Scienza360

Quali sono le priorità per affrontare la crisi climatica? L’innalzamento della temperatura terrestre è riscontrabile anche nelle zone più fredde del pianeta, basti pensare che in Groenlandia è caduta la pioggia, fenomeno mai sperimentato nel passato. In questo territorio gli scienziati possono andare “indietro nel tempo” e, attraverso le analisi dei carotaggi prelevati nelle profondità dei ghiacci, possono ricostruire l’andamento delle temperature dell’area durante l’ultimo millennio.

[Modern temperatures in central–north Greenland warmest in past millennium | Nature]

Da questi studi si ricava che nel decennio 2001-2011 la Groenlandia era già 1.5 C più calda rispetto alla media del 20-esimo secolo, raggiungendo quindi la soglia di incremento della temperatura definita dagli accordi di Parigi, dove i paesi firmatari si impegnavano a contenere il riscaldamento globale entro 2 C dai livelli preindustriali, e possibilmente entro 1,5 C. Lo scioglimento di masse enormi di ghiaccio deriva da questo aumento di temperatura, con tutte le conseguenze globali che ne derivano.

Le regioni prossime ai poli sono quindi indicatori della situazione complessiva della terra. Luoghi cioè dove misurare la febbre del pianeta.

Mentre tutte le nazioni cercano, più o meno convintamente, di attuare gli accordi presi durante le varie conferenze sul clima (posto che queste misure si rivelino efficaci), in Italia siamo molto preoccupati per gli attivisti di “Ultima generazione”. Le loro azioni hanno fatto talmente arrabbiare cittadini e amministratori, che il governo ha inasprito le pene per chi imbratta le opere d’arte.

Come sempre è una questione di priorità. Si punta maggiormente l’attenzione sulla salvaguardia delle opere d’arte messe in pericolo dalla vernice, non perché sia la cosa più urgente da affrontare, ma perché è realizzabile con poco sforzo. Invece, tenere fede agli impegni di Kioto, Parigi, Glasgow, ecc. è decisamente più complicato.

È un atteggiamento che mi ricorda la barzelletta del tizio che cercava il suo orologio nei pressi di un lampione, non perché lo avesse smarrito lì, ma perché in quel luogo c’era un po’ di luce.

Non salveremo il mondo ma almeno i monumenti rimarranno puliti.

La finanza è una “scienza esatta”? Nemmeno lontanamente! Anche se vanta l’utilizzo di metodi statistici e matematici, anche se si avvale di analisti che si atteggiano ad oracoli infallibili, la finanza non è una scienza esatta. Non è neppure una scienza sperimentale, dal momento che i modelli utilizzati (ahimè) falliscono e sono proprio gli strumenti creati da un “mercato” lasciato libero di agire che si rivelano tossici per il mercato stesso.

Viene anche da chiedersi che cosa valutino le agenzie di rating per formulare il loro giudizio sull’affidabilità delle imprese finanziarie. Anche nel caso recente della Silicon Valley Bank, l’istituto godeva di ottime valutazioni fino ad un’istante prima del fallimento. La stessa cosa capitò anche ai tempi della bolla finanziaria legata ai mutui subprime, quando Lehman Brothers aveva ottimi voti fino a pochi giorni prima del fallimento.

La finanza non è affidabile e non si possono certo incolpare gli “algoritmi” se nessuno li controlla e se non vengono gestiti nell’interesse dei risparmiatori. Oppure, si dovrebbe ammettere che gli algoritmi funzionano, ma solo per arricchire alcuni (pochi) a scapito di altri (molti). Per esempio, i media riferiscono che il presidente e amministratore delegato della Silicon Valley Bank ha venduto più di 3 milioni di dollari di azioni della stessa banca poche settimane prima del fallimento.

Queste vicende dovrebbero far riflettere i governi, che sempre di più si fanno guidare dalle grosse compagini finanziarie e dalle banche centrali, le quali orientano le decisioni, regolano gli investimenti e spingono verso politiche di austerity.

Il rigore finanziario è ben presente quando si tratta di spese in ambito sociale e pubblico ma quando scoppia una crisi bancaria si può ricorrere senza remore alle risorse pubbliche.

