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Sun Ra salì a bordo dell’Arkestra per la prima volta negli anni Cinquanta, e rimase nella nave per i suoi viaggi spaziali esplorativi e pionieristici nella musica jazz fino alla sua morte avvenuta nel 1993.

Da lì in poi, il collettivo Arkestra continuò con i vecchi membri. Sono stati in grado di farlo perché per decenni l’Arkestra si è evoluta in una nave spaziale in continua evoluzione, viva e respirante di forte unità, come poche nella storia della musica.

Tutto questo è nato dall’approccio Jazz dello stesso Sun Ra, che poteva plasmare un suono che aveva echi di jazz tradizionale, New Orleans, progressioni classiche, fusione elettronica e sperimentazione varia, lontano e oltre il regno dell’immaginazione, raggiungendo un’altra dimensione, presentandosi spesso vestito con abiti futuristici.

Che i Sun Ra Arkestra siano stati un progetto impenetrabile, radicale, impossibile da definire è un eufemismo e di conseguenza, per l’ascoltatore distratto, ha gravato loro la reputazione di musica difficile e complessa.

Se si da tempo e attenzione, tuttavia, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.

Spesso perso tra il travolgente assalto di immagini, stili musicali intrecciati e innovazioni sonore, gli Arkestra hanno in molte occasioni prodotto alcune delle più belle musiche jazz della nostra vita e Living Sky è in prima linea in questa modalità.

Living Sky è un lavoro spirituale, ipnotico e, in tal senso, melodico e groove. In sintesi una musica accessibile e curativa nell’era del Covid.

Al fine di realizzare questa visione, l’Arkestra ha messo insieme una raccolta completamente coesa di un’ora di musica unificata che comprende sia composizioni originali, gli standard, e pezzi di Sun Ra riarrangiati con evoluzioni classiche e familiari al suo canone.

Questo è uno di quegli album ricchi di bellezza propria, che sanno placare gli affanni del mondo.

Un vero piacere per le nostre orecchie.

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A nove mesi dall’uscita del disco e dopo ascolti su ascolti viene confermata la regola generale applicata ai dischi e quindi quella di ascoltare più volte le tracce prima di esprimere un giudizio.“La mia patria attuale” ha bisogno di serenità d’animo, di silenzio e di un ascolto attento. E poi dopo, quando la musica tace, di una riflessione silenziosa. Più e più volte. “La mia patria attuale” è un disco intellettuale, quasi letterario.

La scelta di pubblicato il 21 gennaio non è casuale: il 21 gennaio (1921) è nato il Partito Comunista d’Italia e il 21 gennaio (1924) è morto Lenin. Due riferimenti importanti per l’artista, ancora fedele alla linea dei CCCP e CSI, di cui coltiva la memoria collettiva.

Se ci si ferma un attimo a riflettere non stupisce questa scelta. Zamboni è di Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore e soprattutto terra resistente e partigiana. E i partigiani si definivano patrioti, senza vergogna: perché con il loro sacrificio hanno provato a lavare l’onta del fascismo e ridare dignità all’Italia.

“La mia patria attuale” traccia una visione approfondita sulle correnti incapacità di un’Italia che non sembra più in grado di valorizzare il proprio immenso passato culturale e sociale, lasciato ormai quasi all’abbandono e dove l’importante termine “Patria”, la terra dei padri, viene sempre più utilizzato con faciloneria per interazioni persino irrispettose di quell’aureo significato.

Esiste davvero l’Italia o è solamente una mera espressione geografica? Esistono davvero gli italiani? Ha senso cercare la nostra coscienza comune? Riusciremo ad andare oltre questo sciagurato “mare nostrum” di delusioni brucianti e promesse mancate? Sapremo svincolarci e liberarci dal disordine, dal cinismo, dalla paura e dall’ignoranza che sembrano condannarci a restare, per sempre, proni e piegati, in balia dei peggiori governi e di una classe politica che è incapace di guardare con fiducia costruttiva al futuro, incapace di offrire prospettive alternative, incapace di uscire dai soliti schemi mentali e dai soliti luoghi comuni, ma si ostina a vivere nella menzogna di uno sterile, paranoico e frustrante eterno presente, pur di conservare i propri privilegi e la propria posizione?

