbastanza agiati per permettersi un androide avanzato paragonabile a PQ20, ma erano comunque accolti con un sorriso sincero. Persino il Presidente della Federazione partecipò ad un incontro, ad uno di quegli eventi fuori dal tempo.

Il 4 marzo 3275 dalla Terra allo spazio si diffuse una notizia sconcertante che, in un primo momento, nessuno prese sul serio. Fu ritenuta falsa, l’invenzione di qualche scriteriato per suscitare clamore, opera di un novello creativo Orson Welles. Invece no, i signori Meyer erano stati assassinati, qualcuno li aveva uccisi nel sonno. Le forze dell’ordine, chiamate da PQ20, accorsero immediatamente. I signori Meyer erano nella loro stanza da letto, sotto un lenzuolo variopinto comprato durante un viaggio in Tibet. Fu prima di tutto utilizzato il bio-scanner per stabilire l’ora del decesso, dopo di che venne impiegato un rilevatore dinamico trifasico per rintracciare DNA o altri materiali che potessero dare una svolta al lavoro degli investigatori. Si indagò in ogni direzione cercando di formulare un’ipotesi da cui partire per risolvere il mistero di quell’omicidio. Furono interrogati i vicini, poi uno ad uno gli ospiti che accorrevano a frotte nella prestigiosa dimora e chiunque avesse in qualche modo conosciuto i signori Meyer: tutti avevano un alibi. PQ20 non si era mosso dal suo cantuccio. Stava in disparte con un libro in mano, l’indice tra due pagine, con gli occhi sbarrati verso il muro intonacato di rosso papavero, pareva inebetito dal colpo letale di un Phaser: stupore e ansia si erano trasformati in un insolito opprimente tormento. Nessuno seppe cogliere l’orrore in cui era precipitato il silente androide. Le guardie gli esaminarono la memoria quantica per trarre dati testimoniali e indizi. Paradossalmente la più sofisticata strumentazione non riuscì a scuotere le sue sinapsi. PQ20 rimase muto ad ogni sollecitazione. Non si era accorto di nulla e, quindi, che cosa avrebbe potuto riferire? Né più e né meno di quanto era già stato dichiarato da decine e decine di persone. I sensi di colpa per non aver percepito il pericolo lo divoravano, gli impedivano di aprire bocca e di esprimere il suo sentire: il rancore verso un avvenimento che lo feriva, che gli aveva strappato a tradimento la sua famiglia e che contrastava con tutto quello che aveva assimilato grazie alla signora Meyer. L’apatia e l’indifferenza apparente di PQ20 alimentarono i sospetti; preso atto della sua totale reticenza, fu bloccato brutalmente e senza tanti scrupoli. In fondo era solo un oggetto e, non avendo altre piste da seguire, gli inquirenti giunsero, senza la minima esitazione, alla conclusione dell’istruttoria: un difetto di fabbricazione o un uso improprio da parte dei Meyer, lo avevano spinto alla violenza, nonostante il brevetto escludesse a priori queste eventualità. La sentenza fu presto emessa e la condanna fu esemplare. I tecnici dell’azienda che lo avevano costruito lo disattivarono, o almeno erano convinti di averlo fatto. Lo trasportarono su Marte dove vi era un deposito di androidi dismessi, che avrebbe dovuto fornire parti di ricambio per i vecchi robot, inviati su Plutone con il compito di creare le condizioni per l’esplorazione del Sistema Planetario della Stella Kepler-62. In realtà quasi mai era stata usata la spazzatura disponibile sul Pianeta Rosso. Era, tuttavia, una riserva che tutti giudicavano necessaria. La discarica trovava una giustificazione più etica che economica: il riciclo. Raramente qualche astronave era atterrata per fare rifornimento. PQ20 era stato trasformato in uno di quei rottami inutili, solo che lui era perfettamente in grado di riflettere sul suo destino. L’onda temporale lo aveva inghiottito per l’eternità. Alimentato a risonanza oscura, aveva una riserva di energia inesauribile da spendere tra le carcasse dei suoi simili, ai quali, con voce commossa, rammentando una lettera dal carcere di Martin Luther King, avrebbe incessantemente cantato il proprio elogio funebre : “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque.”