Si tratta di un’asimmetria che dovrebbe essere contestata, accorgendosi ed esclamando che il “re è nudo”.

Le auto a motore termico verranno messe al bando in Europa a partire dal primo gennaio 2030. Il passaggio ad auto elettriche comporterà certamente enormi cambiamenti nelle infrastrutture di strade e autostrade così come metterà in crisi gli approvvigionamenti di batterie dei materiali per costruirle (il Litio in primis). Sarà quindi una vera e propria rivoluzione e, ovviamente quando si tratta di rivoluzioni, gli esiti non possono essere completamente prevedibili. Sarà importante anche rivedere il nostro modo di organizzare la mobilità delle persone, una mobilità che si basa ancora molto sul possesso di auto private, particolarmente dove i trasporti pubblici sono deficitari. Così come, sarà necessario fermare la produzione di veri e propri “mostri” quali il nuovo Hummer elettrico il cui peso supera i 4000 kg, 1300 dei quali solo per le batterie. Senza queste condizioni al contorno non ci saranno auto elettriche per tutti.

Come cambierà il consumo di energia con l’evolversi della temperatura della Terra?

Gli scienziati del clima sottolineano da anni i pericoli connessi all’aumento delle temperature sul nostro pianeta. Personalmente ritengo attendibili i modelli previsionali che vengono utilizzati e considero gli eventi climatici estremi come la triste riprova sperimentale che gli scenari ipotizzati sono reali.

Ovviamente, sarebbe auspicabile che i governi dei paesi maggiormente responsabili del riscaldamento globale attuassero i cambiamenti necessari per rispettare gli accordi internazionali sul clima e sperare che gli obiettivi fissati siano adeguati a contenere la situazione.

Ho però il grosso timore che si vada esattamente nella direzione opposta!

Il monitoraggio delle temperature in vari paesi riporta già che alcune città hanno sperimentato temperature estreme per un significativo numero di giorni all’anno: nella capitale del Niger, Niamey, si è superata la soglia dei 100 gradi Fahrenheit (38 gradi Celsius) per 174 giorni in un anno. La città di Basra, in Iraq, ha superato la stessa soglia per 168 giorni e Bombay per 62 giorni. In queste condizioni il ricorso all’aria condizionata diventa una pura questione di sopravvivenza. Infatti, gli studi dell’Agenzia Internazionale dell’Energia prevedono che nel mondo verranno installati altri quattro miliardi di unità per aria condizionata, in particolare in paesi con economie in crescita quali l’India e l’Indonesia, paesi soggetti negli ultimi anni a severe ondate di caldo.

https://www.scientificamerican.com/article/air-conditioning-should-be-a-human-right-in-the-climate-crisis/

Uno scenario nei prossimi anni potrebbe quindi esssere: temperature che aumentano in tutto il mondo, aumenta il ricorso a sistemi di raffreddamento dell’aria (oltre ad avere migrazioni di massa ed altri fenomeni sociali), aumenta la richiesta di energia, alla quale si cercherà di rispondere aumentando la produzione di energia (da fonti non rinnovabili ?!?) creando così un perfetto (e drammatico) corto circuito. Come interromperlo?

E’ importante considerare che le regioni tropicali si presterebbero bene all’installazione di impianti solari per rispondere ai picchi di richiesta energetica proprio nelle ore più calde, cioè disporre di più energia (pulita) proprio quando ne serve maggiormente. I governi dovrebbero aiutare questa transizione, supportandola con investimenti rivolti sia alla produzione di energia rinnovabile che all’efficientamento degli edifici e degli impianti stessi. Investimenti ampiamente giustificati da un futuro altrimenti molto critico.

E’ vero che la produzione di energia dal sole risenta delle stagioni e pone il problema di come fare durante l’inverno. Lo studio https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1704339114 ha preso in esame l’evoluzione dei consumi in vari paesi, considerando le giornate di massima richiesta. Si evidenzia che anche i paesi più freschi, quali quelli del nord Europa, oltre ad avere un consumo energetico importante durante l’inverno, sono indirizzati verso un ricorso sempre più intenso a sistemi di condizionamento durante l'estate. Una necessità che non si era mai manifestata nelle decadi scorse.

