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(IR)

Nota: Lo so, non è da me farla così lunga, ma in un mondo che impazzisce forse un pochino di squilibrio ce lo metto anche io. La verità è che la #Pace è davvero impossibile. Almeno così sembra. Il che rende, fondamentalmente, questo uno sfogo. Ci vuole pazienza.

La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 ha visto l'ennesima escalation del conflitto mediorientale, quando #Israele ha lanciato un massiccio attacco aereo contro l' #Iran, mirato principalmente alle strutture nucleari e militari di Teheran. Le forze israeliane hanno colpito siti sensibili, distruggendo laboratori e centri di ricerca, nonché eliminando alcuni tra i principali comandanti delle Guardie della Rivoluzione, l'élite militare iraniana. Un colpo che ha scatenato una serie di reazioni internazionali. L'Iran, come prevedibile, ha replicato con una serie di droni che hanno tentato di colpire obiettivi strategici in Israele, gettando il paese in una nuova spirale di violenza.

Le parole di #DonaldTrump, che ha immediatamente espresso un sostegno incondizionato all'azione israeliana, hanno ulteriormente polarizzato il dibattito internazionale. Trump ha minacciato l'Iran con nuove offensive se non avesse accettato un accordo sul nucleare, aggiungendo così un ulteriore strato di complessità alla già tesa situazione geopolitica. L’appoggio degli Stati Uniti alla politica aggressiva di Israele sembra segnare il punto di non ritorno di un conflitto che ha radici profonde, alimentato da ideologie contrapposte e da interessi strategici divergenti.

Politicamente, l'attacco israeliano ha reso evidente l'intensificarsi della guerra a bassa intensità tra le potenze regionali. Israele, con la sua operazione “Leone Ascendente”, ha voluto chiarire una volta per tutte che non tollererà il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Questo attacco ha avuto l'effetto di indebolire momentaneamente l'Iran, uccidendo alcuni dei suoi strateghi più esperti e decimando parte delle sue capacità operative. Tuttavia, la risposta dell'Iran non si è fatta attendere: il lancio di droni ha avuto il chiaro intento di far capire a Israele che ogni azione avrà una controparte, anche se le capacità belliche di Teheran, pur impressionanti, non possono in alcun modo paragonarsi alla potenza di fuoco israeliana.

Le implicazioni politiche per il Medio Oriente sono incalcolabili. L'Iran ha immediatamente mobilitato le sue milizie alleate in Siria, Libano e Iraq, preparando il terreno per una possibile guerra per procura che potrebbe estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti. In questo scenario, la comunità internazionale rischia di assistere a una polarizzazione crescente, con i paesi arabi che, pur condannando l’aggressione israeliana, non sembrano disposti a schierarsi apertamente a favore di Teheran, temendo le ripercussioni di un allineamento troppo esplicito.

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Moralmente, invece, l'attacco israeliano solleva interrogativi inquietanti sulla legittimità di un'azione preventiva, soprattutto quando si considera che l'Iran ha sempre sostenuto di non avere intenzioni belliche dirette contro Israele. Sebbene Israele possa giustificare il suo intervento come una misura di difesa preventiva, non si può ignorare la violazione della sovranità iraniana e il fatto che l’attacco possa generare un'ulteriore spirale di violenza e vendetta. La morte di alti ufficiali iraniani e scienziati nucleari potrebbe, inoltre, rafforzare la narrativa del martirio e alimentare il risentimento tra la popolazione iraniana, creando un ulteriore fossato tra l'Iran e l'Occidente.

Da un punto di vista etico, sorge anche la questione dell’equilibrio delle forze: mentre gli Stati Uniti e Israele vedono la sicurezza come una priorità assoluta, l'Iran non può fare a meno di difendere ciò che considera un diritto sovrano, ossia la propria capacità di autodefinirsi come potenza regionale. La domanda che sorge spontanea è quindi se la logica della deterrenza, che ha caratterizzato la guerra fredda, possa essere applicata efficacemente in un contesto così volatile e intrinsecamente pericoloso.

L'operazione ha accentuato le divisioni interne in Iran, dove il regime potrebbe trovarsi a fronteggiare un'ondata di proteste interne. La crisi economica che affligge Teheran, le sanzioni internazionali e il crescente malcontento popolare potrebbero minare ulteriormente la stabilità del governo. Tuttavia, un sentimento di orgoglio nazionale potrebbe temporaneamente consolidare il consenso interno contro l'invasore straniero, come spesso accade in contesti bellici.

