Alviro

“Alviro Insights: Riflessioni e Creatività” Mastodon

Autunno, foglie che cadono con la stessa rapidità con cui io perdo la pazienza. Il vento sibila tra le vie della città, mentre il mio caffè si raffredda perché ho perso tre minuti a fissare il vuoto, chiedendomi se oggi sia il giorno giusto per rivoluzionare la mia vita. Spoiler: non lo è.

Una foglia si stacca, fluttua, cade. Un po' come le mie speranze quando vedo l’estratto conto. Tocca terra e si confonde con la sua ombra, come me quando cerco di sembrare sicuro di me in una riunione di lavoro. Tra parole dette e non dette, tra messaggi scritti e mai inviati, tra sogni e sveglie posticipate, il tempo scorre come un autobus che non si ferma.

Ma in fondo, tra tutto questo scorrere, tra le onde del mare e del Wi-Fi ballerino, una cosa resta: ciò che conta davvero. Il ricordo di una risata sincera, il sapore di una serata semplice, la voce di chi ci vuole bene. Uno sarà l’uguale del niente, certo, ma l’unità consisterà sempre nel due: nei legami, nelle mani che si stringono, nei piccoli momenti condivisi.

Morale della favola? Il caffè si raffredda, la vita scorre, ma il tempo per ciò che è importante bisogna prenderselo. Anche se significa perdere tre minuti a fissare il vuoto.

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Nello specchio non mi compiaccio, ma nemmeno mi dispiaccio. Diciamo che mi osservo con la stessa attenzione con cui guardo il soffitto quando qualcuno mi parla di criptovalute. La neve intorno è spenta, il che mi sembra un problema da affrontare con il servizio meteorologico più che con la poesia, ma tant’è. E poi c'è questo vetro, questo riflesso, questa illusione che riscalda le esibizioni di seta… io con la seta non ci vado tanto d'accordo, mi scivola addosso come le promesse elettorali.

Ghiaccio, inconscio, abissi… insomma, sembra il titolo di un film indipendente che vincerà un premio che nessuno conosce. Però è vero, certi pensieri sono come la carta moschicida: ci resti incollato senza volerlo. Un’ossessione che nasce da un breve scatto mnemonico? Io direi che il vero problema è che ho visto troppi film horror da piccolo, e ora ogni scricchiolio in casa è una presenza ultraterrena e non, più semplicemente, il frigo che si accende.

E poi c’è questo concetto del varcare la soglia. Io la soglia la varco ogni giorno, quella del supermercato, della banca, del bagno quando mi rendo conto che ho dimenticato di portarmi dietro il telefono. Ma questa sembra una soglia più definitiva, di quelle che implicano un “finalmente potrò riabbracciarvi”, il che mi fa riflettere su quante persone mi abbraccerebbero davvero senza secondi fini (tipo fregarmi il cappotto nuovo).

Senza età né tempo sarete, dice. Bello, ma mi fa venire in mente quei momenti in cui il lunedì mattina perdo il senso dello spazio e del tempo e mi chiedo se sono in ritardo per qualcosa o se ho appena perso una settimana intera. Pace troverò in quell’abbraccio… oddio, spero sia un abbraccio sincero e non di quelli impacciati tipo “non so dove mettere le mani”.

E poi l’eterna questione degli errori fatti e delle cose non dette. Se dovessi scrivere una lista, servirebbe un papiro lungo quanto la fila alla posta il primo del mese. Ma alla fine, la vera domanda è: meglio pentirsi di quello che si è fatto o di quello che non si è fatto? Io, nel dubbio, continuo a rimandare tutto a domani. O a mai.

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E la poesia, sì, quella cosa che dovrebbe danzare leggera nell’aria, come una piuma trasportata dal vento... e invece eccola qui, pesante come un macigno sulle mie spalle. Avanza, sì, ma non delicatamente—piuttosto come un rinoceronte in corsa, deciso a travolgermi.

Mi sfiora l’anima? Forse. O forse è solo la digestione che si fa sentire. Eppure, c’è chi dice che la poesia è come una musica infinita, che risuona nella mente e nel cuore. Beh, la mia mente risuona, ma più che altro di domande tipo: “Dove ho messo le chiavi?” e “Perché ho aperto il frigorifero se non ho fame?”.

E poi la vita… ah, la vita! Un soffio, un battito d’ali, un respiro leggero. Ma il respiro leggero ce l’ho solo quando mi ricordo di non correre le scale di corsa. Altrimenti, ansimo come un mantice rotto.