Come, e dove, trovare questa energia? Un importante filone per uno sviluppo sostenibile riguarda i sistemi di stoccaggio dell’energia prodotta in eccesso ma, ulteriormente, una rete elettrica sempre più internazionale potrebbe utilizzare gli eccessi di produzione energetica di un paese verso paesi che ne hanno bisogno, sfruttando l’alternanza di giorno/notte nonchè le diverse stagionalità tra l’emisfero boreale e quello australe.

Un esempio di ciò è il progetto Atipodas, presentato durante il vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) del 2021 dal Presidente cileno Sebastián Piñera. L’idea è quella di esportare in Asia l’energia solare prodotta in Cile utilizzando una rete di cavi sottomarini. Energia pulita prodotta durante il giorno il cui eccesso rispetto ai consumi locali può contribuire a soddisfare la domanda di elettricità notturna dall’altra parte della Terra.

Le emergenze in corso devono spingerci a ragionare sempre di più in termini di una unica comunità energetica, composta da tutti gli abitanti del pianeta Terra (includendo ogni forma di vita) e condividendo le risorse naturali rinnovabili che possono variare sia in termini di richiesta che di produzione.

Come cambierà il consumo di energia con l’evolversi della temperatura della Terra?

Gli scienziati del clima sottolineano da anni i pericoli connessi all’aumento delle temperature sul nostro pianeta. Personalmente ritengo attendibili i modelli previsionali che vengono utilizzati e considero gli eventi climatici estremi come la triste riprova sperimentale che gli scenari ipotizzati sono reali.

Ovviamente, sarebbe auspicabile che i governi dei paesi maggiormente responsabili del riscaldamento globale attuassero i cambiamenti necessari per rispettare gli accordi internazionali sul clima e sperare che gli obiettivi fissati siano adeguati a contenere la situazione.

Ho però il grosso timore che si vada esattamente nella direzione opposta!

Il monitoraggio delle temperature in vari paesi riporta già che alcune città hanno sperimentato temperature estreme per un significativo numero di giorni all’anno: nella capitale del Niger, Niamey, si è superata la soglia dei 100 gradi Fahrenheit (38 gradi Celsius) per 174 giorni in un anno. La città di Basra, in Iraq, ha superato la stessa soglia per 168 giorni e Bombay per 62 giorni. In queste condizioni il ricorso all’aria condizionata diventa una pura questione di sopravvivenza. Infatti, gli studi dell’Agenzia Internazionale dell’Energia prevedono che nel mondo verranno installati altri quattro miliardi di unità per aria condizionata, in particolare in paesi con economie in crescita quali l’India e l’Indonesia, paesi soggetti negli ultimi anni a severe ondate di caldo.

https://www.scientificamerican.com/article/air-conditioning-should-be-a-human-right-in-the-climate-crisis/

Uno scenario nei prossimi anni potrebbe quindi esssere: temperature che aumentano in tutto il mondo, aumenta il ricorso a sistemi di raffreddamento dell’aria (oltre ad avere migrazioni di massa ed altri fenomeni sociali), aumenta la richiesta di energia, alla quale si cercherà di rispondere aumentando la produzione di energia (da fonti non rinnovabili ?!?) creando così un perfetto (e drammatico) corto circuito. Come interromperlo?

E’ importante considerare che le regioni tropicali si presterebbero bene all’installazione di impianti solari per rispondere ai picchi di richiesta energetica proprio nelle ore più calde, cioè disporre di più energia (pulita) proprio quando ne serve maggiormente. I governi dovrebbero aiutare questa transizione, supportandola con investimenti rivolti sia alla produzione di energia rinnovabile che all’efficientamento degli edifici e degli impianti stessi. Investimenti ampiamente giustificati da un futuro altrimenti molto critico.

E’ vero che la produzione di energia dal sole risenta delle stagioni e pone il problema di come fare durante l’inverno. Lo studio xxx ha preso in esame l’evoluzione dei consumi in vari paesi, considerando le giornate di massima richiesta. Si evidenzia che anche i paesi più freschi, quali quelli del nord Europa, oltre ad avere un consumo energetico importante durante l’inverno, sono indirizzati verso un ricorso sempre più intenso a sistemi di condizionamento durante l'estate. Una necessità che non si era mai manifestata nelle decadi scorse.