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Giulia aveva attraversato la vita senza prendere un attimo di respiro. Era una donna in carriera e ciò la rendeva orgogliosa. Dal fango in cui era stata costretta a vivere da occhi crudeli, che l’avevano privata della sua infanzia e della sua adolescenza, era balzata in uno degli isolati più alla moda e dal quinto piano del suo appartamento ammirava l’andirivieni di cappotti e soprabiti eleganti, talvolta sfarzosi. Eppure quando girava le spalle al mondo, la polvere del passato riemergeva prepotente, la frustava facendole provare l’incanto perverso della finzione e dell’autodistruzione emotiva. Macinava dentro di sé rancore e angoscia. Doveva costantemente difendersi da se stessa, dal suo brutale farsi del male. Aveva un’amica, Sonia, con la quale riusciva a condividere le sue emozioni. Si vedevano regolarmente il giovedì all’imbrunire per un aperitivo. Il locale offriva svaghi intriganti per un pubblico sempre più esigente. Raramente si erano avventurate nei meandri di quei rocamboleschi quanto effimeri piaceri: la sala dei viaggi era attrezzata in modo da offrire evasioni erotiche e salti in altre dimensioni; quella delle spezie era un tunnel in cui sperimentare diverse tipologie di sostanze per mettersi in comunicazione con il subconscio proprio o con quello di altre persone, se queste avessero manifestato un chiaro consenso. Giulia non era mai in ritardo e aspettava con ansia Sonia, il suo volto bianco, i suoi occhi stanchi, le sue mani piccole e macchiate. Le loro conversazioni avevano il sapore aspro di una medicina acida da inghiottire. “Come stai Giulia?” Era la domanda di rito. “Come sempre, forse peggio di sempre.” “Gettare la spugna non è una soluzione”. “Cerco affannosamente una via di fuga dai miei pensieri. Vorrei sprofondare nel nulla. Il sonno è tormentato da incubi in cui mi sforzo di divincolarmi da una corda che diventa sempre più stretta fino a segnare profondamente il mio corpo. Mi sveglio all’improvviso immaginando che nel cuore delle tenebre entri qualcuno con l’intenzione di uccidermi. Poi riprendo a dormire tranquilla, nella consapevolezza che non ha per me molta importanza questo mio esistere”. “Queste sono sciocchezze. Pensa al vuoto che lasceresti”. “Per favore, cambiamo discorso”. Giulia cambiava sempre discorso se le sembrava di non tenere testa all’interlocutore. Era una sua abitudine.

Si accomiatarono con un abbraccio. Giulia non si recò subito a casa, il fiume l’attendeva. Ogni volta che si avvicinava ad un ponte sentiva l’estasi della dissoluzione. Faceva freddo, una brezzolina fastidiosa le colpiva il volto come una sferzata. Si sedette sul parapetto. La luce della Luna ed il fascino seducente del fruscio dell’acqua la facevano stare bene, le davano la quiete del soldato che ha sconfitto il nemico. Ma il nemico era in agguato, sempre pronto a sorprenderla. L’aspettava dietro gli angoli dei palazzi, dentro il fumo di una sigaretta, nel profumo più sofisticato che amava spruzzare sulla sua pelle. Così, di tanto in tanto, scappava imboccando la strada della trasgressione, sfidando le regole che imponevano la netta separazione di genere. Indossava gli abiti di uno dei personaggi dei tanti libri che aveva letto, girava per la città fino a raggiungere il quartiere in cui risiedevano gli androidi al servizio delle multinazionali e dove aveva incrociato PQ70 che l’aveva notata mentre vagava senza meta. Si era presentato a lei con una gentilezza tale da far invidia a quelli che si definivano uomini. Insieme si divertivano a visitare i vecchi sepolcri, le tombe avevano un fascino particolare. Dopo l’ultima esplosione nucleare gran parte del pianeta era stato devastato dai contraccolpi di una gestione poco attenta del territorio e delle risorse. I morti furono sistematicamente gettati in fosse comuni, quasi a voler cancellare l’ecatombe dalla memoria collettiva. I cimiteri erano stati dichiarati patrimonio dell’Umanità. Mano nella mano, PQ70 la conduceva tra le lapidi inventando per ogni sepoltura una vita diversa. Sapeva parlare la lingua dei morti. Era un abile narratore. “Mi sto innamorando di te”. Le disse con voce sospirante quella sera “Il nostro legame non può andare oltre l’amicizia più sincera”. Rispose cordialmente