Transit

Film

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“Anatomie d'une chute”, Francia, 2023.

(ADC)

Un premio come l’#Oscar ti apre moltissime strade. Piaccia o meno, è così. Per i film non americani vale di più. Anche questo è un argomento relativo. Personalmente, una delle difficoltà più evidenti e non poter vedere tutti i film inseriti nella competizione: intendo tutti, che sarebbe perfetto. I motivi li potete immaginare.

La passione arriva fino ad un certo punto e quel limite è, spesso, imposto. La cosa importante è, comunque, continuare ad amare il cinema. Lo slancio, a volte, ti porta davvero a guardare pellicole di una qualità ormai rara. Prendete “Anatomia di una caduta”, candidato al suddetto premio.

Sono sempre più convinto che quando ti “innamori” di un lungometraggio non c’è un genere, una regia, una piccola sega mentale che tenga: ti piace e basta, tanto c’è sempre chi ne farà una recensione edotta, zeppa di riferimenti cinematografici strabilianti, con un sacco di vocaboli azzeccati. E, magari, bella fredda.

Qui, di freddo, c’è solo l’ambientazione. Il resto è costruito su una narrazione a più livelli, di certo usata in migliaia di altre situazioni: eppure la capacità di scrittura di Arthur Harari e Justine Triet (anche regista) fa quello che a sempre meno sceneggiatori riesce. Scrivere bene. Scrivere un bel film, complesso, emozionale, profondo.

Il resto, magari con fortuna, è fatto dagli attori, dalle scelte di inquadratura, dalla -pochissima -ottima scelta- musica. E’ costruito dai dialoghi (su tutti quello della lite precedente all’evento, in Inglese) e da come gli stessi riportino ad una quotidianità che diventa straniamento ed introspezione, violenza e perdono.

(ADUC2)

Il diavolo sta nei dettagli e “Anatomia di una caduta” ne è colmo: dalle espressioni del viso di ogni personaggio, all’uso di più lingue -straniante ed efficace-, alle aule di un tribunale riprese quasi sempre con “non luogo”, più un confessionale che imparziali spazi dove si dovrebbe amministrare la giustizia.

E’ un film lungo, come amo io lento, ponderato. Fateci caso: nella vita ci sono accelerazioni e quiete, momenti di improvvisa passione e lunghe distrazioni. Ci sono coloro che non sappiamo collocare e coloro che, più da vicino, non riusciamo lo stesso a comprendere appieno. Buio e luce. Più il buio, forse.

Lo dico con grande serenità. Se “Anatomia di una caduta”, in una improbabile corsa a due con “Io capitano”, vincesse ne sarei lieto. E’ un’opera più completa, compatta, più convincente e tutto questo sapendo che il film italiano ha moltissimi meriti. Questo non è dettato solo dal fatto che mi sono emozionato maggiormente con questa pellicola, ma esclusivamente di validità artistica.

Per fortuna, la mia è solo una delle infinite opinioni. Conta come tale. Sarebbe un piccolo peccato, però, non prestare a attenzione al vincitore della “Palma d’oro”. Non per il fatto in sé, che è ampiamente secondario, ma per dire di aver visto un ottimo film, sotto tutti moltissimi punti di vista. Come amo ripetere -sic-, mica poco, nel 2024. (D.)

#CBS #Film #Opinioni #Blog

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(Maestro)

Bradley Cooper presenta Carey Mulligan in “Maestro”, il film biografico sul leggendario compositore e direttore d'orchestra americano Leonard Bernstein da lui diretto, co-scritto e interpretato, in una scena che sembra presa da Hitchcock. Il personaggio della Mulligan scende da un autobus in una strada di periferia, una silhouette aggraziata in un'inquadratura ampia finché il suo viso non emerge in primo piano, catturato da una lente morbida. È un momento intriso di bellezza e amore. La Mulligan interpreta Felicia Montealegre, la moglie di Bernstein per 27 anni e, per molti versi, “Maestro” è una lettera d'amore per lei, Il “Maestro” è, ovviamente, Bernstein, con i suoi straordinari successi come primo americano a dirigere la “New York Philharmonic”, la “London Symphony” e la “Berlin Philharmonic”, ma il titolo avrebbe potuto facilmente riferirsi a Felicia.