E allora, che fare? Abbandonarsi alla poesia, lasciarsi cullare dalle parole, farsi trasportare in un mondo etereo e sublime? O accettare che la poesia, in fondo, è solo un modo elegante per dire quello che potremmo dire in cinque parole semplici ma con molta più enfasi?

Forse non finirò oggi, né domani. Forse vivrò in eterno nei pensieri di qualcuno… O forse solo nella lista dei “Messaggi Non Letti” di WhatsApp.

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Quando sei piccolo, tutto è una favola. La mamma ti dà il bacino della buonanotte come se fosse un incantesimo che ti proteggerà per sempre. Il papà torna dal lavoro stanco ma si illumina vedendo il tuo bel voto a scuola, come se avessi appena scoperto la formula per la pace nel mondo. Ah, l’illusione dell’infanzia! Poi cresci, e improvvisamente ti ritrovi a essere tu quello che accompagna loro, non più per le favole della buonanotte, ma per le scale e per quella strada che sembra infinita. E nel frattempo, i tuoi genitori ti supplicano di scrivere, telefonare, magari anche teletrasportarti a casa almeno una volta ogni tanto.

E mentre sei lì a destreggiarti tra responsabilità e nostalgie, ecco che compare il poeta, quell’essere mistico che cammina scalzo sulla riva del mare, probabilmente perché ha perso le scarpe nel vortice esistenziale. Lui ingabbia il vento—grande impresa, bisogna ammetterlo—per non sentire il proprio lamento, che comunque riesce a far arrivare a tutti sotto forma di versi malinconici. In amore è cieco, e questo spiega molte cose, soprattutto certi messaggi inviati a notte fonda. In vita si nutre di pene e dolori, come se fossero parte di una dieta equilibrata, e in morte sogna di essere ricordato… un po’ come tutti, in fondo.

Ma alla fine, niente è impossibile, no? Basta osare fino a toccare le stelle! O almeno provarci, prima di inciampare nei propri pensieri e rendersi conto che le stelle sono molto più in alto di quanto sembrassero nei sogni da bambini.

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Chiudi bene l’abbaino, ché con tutte queste farfalle in giro potresti ritrovarti in un documentario di entomologia di quelli noiosi. E poi cancelli, porte, pensieri, braccia, cuori e pure frontiere... Ma davvero servono, o sono solo decorazioni urbanistiche per farci sentire importanti?

E loro, le farfalle, se ne infischiano. Stanno lì, a raccontarci di migrazioni impossibili, di spazi aperti che non trovano parcheggio e di pianure che si credono montagne. Che sia vero che “vola solo chi vuole farlo”? Mah, forse serve un corso motivazionale.

Intanto le nostre parole, piene di anidride carbonica e sogni preconfezionati, fluttuano come palloncini a una fiera di paese, pronti a scoppiare in un tripudio di romanticismo d’antan.

E l’Europa, poverina, lì davanti allo specchio, intenta a domandarsi se ha pettinato bene le sue lunghe trecce o se ha solo annodato problemi geopolitici. Le guarda, le sfiora, e pensa: “Forse dovrei tagliarle.”

Intanto le striature di colore si espandono come macchie di caffè sulla tovaglia buona, conquistando spazio senza permesso di soggiorno.

E lei, Europa, tutta intenta a scartare i regali di Natale. Che ci sarà dentro stavolta? Speranze, illusioni, qualche vecchio trattato dimenticato in fondo alla scatola? Oppure solo l’ennesima sciarpa di lana, perché si sa, l’inverno è lungo e le correnti d’aria non perdonano.

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Erano le sei del mattino, o forse no. Magari era un'altra ora, chi lo sa? Il cielo, quello sì, pareva stonato, una pennellata mal riuscita d’artista dilettante. Gennaio? Ma chi ha deciso che Gennaio deve essere così, con l’aria fresca? Una congiura meteorologica.

“Si fece buio.” Certo, perché il buio ha sempre questa tendenza a infilarsi dove non è invitato.

E poi sei andato via, verso il cielo, o magari verso un’altra dimensione. Chi lo dice che non sia finito in un bar galattico a chiacchierare con marziani appassionati di gelsomini? Padre mio, tutto era finito, o forse cominciato. Dipende dai punti di vista, no?