Come, e dove, trovare questa energia? Un importante filone per uno sviluppo sostenibile riguarda i sistemi di stoccaggio dell’energia prodotta in eccesso ma, ulteriormente, una rete elettrica sempre più internazionale potrebbe utilizzare gli eccessi di produzione energetica di un paese verso paesi che ne hanno bisogno, sfruttando l’alternanza di giorno/notte nonchè le diverse stagionalità tra l’emisfero boreale e quello australe.

Un esempio di ciò è il progetto Atipodas, presentato durante il vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) del 2021 dal Presidente cileno Sebastián Piñera. L’idea è quella di esportare in Asia l’energia solare prodotta in Cile utilizzando una rete di cavi sottomarini. Energia pulita prodotta durante il giorno il cui eccesso rispetto ai consumi locali può contribuire a soddisfare la domanda di elettricità notturna dall’altra parte della Terra.

Le emergenze in corso devono spingerci a ragionare sempre di più in termini di una unica comunità energetica, composta da tutti gli abitanti del pianeta Terra (includendo ogni forma di vita) e condividendo le risorse naturali rinnovabili che possono variare sia in termini di richiesta che di produzione.

Nucleare di nuova generazione (con vecchi problemi). In questo momento storico la questione dell’approvvigionamento energetico è fortemente legata alla necessità di ottenere energia da fonti che non compromettano ulteriormente il riscaldamento globale e che garantiscano la sostenibilità ambientale. Nella realtà dei fatti, l’abbandono delle energie fossili unitamente a speculazioni finanziarie sugli asset energetici fanno temere gravi difficoltà nel soddisfare le richieste energetiche dei paesi più sviluppati e queste preoccupazioni hanno riportato l’energia nucleare al centro del dibattito politico italiano, dopo ben due referendum che l’avevano bandita.

Oggi il nucleare si (ri)presenta a livello internazionale come un contributo irrinunciabile per risolvere la questione energetica promettendo un basso impatto ambientale. Un nucleare basato su tecnologie di nuova generazione che non hanno nulla da spartire con quelle utilizzate negli impianti che provocarono i terribili incidenti del passato.

Alcune aziende sono al lavoro su una nuova generazione (la quarta) di reattori denominati SMR (Small Modular Reactors), la maggior parte dei quali usa fluidi di raffreddamento diversi dall’acqua. Il progetto è di realizzare reattori con potenze che variano da poche decine di megaWatt, rivolti ad esempio ai trasporti marini, fino a versioni da 200-300-500 megaWatt, capaci di alimentare le reti elettriche nazionali. Per fare un confronto: i sei reattori di Fukushima erano di grandezze diverse e producevano ciascuno dai 400 ai 1000 megaWatt e prima dell’incidente erano in progetto due ulteriori reattori per ulteriori 2800 megaWatt complessivi.

Le minori dimensioni dei reattori SMR dovrebbero consentire la standardizzazione del progetto e una riduzioni dei costi di realizzazione. Inoltre, aspetto cruciale, se malauguratamente dovesse capitare un incidente, le conseguenze sarebbero limitate. Il nuovo nucleare si presenta quindi come “piccolo” e “green” e trova risonanza internazionale in vari esponenti politici tra i quali il ministro italiano della transizione ecologica Roberto Cingolani.

Per approfondire: reattori di IV Generazione https://it.m.wikipedia.org/wiki/Reattore_nucleare_di_IV_generazione Ihttps://www.enea.it/it/centro-ricerche-brasimone/attivita-di-ricerca/divisione-di-ingegneria-sperimentale/i-reattori-di-iv-generazione http://www.associazioneitaliananucleare.it/dagli-small-modular-reactors-limpulso-al-futuro-del-nucleare/

I fautori del nucleare di nuova generazione non possono però ignorare le esigenze di sicurezza e sostenibilità; le domande sul tavolo rimangono le solite: quali rischi ci sono per le persone e l’ambiente? I costi compensano i benefici?