Era la padrona del suo cuore e della sua anima nella loro complessa relazione, segnata dalle sue continue relazioni con gli uomini. I due si incontrano quando Bernstein ha vent'anni e aveva appena debuttato alla “Carnegie Hall” : è un trionfo e la sua stella sorge rapidamente. Lenny, come viene soprannominato, e Felicia si incontrano a una festa e sono attratti l'uno dall'altro come le falene dalla fiamma. Il loro carisma si rivela irresistibile l'uno per l'altro e per il pubblico. Proprio come ha fatto in “A Star is Born”, con Lady Gaga, Cooper ha un talento prodigioso nel recitare al fianco di se stesso. Lui e Mulligan hanno una forte alchimia sullo schermo e quei primi anni, girati in un caldo bianco e nero, pulsano di raffinatezza, come nei vecchi film degli anni ‘50 e che andrebbero rivisti, ogni tanto.

Cooper stabilisce che la posta in gioco è il loro amore e questo rimane palpabile nel corso degli anni, mentre i contrasti emotivi si scatenano quando lui è sempre più portato a soddisfare i suoi altri desideri. Anche nella scena culminante in cui la coppia affronta la resa dei conti, durante la parata del giorno del ringraziamento, quando un gigantesco Snoopy gonfiabile fluttua sullo sfondo, c'è un peso in ogni parola detta e non detta: è scritta benissimo, con la camera fissa su due protagonisti, senza artifici di sorta.

(Maestro)

Ciò che risulta notevole è che, nonostante la connessione tra Lenny e Felicia sia così forte, quando i personaggi sono lontani l'uno dall'altro, sono ancora esseri completamente uniti. Quando il regista ricrea la straordinaria direzione d'orchestra di Bernstein della “Resurrezione” di Mahler alla Cattedrale di Ely nel Regno Unito, è così energico e avvincente. Soprattutto lo sguardo di pura trascendenza sul volto di Lenny mentre viene travolto dalla musica. Quella sensazione viene trasferita al pubblico. Ma alla fine corre da sua moglie e in quel momento, di puro cinema, si sente netta questa piena sintonia tra i due: è palpabile, letteralmente.

Cooper ha il pieno controllo delle immagini in “Maestro”, che rappresenta un'evoluzione della sua regia. In questo film conosce meglio se stesso e gestisce aspetti difficili della realizzazione di un film comunque complesso e molto “parlato” con maggiore sicurezza. (D.)

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(Oppenheimer)

E' così. Amo i film lunghi, lenti e anche verbosi. Da due anni in qua, “Oppenheimer” (qui l'essenziale) ha catalizzato di tutto: sui #socialmedia credo di non aver mai visto così tante “recensioni”, così variegate opinioni e maree di cazzate (ma questo stupisce meno.) Come per tutte le opere cinematografiche, o musicali, o artistiche, gli unici occhi ed orecchie che contano davvero sono i nostri. Niente di ciò che pensiamo è realmente originale: il mondo ci influenza, ogni persona lo fa. Come arriviamo ad una conclusione sta a noi, però. Proprio ieri ho letto perfino una critica del tutto politica a questa pellicola. Un universo che racchiude in sè ogni cosa te la fa anche apprezzare. Poi li apri, quegli occhi. Essere semplicemente lì a farsi prendere da una storia -fin troppo zeppa di nomi, ma quello è- potrà mai essere una colpa? Di certo per le menti fini sì. Per coloro che amano essere alternativi a tutto e tutti pure. Per chi va a mangiare il popcorn certamente. Per chi pensa di sapere tutto, sempre, assolutamente. Per me, che ho ancora voglia di emozioni, solo un film stupendo. (D.)

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