In Europa, la situazione appare delicata. L'Unione Europea, da sempre promotrice di un approccio diplomatico e pacifico, si trova ora a dover navigare tra due fuochi: la necessità di mantenere relazioni economiche con l'Iran, e l'alleanza con Israele, che rappresenta uno dei suoi principali partner strategici. La Francia e la Germania hanno condannato l'escalation, chiedendo una de-escalation immediata, ma non sono riuscite a offrire una soluzione concreta. L'Italia, pur allineata in linea di principio con le posizioni europee, ha adottato un tono più cauto, sottolineando la necessità di una mediazione internazionale urgente per evitare che il conflitto degeneri in una guerra totale.

Il nostro stato si è trovato a giocare un ruolo delicato nel bilanciare il proprio supporto a Israele con l’esigenza di non alienarsi la cooperazione iraniana. Sebbene il governo italiano abbia espresso una condanna per l'aggressione israeliana, si è anche preoccupato delle implicazioni a lungo termine di una rottura totale tra l'Iran e l'Occidente. L'Italia, infatti, è da sempre favorevole a un approccio diplomatico per risolvere la crisi nucleare iraniana, e un’escalation militare potrebbe compromettere gli sforzi compiuti negli anni passati per stabilire un dialogo.

L’Unione Europea, nel suo insieme, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali invocando una “de-escalation immediata”, ma la divisione tra i membri più favorevoli a un duro confronto (come la Polonia) e quelli più favorevoli a un negoziato (come l’Italia e la Spagna) è ormai palese. Il rischio è che l'Europa, incapace di adottare una linea unitaria, finisca per essere marginalizzata in un conflitto che potrebbe ridisegnare gli equilibri di potere nell'intera regione mediorientale.

L'attacco israeliano all'Iran ha profondamente scosso gli assetti geopolitici internazionali, mettendo in luce non solo le fragilità politiche e sociali dei protagonisti del conflitto, ma anche la difficoltà di una comunità internazionale a trovare un punto di mediazione efficace. Le conseguenze politiche, morali e sociali di questa nuova escalation sono ancora in divenire, ma una cosa è certa: l'Europa e l'Italia dovranno affrontare con urgenza la necessità di rinnovare i propri approcci diplomatici, se vogliono evitare che il conflitto si trasformi in una guerra su scala globale. La strada verso una stabilizzazione del Medio Oriente sembra sempre più incerta e tortuosa, e l'unica speranza risiede nel ritorno al dialogo e alla cooperazione internazionale.

#Blog #Iran #Israele #Medioriente #War #Guerra #Opinioni #Politica #Politics

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(MR)

Nel cuore impenetrabile della giungla malese, dodici intrepidi avventurieri affrontano un viaggio estremo, tra fango, sudore e liane, alla ricerca di un montepremi da dividersi alla fine del percorso. Ma non sono esploratori, non sono ex militari, e no, nemmeno boy scout. Sono... professionisti digitali. O qualcosa del genere.

I loro titoli? Un tripudio di inglesismi, abbreviazioni e parole che, messe insieme, sembrano generate da un algoritmo ubriaco: content creator, consulente creativo, digital strategist, autore di contenuti web, project manager di progetti fluidi (ma quali?). Alcuni sono “ex manager”, che non si capisce bene se vuol dire che hanno lasciato la scrivania o se è la scrivania ad aver lasciato loro.

Li vediamo marciare tra le zanzare e i serpenti come se dovessero raggiungere il Wi-Fi più vicino, mentre il sudore scioglie l’ultima traccia di ceretta alle sopracciglia e i loro zaini sembrano contenere più prodotti skincare che strumenti di sopravvivenza. Il vero pericolo, però, non è la natura selvaggia: sono le tentazioni.

Ad ogni bivio, una nuova prova morale: una bistecca tomahawk da 240 euro, una suite con aria condizionata e minibar, un massaggio balinese a otto mani. Se uno di loro cede – e, spoiler: cedono spesso – il montepremi si riduce. Tutti si indignano, ma poi, alla tentazione successiva, cambiano idea. Perché rinunciare a una Jacuzzi in mezzo alla giungla solo per lasciare agli altri qualche euro in più?

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E qui sorge spontanea una domanda: se questi sono i lavori del futuro, noi che ci svegliavamo alle sette per timbrare il cartellino abbiamo sbagliato tutto? Forse. Ma resta il dubbio: cosa fanno, esattamente, queste persone?

Uno dice: “Creo contenuti emozionali per il web”. Che potrebbe voler dire scrivere una poesia, girare un reel con la nonna, o semplicemente filmarsi mentre beve un cappuccino con lo sguardo assorto. Un altro è “strategic planner esperienziale”, cioè, se abbiamo capito bene, organizza eventi dove la gente si sente ispirata a investire in sé stessa. Un terzo “ha lasciato la finanza per seguire il cuore”, e oggi racconta la propria trasformazione interiore tramite podcast. Spoiler: la finanza sembra sentirsi benissimo anche senza di lui.