Ti alzavi sempre all’alba, come se il mattino fosse un appuntamento da non perdere. Ti ci vedevo, seduto sui gradini davanti alla porta, in compagnia di un gelsomino che, francamente, era troppo invadente. “Che bello al mattino,” dicevi, come se il pomeriggio non valesse un soldo bucato.

Ma cos’è questa serenità di cui parlavi? Io non l’ho mai vista, né al mattino né al tramonto. Però a te bastava, con quella gioia minimalista.

E poi quel giorno di Gennaio – sì, torniamoci – il grano non era maturo, come se avesse deciso di fare sciopero. Le nocciole? Nemmeno l’ombra. E le olive argentate, quelle stavano ancora discutendo su come brillare al sole. Un silenzio così, però, mica lo trovi dappertutto.

Nella strada tutto taceva, persino il lampione, che aveva mollato la presa. Le scale scricchiolavano come vecchi signori col mal di schiena, e il gelsomino, lui, sempre lì, a fare il protagonista.

Si fece buio. Ancora. Una ripetizione cosmica, quasi noiosa, come il cielo che, commosso, piangeva. Ma cosa piangi, cielo? Forse era solo un altro sbalzo d’umore atmosferico.

Si fece buio. E io, francamente, accesi la luce.

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Tra le ombre nasce un pensiero, Ho intravisto la luce d’un mistero. Echi lontani risuonano nel cuore, Il tempo si ferma, sussurra parole. Ho trovato me stesso nel silenzio interiore.

Tra le scartoffie cerco un'idea, Ho finito il caffè, tragedia che crea. Eppure resisto, non mollo la scena, Il genio latita, che pena, che pena. Hai voluto una poesia? Ecco, una chimera!

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Nel silenzio d’un sogno nascosto, Gocce di stelle danzano nel buio, Onde leggere s’infrangono al cuore, 4 passi verso l’infinito ignoto.

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Colpa. La parola rimbalzava nella mia mente come un’eco, un termine che sembrava sfuggente, scivolare tra le dita senza mai lasciarsi afferrare davvero. Un verbo che sussurrava scuse ancor prima che si potesse comprendere il peso della colpa. Mi immaginavo in una sala vuota, con i piedi che battevano sul pavimento di legno scuro: ogni passo un’espiazione, ogni rintocco un’ammissione di qualcosa di non detto.

E poi, Assenza. Ah, Assenza. Un nome che emergeva come una sagoma in lontananza, un fantasma che si rifiutava di dissolversi. Non era un uomo, forse non lo era mai stato. Era una metafora, un simbolo di tutto ciò che si muove ai margini del nostro campo visivo. Mi chiedevo cosa stesse facendo ora, Assenza, se ancora fissasse l’orizzonte con quegli occhi che sembravano chiedere perdono per il mondo intero.

E io, tra Colpa e Assenza, mi sentivo sospeso. Una linea tesa tra il bisogno di giustificarmi e il desiderio di sparire, di dissolvermi in quel silenzio che Assenza sembrava incarnare. Forse lui sapeva, forse aveva sempre saputo. Ma non avrebbe mai detto nulla. Non è forse questo che fanno i fantasmi del mondo? Restano silenziosi, lasciando agli altri il compito di parlare, di spiegare, di scusarsi.

Ed eccolo lì, ancora una volta. Assenza.

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Ruggito. Una parola che emerge come un tuono sommesso, un’eco che scivola nelle pieghe del tempo. Siamo davvero così lontani, noi, dalla loro semplicità? Un pensiero ribelle s’insinua: forse no. Forse siamo solo una sovrastruttura complicata, impegnata a giustificarsi, a distinguersi, a gridare al mondo: “Guardateci, siamo superiori!” Eppure, nel buio, quando tutto si riduce all’essenziale, il cuore batte allo stesso modo: un tamburo universale, sordo a ogni linguaggio, cieco a ogni gerarchia.

Respiro. La foresta entra dentro di noi come un respiro profondo, un luogo dove il linguaggio umano si spezza, incapace di contenere l’immensità di ciò che cresce, muore e rinasce. Le parole, lunghe e strutturate, somigliano ad alberi dai tronchi intricati, piegati sotto il peso di un significato antico, radicato nel tempo. Ordine e caos: due estremi di una danza perpetua. Natura grezza contro la sua gestione industriale, istinto contro controllo. Chi siamo noi, in fondo? Semplici osservatori? Burattini di un sistema che ci obbliga a misurare, catalogare, dominare? Forse entrambe le cose. O forse nessuna.

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