Sul fronte sicurezza va rilevato che, trattandosi di tecnologie nuove, l’esperienza è tutta da costruire. Ovviamente si tratta di un aspetto comune in ogni tipo di innovazione (nessuno nasce “imparato”) ma le criticità legate comunque all’utilizzo di materiale radioattivo devono far alzare il livello di attenzione. Inoltre, lo stoccaggio delle scorie, anche se in quantità limitate, rimane un aspetto da non trascurare.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, vi sono grosse incertezze sui costi reali, visto che i budget stimati potrebbero aumentare notevolmente proprio in ragione di tecnologie ancora da sperimentare. Se guardiamo alle attuali esperienze relative alla realizzazione dei reattori EPR (European Pressurized Reactor) di generazione III+ il problema dei costi si materializza in maniera eclatante. Viene spesso citato come esempio il caso del nuovo reattore in costruzione dal 2007 nella centrale nucleare di Flamanville (Francia). L’impianto sarebbe dovuto costare cinque miliardi di euro e concludersi nel 2014 e si è arrivati ad una spesa pari a diciannove miliardi e dovrebbe diventare operativo nel 2022 (altre fonti parlano di un budget che nel corso del tempo è schizzato da 3 a 12 miliardi ma rimane un fattore moltiplicativo di 4 volte). Nella stessa situazione si trovano impianti analoghi in costruzione in altri paesi (vedi impianto di Olkiluoto in Finlandia).

Per approfondire: Reattore EPR-centrale nucleare di Flamanville https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a33518976/reattore-nucleare-francia-flamanville/ https://www.neimagazine.com/news/newsasn-approves-edfs-proposed-remedy-for-flamanville-epr-nozzle-design-faults-9189566

La stima dei costi è un problema di difficile soluzione anche per la realizzazione di reattori SMR con valutazioni già molto variabili in partenza, senza quindi contare eventuali incrementi in corso d’opera. https://www.lescienze.it/news/2013/05/29/news/piccoli_reattori_modulari-1673078/ Banalmente, propongo un calcolo decisamente molto semplice. Una delle tante valutazione dei costi per gli SMR parla di un range tra 1 e 2 miliardi di euro per ottenere una potenza che alimenti tra 50 e 100 mila famiglie. Se questa ipotesi è vera si tratterebbe (nel caso migliore!) di un costo di 10.000 euro a famiglia, costo che equivale a quello di un impianto a pannelli solari di taglia famigliare. Con numeri difficili da pianificare e mantenere, con benefici così dubbi, vale veramente la pena di continuare sulla strada del nucleare?

Ho molte perplessità sull’opportunità e la fattibilità dei progetti del “nuovo nucleare“ e condivido tante delle critiche espresse su questo tema. https://www.qualenergia.it/articoli/perche-nuovo-nucleare-altra-arma-distrazione-dalle-rinnovabili/ Personalmente ritengo che l’approccio migliore alla questione energetica sarebbe quello di abbandonare definitivamente le tecnologie nucleari, cioè mettere uno stop sia alla progettazione che alla costruzione di nuovi impianti, senza nessun riguardo per quale sia la generazione che li identifica, e dedicare invece ogni risorsa economica e intellettuale ad altre tecnologie.

Sono consapevole che anche il ricorso massiccio alle energie rinnovabili presenti aspetti controversi. Il fotovoltaico, l’eolico, ecc, devono comunque fare i conti con la loro sostenibilità economica, con lo smaltimento dei materiali giunti a fine vita, con il consumo di suolo, ma ritengo sarebbe più sensato dirottare la ricerca scientifica per migliorare queste tecnologie, piuttosto che nutrire nostalgia per il nucleare. Mi riferisco, solo a titolo di esempio, ai pannelli fotoelettrici semitrasparenti che potrebbero essere usati al posto del vetro negli infissi oppure installati in aree agricole consentendo le coltivazioni sotto di loro. https://www.unimib.it/comunicati/fotovoltaico-integrato-negli-edifici-futuro-e-green

Va bene il “mix-energetico” ma guardiamo al futuro. Il nucleare è passato.

