Transit

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Alla fine del mondo.

The Cure – “Songs of a Lost World”, Universal

(Cure)

Ho sempre il timore che, quando un disco mi piace, sia perché nel momento in cui l’ascolto è ciò che (inconsciamente?) il mio “io musicale” vuole in quel periodo della vita, che sia un giorno solo o un anno. Perciò, forse, il mio giudizio è falsato: la stessa opera, a distanza di tempo potrebbe farmi un effetto molto diverso, peggiore, magari. Naturalmente ci sono dischi che resistono allo scorrere della vita e sono di certo quelli che personalmente non posso smettere di ascoltare: hanno acquisito una valenza che supera tutto ciò che gli accade intorno.

Non so se “Songs of a Lost World” dei “Cure” possa ambire a quell’empireo, pittosto ristretto, in verità. Probabilmente è anche dovuto al fatto che i “Cure” non sono mai stati uno dei miei gruppi preferiti, nemmeno all’apice della loro carriera, quando erano di certo una delle band più importanti della scena dark-wave e Robert Smith godeva di una popolarità immensa. Ed anche per questo mi domando se sia una mia mancanza di approfondimento o semplice affermazione di gusti diversi. O, anche più probabile, distrazione.

Un tempo che potremmo pensare ad appannaggio di Peter Gabriel o dei Pink Floyd per uscire con nuova musica (seppur già proposta, in parte, dal vivo): sedici anni e viene dopo un disco, “4:13 dream” che per i più è claudicante, almeno. E si invecchia, nel mentre. Come se accadesse sempre ad altri, magari perché i musicisti si sentono una categoria a parte, ma non è così. Essere umani è eguale per tutti. Ed allora questo diventa un disco sulla difficoltà del vivere, sul dolore (la perdita del fratello, per Smith), sulle inevitabili somme che si devono tirare, su ciò che ci circonda e che peggiora ogni giorno.

(Cure2)

Questo è un disco dove la musica prevale, in una sorta di messaggio che travalica le sensazioni date dalle parole. Ogni canzone, e sono quasi tutte lunghissime, c’è una “intro” che precede i versi ed è una scelta che qualche critico ha bollato come un ritorno, ma senza entusiasmo, agli anni ‘80. Invece funziona, eccome. Dona ai brani un’aura quasi epica, anche per il drumming potente e per la chitarra di Reeves Gabrels (recuperate i “Tin Machine” ogni tanto), nella band dal 2012, tagliente, sferzante.

Il secondo singolo, “A fragile Thing”, è esemplificativa di questo mood, con un basso potente, tocchi di chitarra che ricordano un vento gelido, il cantato chiaro, limpido. Invece “Alone”, più lugubre, più ieratica è la prova che questa è un’opra dolente, che sfocia in “I Can Never Say Goodbye” dove la perdita del fratello è un temporale acustico, una litania dolorosa. Ma forse “Endsong”, la canzone finale del disco (oltre i dieci minuti), è quella che può far risaltare di più il valore di queste canzoni. E’ un brano potente, marziale, tribale, dove Gabrels può lasciare spazio alla sua elegiaca musica, un contrappunto alle parole quasi definitive “...it’s all gone/ no hope/ no dreams/ no more” e quel “...nothing” finale che non solo chiude il disco, ma sembra far calare il sipario su una esistenza intera.

E’ un grande disco, questo: lo si intuisce subito, dal primo ascolto. E come tutti i dischi di spessore cresce nel tempo, per ora brevissimo, dopo la sua uscita. Essendo una riflessione in musica, ognuno ne può far parte, per ciò che desidera, perché i temi sono universali. Gli artisti hanno il dono di farci partecipi tutti in egual maniera, ma non a tutti riesce con convinzione. Stavolta sì, anche per uno come me che non è un “fan”. Quelli che lo sono possono gioire.