Certo, i tempi cambiano, e non tutti devono sapere riparare un tubo o accendere un fuoco con due sassi. Ma in certi momenti – tipo quando piove da tre giorni e bisogna costruire un riparo – l’assenza di skill pratiche diventa più evidente del fard sbavato sulle guance. E la giungla, quella vera, non fa sconti ai CEO di sé stessi.

Alla fine, mentre il montepremi si assottiglia e le prove si moltiplicano, resta solo una certezza: nella giungla digitale di oggi, l’unica vera sopravvivenza è farsi notare. Anche se l’unica cosa che si è costruita, finora, è un profilo LinkedIn pieno di parole che non significano nulla.

#Blog #TV #Opinioni #SocialMedia #Reality

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(ODM)

Guardarsi l’ombelico, sui #socialmedia è diventata una delle dinamiche comunicative più evidenti e problematiche del nostro tempo. Si manifesta come una continua conferma del proprio punto di vista all’interno di comunità digitali omogenee, dove gli utenti si confrontano quasi esclusivamente con contenuti che rispecchiano le loro convinzioni. Questo fenomeno crea un effetto di “eco chamber” (camera dell’eco), termine coniato per descrivere gli ambienti chiusi in cui le opinioni vengono amplificate e rafforzate dal continuo rimando tra soggetti che condividono idee simili.

La dinamica ha conseguenze profonde sulla qualità del dibattito pubblico, in particolare su temi complessi e controversi come la politica, l’ambiente, i diritti civili o la scienza. L’autoreferenzialità riduce la possibilità di confronto, impedisce l’incontro con punti di vista differenti e genera una polarizzazione che ostacola l’approfondimento. I social media, in teoria, dovrebbero essere strumenti potenti per la condivisione della conoscenza e la promozione del dialogo, ma nella pratica spesso si trasformano in spazi di conferma identitaria, dove l’obiettivo principale è ottenere consenso e visibilità piuttosto che interrogarsi, dubitare o cambiare opinione.

(ODM2)

Secondo Eli Pariser, autore del saggio “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You” (2021), gli algoritmi che regolano le piattaforme digitali personalizzano i contenuti che vediamo in base ai nostri comportamenti precedenti. Questo porta a una selezione automatica delle informazioni che rafforza la nostra visione del mondo e riduce l’esposizione a fonti alternative o critiche. E’ una bolla filtrante, dove ogni contenuto che entra è già stato pre-selezionato per piacere, non per stimolare il pensiero critico.

Il problema, dunque, non è solo sociale o culturale, ma anche strutturale: le stesse piattaforme sono progettate per massimizzare il tempo di permanenza degli utenti, non per favorire il confronto aperto. In questo contesto, l’autoreferenzialità diventa una forma di autodifesa e, al tempo stesso, di auto-promozione. Gli utenti non cercano un dialogo autentico, ma piuttosto la legittimazione della propria identità e delle proprie idee. Questo spiega perché spesso gli argomenti più seri vengano affrontati con superficialità o, peggio, strumentalizzati per ottenere like e approvazione.

Un altro contributo utile alla riflessione è quello di Sherry Turkle, psicologa e sociologa del MIT, nel suo libro “Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age” (2015). Turkle sostiene che la comunicazione mediata da schermo impoverisce la qualità del dialogo e porta a evitare i confronti più complessi, quelli che richiedono tempo, empatia e disponibilità all’ascolto.

Essere autoreferenziali rappresenta una piccola sfida per la democrazia e per la crescita culturale collettiva. Per andare oltre, è necessario sviluppare una nuova alfabetizzazione digitale, che insegni non solo a usare le piattaforme, ma anche a riconoscere i propri bias, a cercare attivamente il dissenso e ad apprezzare la complessità. Solo così i social potranno diventare davvero strumenti di apertura e non semplici specchi narcisistici.

E dato che tutti, prima o poi, ce la suoniamo solo per sentirci bene, più benvoluti, più apprezzati forse è il momento per cambiare musica.

#Blog #SocialMedia #Opinioni #Società

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(LGD)

Nel suo film del 2007 “La giusta distanza”, Carlo Mazzacurati narra la vicenda di un giovane apprendista giornalista, che non riesce, in merito ad un fatto di cronaca, a mantenere la “giusta distanza” dai fatti, come gli ha suggerito il suo mentore. Ovvero non riesce ad approfondire abbastanza quel che accade per averne una visione imparziale, il più possibile corretta e scevra da opinioni ed idee personali: quello che, nella teoria, ogni giornalista dovrebbe tendere a fare nel suo mestiere.