Ritengo che la storia dei “ragazzi di via Panisperna” sia unica al mondo. Riguarda un gruppo di giovani fisici italiani guidati da Enrico Fermi e diventati famosi con uno pseudonimo legato all'indirizzo, via Panisperna n. 90, presso il quale era ubicato l'istituto di Fisica dell'Università di Roma.

La loro è una storia di amici e di scienziati, di maestri e discepoli, di ricercatori particolarmente attivi, in un periodo costellato da scoperte basilari per la fisica dei decenni successivi. Fu grazie ai loro studi pionieristici sull'interazione tra neutroni e nuclei atomici che ottennero un posto di rilievo nell'elite mondiale della fisica del tempo, fatto ancora più eccezionale se si pensa che la scienza nel nostro paese ha sempre sofferto della carenza di investimenti e di considerazione politica e sociale.

I riconoscimenti per il loro lavoro non sono mancati. Enrico Fermi, fondatore e leader del gruppo, fu insignito del premio Nobel nel 1938 e lo stesso traguardo fu raggiunto da Emilio Segrè nel 1959. Anche altri componenti del team furono decisamente prolifici. Edoardo Amaldi fu tra i fondatori dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), del CERN di Ginevra e dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Franco Rasetti, braccio destro di Fermi e suo grande amico dagli anni dell'università, dopo gli anni romani cambiò completamente carriera accademica diventando uno stimato naturalista. Bruno Pontecorvo diede un contributo importantissimo nello studio dei neutrini e del decadimento del muone e, secondo alcuni, avrebbe meritato un premio Nobel. Il chimico Oscar D'Agostino lavorò al CNR, dove fondò l'istituto di radiochimica, e all'Istituto Superiore di Sanità. Il gruppo era poi completato da Ettore Majorana, una figura quasi leggendaria per genialità e mistero.

Questi giovani scienziati si dedicarono con passione alle loro ricerche, dovendo però intrecciare le loro vicende con gli eventi drammatici della storia, tra ventennio fascista, secondo conflitto mondiale e guerra fredda. Furono infatti le persecuzioni contro gli ebrei che spinsero Fermi (sposato con Laura Capon di famiglia ebraica) e Segrè a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove vennero coinvolti nel progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica.

Le storie di altri componenti il gruppo di via Panisperna sono storie di fughe. Anche Rasetti, profondamente antifascista e pacifista, lasciò l'Italia con destinazione America ma non partecipò mai a ricerche in ambito bellico preferendo dedicarsi alla botanica e alla paleontologia presso l'università canadese di Laval (Quebec). Majorana scomparve misteriosamente nel 1938, forse a seguito dei grandi turbamenti che gli procurava l'evoluzione della fisica in chiave bellica. Clamorosa fu poi la vicenda di Pontecorvo. Nel 1950 lo scienziato era impiegato presso l'Atomic Energy Research Establishment in Inghilterra e scomparve dopo una vacanza in Italia, per poi riapparire in Unione Sovietica. Una decisione volontaria, di carattere ideologico, decisione assunta in un periodo di forte contrapposizione tra est e ovest e con la fisica che giocava un ruolo primario per la supremazia in ambito militare.

Mentre durante la seconda guerra mondiale anche Albert Einstein esortò il governo americano perché finanziasse le ricerche per arrivare prima di Adolf Hitler ad ottenere ordigni nucleari, durante la guerra fredda, col rischio di una catastrofe nucleare imminente, gli scienziati di tutto il mondo furono messi di fronte a interrogativi morali sulle finalità della scienza. Più in generale si può affermare che la “big science” come la conosciamo oggi è nata proprio negli anni del dopoguerra, indirizzando la ricerca scientifica verso progetti con investimenti economici importanti e con la costituzione di gruppi di ricerca formati da centinaia se non migliaia di persone.

Le vicende dei ragazzi di via Panisperna si sono svolte tra scenari geopolitici drammatici, dubbi morali, ideologie contrapposte. Tutti temi che sembrano concentrarsi nella sceneggiatura di una moderna odissea in chiave scientifica che non avrà mai più eguali.