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Tutte le opinioni qui riportate sono da considerarsi personali. Per eventuali problemi riscontrati con i testi, si prega di scrivere a: corubomatt@gmail.com

(136)

CBS 3)

Di certo non siamo mai contenti. Prendiamo i “Subsonica”. Se sono troppo riconoscibili, non va bene. Se lo sono troppo poco, non va bene. Eppure sono uno dei gruppi musicali italiani che, in assoluto, ha una sua identità precisa, sia musicale che di immagine. Il suono dei “Subsonica” è attribuibile esclusivamente alla band di Torino. E’ una cosa assodata e non è facile da raggiungere.

Alla decima prova, “Realtà aumentata”, ci sono dei giri di boa fatti e tanto mare ancora da prendere. Il disco precedente (escludiamo “Mentale strumetale”, che in tutto fa storia a sé), “8”, appariva davvero forzato: lo dice la band stessa e ci si può credere. Tra scazzi e carriere soliste (con risultati non eccelsi, peraltro) si sono ritrovati. La storia della musica pop-ular è un refrain ininterrotto, su certe cose.

Adesso che ho shakerato le ovvietà ci sono le nuove canzoni (* ci sarà una nota a piè di pagina sull’uso dei “singoli” in epoca contemporanea) di cui scrivere. Ed alcune sono davvero ottime. Partiamo dalla migliore che è “Universo”: un brano arrangiato benissimo, con una ritmica azzeccata ed un testo tanto onirico quanto permeato di presente. Prendetelo ad esempio di quello che un grande gruppo può fare quando tutti gli elementi trovano la quadra.

(Subsonica)

Poi il peggiore, che senza meno è “Scoppia la bolla.” In onestà è proprio bruttino forte. Molto banale il testo (ed anche un po’ retorico, dai), la musica è poca cosa, affrettata, noiosetta. Ci sono Willie Peyote e Ensi, ma nessuno dei due è Frankie hi-nrg mc. Quindi volare basso, assai. Dispiace scriverlo, ma proprio non ci siamo. E’ un brano – atteggiamento e niente sostanza.

Tra questi due estremi, che sono normali in ogni disco, ci sono cose davvero buone. “Adagio”, il terzo “singolo”, è proprio cinematografica nel senso migliore del termine. Cresce, va al punto, convince. “Cani umani” pesta alla grande, con un mood profondo e inquietante. “Mattino di luce” è pura Subsonica sintesi, con un parte che ricorda tante altre loro cose e un bel refrain. Il tema è esaltante e difficile, ma il testo riesce a dare la profondità che merita.

“Pugno di sabbia è un singolo adatto al 2024: i cambiamenti climatici, la rabbia -che nella storia non è mai mancata-, lo smarrimento, le grida dal basso. Si crea un bell’amalgama con trame ritmiche ben assortite, mescolate e dense. Bene, bene. “Missili e droni” ha un andamento così lento e teso che non può che colpire. Poche note, un testo convincente, decisamente un’atmosfera interessante e cupa che gli dona spessore.

Nel resto dell’album ci si muove attraverso la scrittura musicale dei Subsonica con particolare piacere, proprio per aver ritrovato un gruppo così coeso, così compatto e senz’altro estremamente coerente con il suo percorso. Sento, anche, una certa fiducia nel futuro del progetto, che, nella musica, non si può sempre dare per scontato. Come se volessero emergere solide certezze, a rassicurare tutti loro e chi li segue.