In Italia può essere portato ad esempio di come questo modo di operare sia, nei fatti, ignorato del tutto o quasi. Da parte di molte testate giornalistiche e di TG d'ogni canale è è un muoversi nelle direzioni più disparate: dapprima per rimanere “sul pezzo” e, passata la fase di picco a livello di notizia, per estendere all'infinito una serie di tematiche, perlopiù allarmiste e con un alto tasso di sensazionalismo, fino a coprire intere giornate di trasmissione.

E' anche un po' il limite, per esempio, dei canali “All News”, dove per ventiquattro ore al giorno si trasmette ogni sorta di dettaglio, di accadimento, di vocio per coprire la giornata intera. Reiterando all'infinito le stesse cose (non può accadere qualcosa di clamoroso ogni ora), si finisce con il “caricare” la notizia fino allo spasimo, spesso inserendo note di colore che rendono la narrazione volutamente altisonante, pervasiva, angosciante. Una estremizzazione indotta per mantenere attento lo spettatore.

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Chiaramente è una maniera d'operare affatto corretta e per quanto giornalisti ed opinionisti lo neghino, appare abbastanza chiaro che è un mare in cui a loro piace nuotare. Possiamo comprendere che sia più semplice fare così che mantenere quella distanza di cui sopra: si rischia, magari, la noia o una maniera troppo blanda di porgere le notizie e molte persone amano, inconsciamente o meno, il clamore e la chiacchiera, a discapito di coloro che, invece, vorrebbero leggere o sentire semplicemente ciò che è successo, senza fronzoli.

D'altro canto ognuno può essere un amplificatore dei fatti: basta un account su “Facebook” o su “X” dove riprendere e commentare ogni cosa venga detta, magari distorcendo ulteriormente le cose, caricandole con opinioni personali (cui si ha diritto) e facendo rimbalzare tutto ovunque. Una sorta di cerchio infinito in cui la sconfitta è l'informazione di qualità, quella cui dovrebbero sempre ambire tutti. Sarebbe un freno per un mondo già sovraccarico di input, dove siamo “bombardati” senza sosta, senza tregua di cose che ci sentiamo obbligati a seguire.

Un corto circuito permanente d'attenzione e di sovraccarico mediatico. E come ogni cosa portata all'eccesso, è un danno. Cui, temo, non si possa più porre rimedio, se non con la volontà personale di distaccarsi da questa narrazione sbilanciata, reinserendo nel proprio modo di informarsi una quanto mai necessaria dose di distacco e di ragionamento. Cose difficili da fare, faticose, ma non impossibili.

#Blog #Opinioni #Media #News #Informazione

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(X)

“X” non è più un #socialmedia. Ci sono voluti molti mesi dopo la fine di “Twitter” e l’acquisizione da parte di #Musk. Per arrivarci è stato necessario sopportare una campagna elettorale americana (di cui ci si potrebbe tranquillamente fregare) e la rielezione di uno come #Trump. Vedere il “paron del vapore” scodinzolare affettuoso con il nuovo Presidente, in compagnia di tutti gli altri miliardari della ex “Silicon Valley”, è stato il terzo ed ultimo atto della parabola discendente di questa piattaforma. Durante i mesi che hanno preceduto le urne, Musk ha donato soldi e fango a piene mani: tutto pur di compiacere un anziano “tycoon”, pregiudicato, scapestrato, ignorante e razzista. Non deve essere parso vero al fabbricante d’auto quando un tale soggetto, eletto da milioni di fenomeni uguali a lui, lo ha chiamato addirittura a far parte del governo. Sembra un film di quelli per la TV, sciatto e con una sceneggiatura ridicola.

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Eppure è così. Trump vuole ridare il diritto di parola, che nessuno ha mai tolto, all’America e un megafono come il social di Musk è lì, pronto e praticamente gratis. Via i controlli sulle fake news, via le restrizioni al linguaggio volgare, sessista e offensivo, via le moderazioni sulle vagonate di scemenze che scrive la gente: avanti con la libertà totale di insulto, con i contenuti pornografici e con un algoritmo talmente invasivo da diventare il vero gestore del tutto.

Quando “#Twitter” cambiò nome e dirigenza, molti se ne andarono perché non vedevano più quel social che avevano imparato ad usare (e amare?), quello vero, quello iniziale. Ancora più utenti resistettero, eroici, alle prime avvisaglie di disfacimento, arrivate con la personalità strabordante e cafona di Musk. Ma dopo il Novembre del 2024 tantissime persone hanno veramente raggiunto il limite di sopportazione ed hanno abbandonato la nave, che da allora batte decisamente la bandiera del “Non c’è nessun controllo.”