Per la prima volta in carriera l’ex-Cccp e Csi si lascia trascinare pienamente nel mondo cantautorale, un territorio che non è mai stato tra i suoi preferiti, ma nel quale sembra finalmente accedere con attenta curiosità e assoluta padronanza. La capacità compositiva è sempre stata una delle sue doti più spiccate, non solo in musica – è pregiata la sua carriera parallela di scrittore – e in questo progetto il cuore pulsante del pensiero dello Zamboni cittadino italiano prende il sopravvento su tutto il resto.

I dieci brani di “La Mia Patria Attuale”, ricchi di combattive sonorità di matrice folkeggiante, di una narrazione cantautoriale cruda e malinconica, di una vibrante e accattivante poesia, di chitarre e pianoforte, organo e mellotron, offrono al pubblico quello che, ad un primo ascolto, potrebbe apparire solamente un ingannevole e insensato conforto, un dolente susseguirsi di invocazioni a Dei inesistenti che si mostrano sordi alle nostre preghiere, ciechi e insensibili dinanzi alle dolorose tragedie che sconvolgono il mondo. In realtà, però, queste invocazioni sono rivolte soprattutto a noi stessi – agli sciagurati, ai reietti, ai diversi, agli emarginati, agli esclusi – spronandoli, attraverso quelle ritmiche e quelle percussioni che appartengono alla nostra storia comune, a rivoltarsi contro questa delirante e brutale visione della società.

A dominare non sono le chitarre distorte, l’elettronica ma è la voce, la sua voce. Che canta, racconta, sussurra sulla musica, creando dei momenti profondi e di forte impatto emotivo.

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La musica come forma di protesta e resistenza è un fenomeno che esiste da tempo immemorabile. In tempi di disordini politici e sociali, è diventato un rifugio vitale per i musicisti. Agisce come una valvola di sfogo per le loro lamentele e convinzioni e un appello clamoroso per il loro pubblico. I risultati sono migliorati se si stabilisce un senso di connessione emotiva tra i due. Questo potere simbiotico è stato particolarmente potente dove gli indigeni sono stati oppressi. Beja Power!, Electric Soul & Brass From Sudan’s Red Sea Coast, è un disco che perpetua questa nobile forma di espressione e dissenso. I Beja (pronunciato Bee-Jah) sono un gruppo etnico di circa 1,2 milioni di persone che abitano in Sudan, Egitto ed Eritrea. Scolpiti in geroglifici, sono un’antica comunità, che fa risalire i loro antenati a millenni. Alcuni etnografi credono che siano tra i discendenti viventi dell’antico Egitto e del regno nubiano di Kush. Nella storia recente, hanno vissuto principalmente nel deserto orientale, ed è sulla costa sudanese del Mar Rosso che questo album ci trasporta.

Nonostante la sua giovane età, Noori, desidera mantenere viva e contemporanea la musica di Beja. Della stessa cultura Beja, si sa poco; una politica deliberata. La loro terra a est, vicino al Mar Rosso, è ricca d’oro e i successivi governi sudanesi hanno ignorato le pretese di Beja per il riconoscimento e l’accesso alla ricchezza all’interno del loro suolo. In particolare, sono stati completamente emarginati sotto il duro governo di oltre 30 anni dell’ex uomo forte Omar al-Bashir. In effetti, Bashir ha condotto una campagna per cancellare la cultura, la lingua e la musica dei Beja e negare loro il diritto a un sostentamento dignitoso.

È in questo contesto che la sua banda Dorpa si è formata nel 2006 e, sebbene le condizioni per i Beja siano cambiate poco dalla cacciata di Bashir nel 2019, sono stati in prima linea nel cambiamento politico in Sudan; ad esempio, manifestano regolarmente e chiudendo il porto più grande del paese. Noori crede fermamente che scatenare la musica Beja integri pienamente tali atti di protesta.

Registrato in Omdurman, oltre al leader Noori con la chitarra histambo, gli altri musicisti che compaiono nell’album sono Danash (tabla), Fox (chitarra ritmica), Gaido (basso), Naji (sax tenore) e Tariq (chitarra ritmica ). In qualche modo paradossalmente, la musica stessa, provocatoriamente afro-jazz sottolineata da ipnotizzanti ritmi sudanesi, suona genuinamente globale. Elementi di assouf, blues, jazz, rock, soul elettrico, psichedelia e surf permeano queste melodie storiche aggiornate, forse non influenzate, ma evocative, del Sud-est asiatico, del Nord America, delle Ande sudamericane e del Sahara.