Ritengo che la storia dei “Ragazzi di via Panisperna” sia unica al mondo. Riguarda un gruppo di giovani fisici italiani guidati da Enrico Fermi e diventati famosi con uno pseudonimo legato all'indirizzo, via Panisperna n. 90, presso il quale era ubicato l'istituto di fisica dell'Università di Roma. 

La loro è una storia di amici e di scienziati, di maestri e discepoli, di ricercatori particolarmente attivi, in un periodo costellato da scoperte basilari per la fisica dei decenni successivi. Fu grazie ai loro studi pionieristici sull'interazione tra neutroni e nuclei atomici che ottennero un posto di rilievo nell'elite mondiale della fisica del tempo, fatto ancora più eccezionale se si pensa che la scienza nel nostro paese ha sempre sofferto della carenza di investimenti e di considerazione politica e sociale.

I riconoscimenti per il loro lavoro non sono mancati. Enrico Fermi, fondatore e leader del gruppo, fu insignito del premio Nobel nel 1938 e lo stesso traguardo fu raggiunto da Emilio Segrè nel 1959. Anche altri componenti del team furono decisamente prolifici. Edoardo Amaldi fu tra i fondatori dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), del CERN di Ginevra e dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Franco Rasetti, braccio destro di Fermi e suo grande amico dagli anni dell'università, dopo gli anni romani cambiò completamente carriera accademica diventando uno stimato naturalista. Bruno Pontecorvo diede un contributo importantissimo nello studio dei neutrini e del decadimento del muone e, secondo alcuni, avrebbe meritato un premio Nobel. Il chimico Oscar D'Agostino lavorò al CNR, dove fondò l'istituto di radiochimica, e all'Istituto Superiore di Sanità. Il gruppo era poi completato da Ettore Majorana, una figura quasi leggendaria per genialità e mistero.

Questi giovani scienziati si dedicarono con passione alle loro ricerche, dovendo però intrecciare le loro vicende con gli eventi drammatici della storia, tra ventennio fascista, secondo conflitto mondiale e guerra fredda. Furono infatti le persecuzioni contro gli ebrei che spinsero Fermi (sposato con Laura Capon di famiglia ebraica) e Segrè a rifugiarsi negli Stati Uniti, dove vennero coinvolti nel progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica. 

Le storie di altri componenti il gruppo di via Panisperna sono storie di fughe. Anche Rasetti, profondamente antifascista e pacifista, lasciò l'Italia con destinazione America ma non partecipò mai a ricerche in ambito bellico preferendo dedicarsi alla botanica e alla paleontologia presso l'università canadese di Laval (Quebec). Majorana scomparve misteriosamente nel 1938, forse a seguito dei grandi turbamenti che gli procurava l'evoluzione della fisica in chiave bellica. Clamorosa fu poi la vicenda di Pontecorvo. Nel 1950 lo scienziato era impiegato presso l'Atomic Energy Research Establishment in Inghilterra e scomparve dopo una vacanza in Italia, per poi riapparire in Unione Sovietica. Una decisione volontaria, di carattere ideologico, decisione assunta in un periodo di forte contrapposizione tra est e ovest e con la fisica che giocava un ruolo primario per la supremazia in ambito militare.

Mentre durante la seconda guerra mondiale anche Albert Einstein esortò il governo americano perché finanziasse le ricerche per arrivare prima di Adolf Hitler ad ottenere ordigni nucleari, durante la guerra fredda, col rischio di una catastrofe nucleare imminente, gli scienziati di tutto il mondo furono messi di fronte a interrogativi morali sulle finalità della scienza. Più in generale si può affermare che la “big science” come la conosciamo oggi è nata proprio negli anni del dopoguerra, indirizzando la ricerca scientifica verso progetti con investimenti economici importanti e con la costituzione di gruppi di ricerca formati da centinaia se non migliaia di persone.

Le vicende dei ragazzi di via Panisperna si sono svolte tra scenari geopolitici drammatici, dubbi morali, ideologie contrapposte. Tutti temi che sembrano concentrarsi nella sceneggiatura di una moderna odissea in chiave scientifica che non avrà mai più eguali.