Dapprima gente famosa, poi moltissimi giornali, tanti attivisti e tante ONG hanno chiuso i loro account, seguiti dai profili della gente “comune”, stanca di continuare ad essere offesa, di non trovare più i post degli amici e di non uscire mai e poi mai sulla TL. Ormai conti, se l’algoritmo decide che sei utile allo sforzo propagandistico del vate o se, al contrario, sei talmente offensivo e razzista da veicolare un traffico importante. Il resto non serve a nulla: ci si illude per qualche giorno, magari con riscontri che appaiono gratificanti, per poi tornare a scrivere quasi solo per se stessi.

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Portiamo noi come esempio. Abbiamo perso più di trecento follower nel giro di tre mesi, ed eravamo a quota 7000: ogni giorno continua una lenta emorragia, che a volte si ferma e la rotta si inverte, ma non dura mai. I post sono visti al massimo 500 volte: le interazioni sono praticamente nulle e i commenti raramente raggiungono la decina. Questi sono gli aridi numeri, che, comunque, sono relativi. Non siamo su “X” per la fama e la gloria (magari i soldi…), ma per veicolare la nostra opinione su cose che riteniamo importanti. Anche per cazzeggiare, ovvio: è lo scopo esiziale di un social.

La cosa che fa propendere per la chiusura è che non si riesce ad interagire più. A parte fare decine di post al giorno per uscire, prerogativa di quegli sfigati degli influencer o di chi non ha altri impegni, dovresti commentare ogni tre secondi da qualche parte per avere un minimo di contraddittorio. Ma non era questo lo scopo dei social? Non era discutere, confrontarsi, anche incazzarsi? Se una formula matematica si mette contro questa cosa, il social non è più quello per cui è stato pensato: è solo un enorme frullatore di cose, alcune validissime, la maggior parte pessime, in cui si gira a vuoto senza alcun approdo. Ci ripetiamo: alcuni continuano bellamente a fare “numeri” enormi, ma sono sempre gli stessi e la maggior parte è schierata decisamente con Musk e il suo enorme conflitto di interessi.

Il tempo scorre sempre e solo in avanti (l'abbiamo già detto) e perderne troppo in rete è abbastanza stupido. Poi, per amor del cielo, ognuno è libero di fare e dire ciò che gli pare, ma davvero ha ancora senso stare su “X”? Non apriamo il capitolo delle alternative, perché resta nel campo delle scelte personali e proporre un social più di un altro è veramente assurdo. Però è arrivato il momento, anche per noi (Ale è silente da molti mesi, ma l’account è il suo), di dire “Stop.”

“X” è diventato politica e quella che a noi non piace, quella di una nazione che vediamo allo sbando, sempre più arrogante, cinica, spietata, esattamente come i suoi rappresentanti. E’ il covo di una informazione fatta di dichiarazioni rocambolesche, di gesti plateali, di offese continue a chi non si allinea, di razzismo evidente, di violenza verbale e non, di sdoganamento dell’inutile a sfavore della profondità.

Basterebbe questo a rendere la nostra decisione dovuta. Aggiungiamo anche che il fatto di non leggere mai le persone che abbiamo a cuore (ve lo ricordate, sì, l’algoritmo?), quelle a cui ci siamo affezionati e che stimiamo, rende tutto più frustrante. Ecco, è per loro che siamo rimasti finora: per quelle risposte, per le loro domande, per le nostre domande, per il sostenerci nei nostri ideali e nelle tante utopie. Mancheranno, tanto, ma proprio per la coerenza che dovrebbe sempre muovere le azioni di tutti, dobbiamo andarcene.

Le vie del web sono infinite. Magari percorrendone una meno battuta ci si ritroverà.

[Alessandra & Daniele]

#SocialMedia #X #Blog #Personal #Opinioni #Opinion

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(R)

Abbiamo fatto talmente tanti propositi, buoni o meno, che ormai è inutile continuare. Come disse il più geniale dei quattro “La vita è quella cosa che accade mentre sei intento a fare altro”. E questa frase va bene per tutti, dal primo all'ultimo. Che, poi, le persone non si devono numerare, non si dovrebbe fare una classifica in cui qualcuno vale più di un altro. Una persona ha valore in sé, non per il suo status, per la sua “classe”, per i soldi che ha o che non ha, per il suo essere considerato qualcuno. Che, poi, “... è proprio obbligatorio essere qualcuno?”, citando un personaggio di fantasia, ma che la sapeva lunga. Essendomi giocato tutte le citazioni fino al 2025 è meglio procedere.