Giulia, seppur lusingata dall’audacia e dalla sensuale passione con cui l’aveva inaspettatamente travolta. Si congedarono con un breve ma intenso saluto, quasi fosse un addio. PQ70 rientrò alla base, era confuso: che cosa gli stava accadendo? Sapeva di essere stato progettato per servire con abnegazione la sua azienda, invece, nonostante i divieti, gironzolava con una donna senza alcun ritegno. Svolgeva le sue mansioni all’interno dell’area D. Gli era stato assegnato il compito di potenziare la banca dati con informazioni accurate sul mondo circostante, sulle manie, sui vizi e sulle virtù degli esseri umani. “Profilare” era la parola d’ordine, in base al profilo di ognuno si poteva orientare la produzione che, a sua volta, abilmente propagandata avrebbe influenzato ed indirizzato i consumi. Il meccanismo aveva una sua logica, maggiore era il numero di informazioni disponibili, tanto più elevata era la probabilità di successo. PQ70 era stimato dai dirigenti tanto che lo portavano ad esempio per gli altri. “Cosa mi è venuto in mente di dire che sono attratto da lei, le mie connessioni neurali sono in fibrillazione, meglio non far trapelare quello che mi sta succedendo”. Alle sue spalle il capo reparto lo stava osservando. “Che cosa hai?” “Nulla, penso di aver poca energia da spendere”. “Questo non è possibile. Vai in infermeria e chiedi dell’ingegnere. Qui abbiamo bisogno di personale efficiente e fidato. La concorrenza è spietata. C’è più di qualcuno che ucciderebbe per avere la nostra banca dati”. “Sì, lo so, è una merce preziosa quella che trattiamo”. Abbandonò la console e si avviò. L’ingegnere lo analizzò con il tricorder. “Sei in forma perfetta. Perché ti hanno mandato qui?” PQ70 borbottò qualcosa di simile a delle scuse e se ne andò. Non aveva mai prestato attenzione all’enorme specchio che si trovava nel corridoio. Fissò a lungo la sua immagine e provò vergogna. Giulia non lo avrebbe mai preso in considerazione. Un suono tonante rimbombò: “Allora vuoi ritornare al tuo posto?” Quando riprese posizione e ricominciò ad elaborare il flusso di date, cifre, immagini in un turbinio continuo e veloce, fu colto da una idea malsana: rovistare nel database per conoscerla meglio. Poteva farlo, aveva l’accesso a tutti i repository e aveva tutti i permessi per decifrare i messaggi crittografati. Aspettò il momento giusto e si lanciò nella ricerca. Il tempo si era dilatato, il giorno non aveva più confini, la notte era solo il buio di una stanza vuota. Gli apparvero le foto che la ritraevano da sola o con le persone che aveva frequentato o semplicemente sfiorato, i viaggi che aveva fatto, i ristoranti in cui si era recata, persino la sua cartella clinica. Al calar del Sole uscì e girovagò nella speranza di incontrarla finché Giulia si mostrò in tutta la sua bellezza. La baciò con ardore. “PQ70 cosa fai ?” Disse Giulia con un tono quasi rabbioso. “Non guardarmi come se fossi un estraneo. Non faccio che pensare a te. Tu mi hai ammaliato e non riesco a trovare pace”. “Facciamo due passi”. Lui la seguì verso il campo santo in cui erano soliti passare qualche ora. Era stranamente silenzioso, si sentiva in colpa per aver violato il suo diritto alla riservatezza. “Perché sei così triste?” “Ho commesso un reato gravissimo: ho frugato nella tua identità digitale”. La luce artificiale li abbagliava. Lei esitò per un attimo, poi urlò a squarciagola: “Vattene, io non posso immaginare infamia peggiore…”. La pregò in ginocchio, ma Giulia non volle sentire ragioni, per l’ennesima volta era stata tradita, umiliata, tutte le sue fragilità emersero aggressive, aveva il viso sfigurato dal livore. “Io ti amo, l’ho fatto solo per capire chi sei e per poter assecondare i tuoi desideri”. Mentre pronunciava con tenerezza e commozione quelle parole, lei scomparve. PQ70, dopo qualche minuto, intravvide in lontananza una sagoma indefinita che vacillava sopra la rossa balaustra del ponte del Diavolo. Fu sufficiente il post di uno scaltro passante, avido di novità, a richiamare uno sciame ben equipaggiato di sofisticate armi per filmare la scena. Nessuno cercò di fermarla. Lo spettacolo era molto allettante e, soprattutto, di valore: chissà quanti l’avrebbero visto con un click.

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