Non si può non menzionare il lavoro di Marta Salogni (ormai stella indiscussa del mixer al livello mondiale): il disco suona benissimo, molto ben equilibrato, con una profondità che non va a discapito di una chiarezza rara. Un buon mix non va dato per scontato, anche se si tratta di gruppi di alto livello. Ulteriore nota a favore di questa prova, senz’altro tra i dischi migliori della band, nel computo finale dato dai molti ascolti. Ben ritrovati

[*]: i “singoli”, ormai, sono tre o quattro per ogni opera musicale. Potrebbe essere una strategia che va seguita perché si rivela vincente, o perché si crea più attesa. La cosa certa è che, all’uscita di un disco, la musica veramente da svelare difficilmente supera la mezz’ora. Non è questione di quantità; ci sono dischi orrendi per cui anche dieci minuti sono buttati. Francamente, però, resta poco per far vibrare di attesa. Discorsi da vecchi? Sarà, ma anche questo fa parte delle tante cose che un vero appassionato può dire.

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(Maestro)

Bradley Cooper presenta Carey Mulligan in “Maestro”, il film biografico sul leggendario compositore e direttore d'orchestra americano Leonard Bernstein da lui diretto, co-scritto e interpretato, in una scena che sembra presa da Hitchcock. Il personaggio della Mulligan scende da un autobus in una strada di periferia, una silhouette aggraziata in un'inquadratura ampia finché il suo viso non emerge in primo piano, catturato da una lente morbida. È un momento intriso di bellezza e amore. La Mulligan interpreta Felicia Montealegre, la moglie di Bernstein per 27 anni e, per molti versi, “Maestro” è una lettera d'amore per lei, Il “Maestro” è, ovviamente, Bernstein, con i suoi straordinari successi come primo americano a dirigere la “New York Philharmonic”, la “London Symphony” e la “Berlin Philharmonic”, ma il titolo avrebbe potuto facilmente riferirsi a Felicia.

Era la padrona del suo cuore e della sua anima nella loro complessa relazione, segnata dalle sue continue relazioni con gli uomini. I due si incontrano quando Bernstein ha vent'anni e aveva appena debuttato alla “Carnegie Hall” : è un trionfo e la sua stella sorge rapidamente. Lenny, come viene soprannominato, e Felicia si incontrano a una festa e sono attratti l'uno dall'altro come le falene dalla fiamma. Il loro carisma si rivela irresistibile l'uno per l'altro e per il pubblico. Proprio come ha fatto in “A Star is Born”, con Lady Gaga, Cooper ha un talento prodigioso nel recitare al fianco di se stesso. Lui e Mulligan hanno una forte alchimia sullo schermo e quei primi anni, girati in un caldo bianco e nero, pulsano di raffinatezza, come nei vecchi film degli anni ‘50 e che andrebbero rivisti, ogni tanto.

Cooper stabilisce che la posta in gioco è il loro amore e questo rimane palpabile nel corso degli anni, mentre i contrasti emotivi si scatenano quando lui è sempre più portato a soddisfare i suoi altri desideri. Anche nella scena culminante in cui la coppia affronta la resa dei conti, durante la parata del giorno del ringraziamento, quando un gigantesco Snoopy gonfiabile fluttua sullo sfondo, c'è un peso in ogni parola detta e non detta: è scritta benissimo, con la camera fissa su due protagonisti, senza artifici di sorta.

(Maestro)

Ciò che risulta notevole è che, nonostante la connessione tra Lenny e Felicia sia così forte, quando i personaggi sono lontani l'uno dall'altro, sono ancora esseri completamente uniti. Quando il regista ricrea la straordinaria direzione d'orchestra di Bernstein della “Resurrezione” di Mahler alla Cattedrale di Ely nel Regno Unito, è così energico e avvincente. Soprattutto lo sguardo di pura trascendenza sul volto di Lenny mentre viene travolto dalla musica. Quella sensazione viene trasferita al pubblico. Ma alla fine corre da sua moglie e in quel momento, di puro cinema, si sente netta questa piena sintonia tra i due: è palpabile, letteralmente.

Cooper ha il pieno controllo delle immagini in “Maestro”, che rappresenta un'evoluzione della sua regia. In questo film conosce meglio se stesso e gestisce aspetti difficili della realizzazione di un film comunque complesso e molto “parlato” con maggiore sicurezza. (D.)

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