Tolti i propositi, restano i bilanci. Sono anche più insidiosi, perché incitano ad una riflessione, sempre ammesso che vi siano stati degli obiettivi da raggiungere. Un modo per disfarsi di eventuali calcoli a somma zero della propria esistenza fino al 31 Dicembre 2024, è quello di provare a capire come sia andato il nostro paese, quello che – perlomeno – siamo riusciti a guardare, sentire, commentare fino ad oggi. E’ più semplice e permette un bel po’ di ipocrisia e di sproloqui di parte.

Che dire, se non che quest’anno, per l’Italia, patria molto parca di soddisfazioni (eliminiamo dal contesto lo sport, per piacere), ma fonte pressoché inesauribile di ansie e di disfunzioni a tutti i livelli, è stato pessimo? Per par condicio devo scrivere che quelli prima della Meloni erano praticamente la stessa cosa: non c’entra – non del tutto – l’attuale governo, che pure ha fatto e sta facendo sfracelli e non è un complimento. Loro accampano la scusa di aver ereditato i disastri dagli anni passati, quelli prima da quelli prima e via così fino a Romolo e Remo. Poi basta, che c’erano altri di cui non ricordiamo un nome uno.

Probabilmente è il fatto che l’età avanza, gli occhi sono sempre più malandati e la pigrizia non ha diete da fare, ma le cose, là fuori, sembrano più scure, più sfrangiate, più vaghe seppur in tempi di sapienza da “Wikipedia”. C’è quel vago sentore di marcio che accompagna molti accadimenti politici, che ben si somma con la pochezza e la sciatteria di una “classe dirigente” imborghesita male, malissimo. Rialzano la testa anche coloro che non ne avrebbero diritto, depositari di vecchie glorie rattoppate, di miasmi patriottici mal gestiti e peggio compresi.

(R2)

Il tutto sdoganato da un impoverimento culturale che fa sì che la misura più profonda del sapere sia quella di un pozzanghera. Acqua sporca di rimando, da citazione googlata, da ansia da prestazione per un like, per mille o diecimila approvazioni, per concedere all’illusione di contare quasi tutto ciò che abbiamo, soprattutto il tempo, una delle poche cose che vale moltissimo, ma che viene sperperato come se – davvero- non ci fosse un domani. Come l’acqua, che davvero non c’è, o come i disastri del clima che, invece, abbondano e continueranno a moltiplicarsi.

Ma perché sia tutto perfetto, un quadro deliziosamente completo fin nei dettagli, ammazziamo centinaia di migliaia di nostri simili (simili in tutto, ma proprio tutto) con metodi tradizionali e collaudati, o con nuove invenzioni apocalittiche. Tanto siamo troppi e la denatalità è un problema: come sbattere su un muro a trecento all’ora, ma lamentandosi del colore dei mattoni. Il tutto, sia detto, allegramente, che certezze ce ne sono: il calcio, la pausa caffè e gli altri, tutti coglioni.

Mentre ci mangiano gli stipendi, facendoli decrescere per distinguerci dagli altri (orgoglio italiano), ci mandano a curare anche un taglietto fatto con la carta dal professorone a casa sua, e provvediamo ad arredargliela con la parcella. Lo stesso che poi, in uno slancio di benevolenza falsa come i suoi denti, si mischia al popolino nelle corsie di ospedali sempre più modello “quarto mondo”, regni del rischio non calcolato, delle pareti piene di muffa e dei nomi di santi sempre più ridicoli nella loro inutilità.

Ma la barca va, magari fino in Albania, navigando di bolina e sconfiggendo la fastidiosa ritrosia di alcuni italiani a buttare i soldi dalla finestra, che almeno avvertissero, così ci mettiamo sotto. E’ essenziale rifornire l’ego delle masse votanti, dandogli molto circenses e poco panem: a stomaco vuoto si è accondiscendenti, educati e servili come da manuale. Perciò liberi di manifestare, ma a favore: quelli che non si allineano li mettiamo in quelle galere dove muoiono centinaia di persone all’anno, come in un film fatto male, ma molto realistico.

E senza sembrare troppo cattivi, l’assoluzione di uno che potrebbe fare poco, in qualsiasi campo, ma fa il ministro, non è altro che la riprova che il gattopardo non è un animale in via di estinzione: si riproduce in cattività con molta frequenza e tutti i morti nei nostri mari non lo riguardano. Si nutre del razzismo, della bassa intelligenza e della stupidità. Tutte cose che abbondano, in Italia.

Il 2024 è anno bisesto, quindi funesto: lo dicono tutti, perciò è vero, ci hanno fatto i meme. Accogliamo il 2025 che sarà meglio. Ma perché è difficile fare peggio o solamente perché su “X” ancora non hanno fatto l’oroscopo? Stiamo tranquilli. Sedati, rincoglioniti, italiani.

“Recitando un rosario di ambizioni meschine di millenarie paure di inesauribili astuzie Coltivando tranquilla l'orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta come una malattia come una sfortuna come un'anestesia come un'abitudine.”

(“Smisurata preghiera”, di Fabrizio de Andrè e Ivano Fossati, 1996).

#Blog #Opinioni #Opinions #Personal #NewYear

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Alla fine del mondo.

The Cure – “Songs of a Lost World”, Universal

(Cure)

Ho sempre il timore che, quando un disco mi piace, sia perché nel momento in cui l’ascolto è ciò che (inconsciamente?) il mio “io musicale” vuole in quel periodo della vita, che sia un giorno solo o un anno. Perciò, forse, il mio giudizio è falsato: la stessa opera, a distanza di tempo potrebbe farmi un effetto molto diverso, peggiore, magari. Naturalmente ci sono dischi che resistono allo scorrere della vita e sono di certo quelli che personalmente non posso smettere di ascoltare: hanno acquisito una valenza che supera tutto ciò che gli accade intorno.

Non so se “Songs of a Lost World” dei “Cure” possa ambire a quell’empireo, pittosto ristretto, in verità. Probabilmente è anche dovuto al fatto che i “Cure” non sono mai stati uno dei miei gruppi preferiti, nemmeno all’apice della loro carriera, quando erano di certo una delle band più importanti della scena dark-wave e Robert Smith godeva di una popolarità immensa. Ed anche per questo mi domando se sia una mia mancanza di approfondimento o semplice affermazione di gusti diversi. O, anche più probabile, distrazione.

Un tempo che potremmo pensare ad appannaggio di Peter Gabriel o dei Pink Floyd per uscire con nuova musica (seppur già proposta, in parte, dal vivo): sedici anni e viene dopo un disco, “4:13 dream” che per i più è claudicante, almeno. E si invecchia, nel mentre. Come se accadesse sempre ad altri, magari perché i musicisti si sentono una categoria a parte, ma non è così. Essere umani è eguale per tutti. Ed allora questo diventa un disco sulla difficoltà del vivere, sul dolore (la perdita del fratello, per Smith), sulle inevitabili somme che si devono tirare, su ciò che ci circonda e che peggiora ogni giorno.

(Cure2)

Questo è un disco dove la musica prevale, in una sorta di messaggio che travalica le sensazioni date dalle parole. Ogni canzone, e sono quasi tutte lunghissime, c’è una “intro” che precede i versi ed è una scelta che qualche critico ha bollato come un ritorno, ma senza entusiasmo, agli anni ‘80. Invece funziona, eccome. Dona ai brani un’aura quasi epica, anche per il drumming potente e per la chitarra di Reeves Gabrels (recuperate i “Tin Machine” ogni tanto), nella band dal 2012, tagliente, sferzante.

Il secondo singolo, “A fragile Thing”, è esemplificativa di questo mood, con un basso potente, tocchi di chitarra che ricordano un vento gelido, il cantato chiaro, limpido. Invece “Alone”, più lugubre, più ieratica è la prova che questa è un’opra dolente, che sfocia in “I Can Never Say Goodbye” dove la perdita del fratello è un temporale acustico, una litania dolorosa. Ma forse “Endsong”, la canzone finale del disco (oltre i dieci minuti), è quella che può far risaltare di più il valore di queste canzoni. E’ un brano potente, marziale, tribale, dove Gabrels può lasciare spazio alla sua elegiaca musica, un contrappunto alle parole quasi definitive “...it’s all gone/ no hope/ no dreams/ no more” e quel “...nothing” finale che non solo chiude il disco, ma sembra far calare il sipario su una esistenza intera.

E’ un grande disco, questo: lo si intuisce subito, dal primo ascolto. E come tutti i dischi di spessore cresce nel tempo, per ora brevissimo, dopo la sua uscita. Essendo una riflessione in musica, ognuno ne può far parte, per ciò che desidera, perché i temi sono universali. Gli artisti hanno il dono di farci partecipi tutti in egual maniera, ma non a tutti riesce con convinzione. Stavolta sì, anche per uno come me che non è un “fan”. Quelli che lo sono possono gioire.

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(Fontaines)

Hype per il nuovo disco dei #FontainesDC ne abbiamo? Anche troppo. Cliccate sul link per una CBS più concisa. Il mezzo fa figo.

https://txt.fyi/3ee01a1d1487f41a

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(Europee)

“La differenza tra una democrazia e una dittatura è che in una democrazia prima voti e poi prendi gli ordini; in una dittatura non devi perdere tempo a votare.” (Charles Bukowski)

E chi se ne fotte, se a votare non ci andate? E chi se ne sbatte se c'è una scusa per fare una cosa e mille per non farla? Ma chi se ne frega delle guerre nel mondo o di chi non ha né pranzo né cena? L' evoluzione ci ha dotati del “libero arbitrio”, anche se nessuno, soprattutto a scuola, non ci spiega che cosa sia e quanto è importante.

Nessuno mi paga (ad una certa età si mercenari su tante cose, sappiatelo) per convincere nemmeno un ubriacone a bere di più. Che le #ElezioniEuropee siano la scusa perfetta per tornare a togliere la polvere dall'ombelico che guardiamo ogni giorno e che si chiama #Italia è certo. E non mi pagano nemmeno per ascoltare tutti i difetti della #UE, tutte le notizie che ci vogliono fare guerra a destra ed a manca o quelle sull'immobilità nei confronti della #Palestina (tanto a leccare i piedi ad #Israele siamo maestri.)

So, come sanno tutti, Tutti sappiamo tutto (a parte tacere). So che io farò come sempre e me ne vado a fare due passi fino al seggio. Per mettere una, due o tre “X” non ci vuole un genio. Perciò ce la posso fare. Poi caffettino in qualche bar carino, che le anime belle che scrivono sui Blog fanno così. Quei segni andranno a favore di chi mi pare. Come ho già scritto (non siete stati attenti, nel passato, lo so) senza più alcuna bandiera, né tessera, né -tantomeno- qualcuno che mi fa sentire in colpa per questo o quel difettino che si ha in politica.

Se vi sembra l'enunciazione dell' “Edonismo Reaganiano” che fu (l'età di cui sopra fa scherzi) e della rinuncia per pigrizia, vi sbagliate, ma pure de brutto. E' una cosa molto più semplice. E' continuare nell'illusione di pensare un po' per i fatti miei. Stessi fatti che mi tengo, con manicale ossessione, per me e i miei cari. Quelli sono importanti. Altri molto meno, a questo livello, non umanamente.

Quella mezz'oretta, Sabato, la dedico a chi farà lo stesso. Agli altri auguro un fine settimana di sole e caldo, al mare o in montagna. Vorrei raccomandare, quando vi troverete intruppati sulla battigia o su qualche sentiero ormai circondato di immondizia, di ridere nei confronti di chi ancora crede in certe cose. Fatelo con gusto. Però io in coda non starò e sorriderò lo stesso. In faccia a un sacco di gente.

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(155)

(IS)

C'è da avere una certa tenerezza nei confronti di chi, con inutile (e falso), stupore, ad ogni fatto di cronaca -brutto, bello, inventato- si lagna degli odiatori sui #socialmedia. Un po' come quelli che si definiscono tifosi, per i quali una squadra è “ragione di vita”: così importante da renderli dei perfetti imbecilli, in un campo dove anche gli imbecilli veri sono realmente degli idioti.

Che, poi, bisognerebbe essere più sottili. Un conto sono quelli che sanno tutto e dispensano pillolone di saggezza che farebbero vergognare chiunque fosse almeno vicino alla soglia minima per poterlo definire intelligente. Un altro sono coloro che continuano a vivere Internet come la loro vera esistenza: uno schifo senza vie d'uscita. E ci sono altri, tanti profili di disagiati che cercano solo un pollice o un cuore in più per svoltare le loro meste giornate.

Il pulpito da cui scrivo è oscurato da tutta una serie di evidenti falli sulla riga: la battuta è quella di uno che ha sbagliato come e molto più di altri. Come nei filmetti degli anni '50, dove tutti erano poveracci, ma bellissimi, la mia redenzione passa attraverso la porta della consapevolezza. Indotta, per quieto vivere, ma sincera perchè il tempo perso è davvero troppo. Se tutto resta, sulla rete, siamo comunque spacciati. Tutti.

Perciò combattere l'odio con e la stupidità con la banalità non è 'sto gran servizio. Si perpetra un'idea di se stessi bianco latte, ma piena di magagne egualmente. Si potrà essere adulati per tre o quattro ore, ma la sostanza non verrà spostata di un commento uno. La guerra è stata persa molto tempo fa, milioni di cazzate or sono. Vale la pena sottolineare che “ambiente tossico” sembra l'unica definizione azzeccata di “X”, “Facebook” e altre menate.

(Mask)

Il declino di tutto questo si compie adesso, e continuerà fino all'esaurimento non dell'idiozia -che si rinnova in automatico-, ma del mezzo in sè. Non sarà domani, ne dopodomani e nemmeno tra cento anni. Arriverà e basta. La gente se ne ricorderà come una cloaca pensata apposta per fare soldi e creare malessere, dove continuiamo a sguazzare. Insieme a quegli illusi che pensano di essere quelli che non si sporcano.

#Blog #Haters #Internet #Rete #Opinioni

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