Ognuna delle sei tracce strumentali rappresenta un aspetto della vita di Beja e c’è una netta differenza nell’arrangiamento, nella forma, nell’umore, nella sensazione e nella melodia di ciascuna. Figure increspate di chitarra da surf che duellano con il soulful sax tenore e linee di basso sonore, i ritmi funky incrociati di tabla e congo costruiscono tutti irresistibilmente sia in slancio che in volume, e proprio mentre pensi che il clima sia stato raggiunto, un assolo di chitarra vertiginoso eleva il accordare ancora più alto.

Beja Power! riesce eminentemente ad essere un potente atto di sfida, un’acclamazione e una testimonianza di devozione per la cultura Beja e un’esperienza musicale assolutamente piacevole.

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Figlio del compianto Ali Farka Touré, ampiamente acclamato come il più grande chitarrista africano di sempre, Vieux Farka Touré incarna l’interpretazione moderna dell’anima del blues in Africa. Le sue melodie urbane ed elaborate e il modo di suonare la chitarra da virtuoso gli sono valsi il soprannome di “Hendrix del Sahara”. Vieux si è affermato, nei suoi cinque album da solista fino ad oggi, come un illustre musicista che ha enfaticamente ampliato i confini della musica dell’Africa occidentale. Con questa sua ultima uscita, Les Racines, che si traduce come “Le Radici”, il titolo dice tutto, Vieux ritorna con un suono che si ricollega con la musica tradizionale Songhai settentrionale del Mali, introdotta nel mondo intero da suo padre e assegnata all’etichetta occidentale “Blues del deserto”.

Ali, disapprovava il desiderio di suo figlio di diventare un musicista, anche se lui stesso aveva sfidato i suoi stessi genitori nel farlo. Ignorando questo consiglio, Vieux inizia la sua carriera di musicista come batterista e suonatore di calabash (una zucca) all’Institut National des Arts del Mali, per poi iniziare segretamente a suonare la chitarra nel 2001. Poco prima della morte di Ali, e grazie all’aiuto dell’amico di famiglia Toumani Diabaté, il maestro di kora, Vieux ha ricevuto la benedizione di suo padre per diventare musicista, infatti ha contribuito all’omonimo album di debutto di Vieux.

Quando la pandemia di Covid ha colpito nel 2020, la mancanza di opportunità di tournée ha colpito duramente questo prolifico artista di performance dal vivo, ma allo stesso tempo gli ha dato l’opportunità di allacciarsi le cinture e lavorare instancabilmente per due anni su un progetto che in realtà era in cantiere da molto tempo. Come spiega, “Ho avuto il desiderio di fare un album più tradizionale per molto, molto tempo. È importante per me e per il popolo maliano rimanere in contatto con le nostre radici e la nostra storia… Tornare alle radici di questa musica è una nuova partenza per me e non ho mai trascorso così tanto tempo o lavorato così duramente su un album… molto tempo per riflettere su come farlo e metterlo insieme”.

Vieux è affiancato nell’album da una serie di musicisti ospiti tra cui Moussa Dembel alle percussioni, il fratello minore di Toumani Diabate, Madou Sidiki Diabaté alla kora nella title track e su Lahidou, Kandia Fa con l’ n’goni, Marshall Henry al basso, Souleymane Kane con la calabash, Modibo Mariko anch’esso al basso, Cheick Tidiane Seck alle tastiere e Madou Traoré al flauto. Inoltre, si può sentire Amadou Bagayoko, di Amadou & Miriam, suonare la chitarra in Gabou Ni Tie .

Le dieci canzoni dell’album sono tutte composizioni originali e trattano una vasta gamma di argomenti, comprese riflessioni personali sull’amore, la famiglia, i ricordi, insieme a questioni sociali contemporanee come il rispetto, l’unità e la compassione, temi importantissimi in un paese in cui alti tassi di analfabetismo significano che la musica è il principale metodo di diffusione della conoscenza e dell’informazione.

Nonostante avere un padre famoso può essere un’eredità difficile, Vieux è diventato un impressionante rappresentante del blues africano, ha rivendicato per se stesso le luci della ribalta e ha suscitato scalpore con un’idea radicale: sposare le sue radici musicali, fortemente influenzate dalla regione del Sahara occidentale. La sua musica riflette l’Africa contemporanea: urbana, sofisticata, globalmente connessa senza trascurare l’orgoglio del patrimonio culturale. La sua musica è moderna e rock, ma lascia comunque che i cammelli passino tranquillamente davanti all’occhio interiore.

Vieux ha affermato che “L’album è un omaggio a mio padre ma, altrettanto importante, a tutto ciò che ha rappresentato e per cui ha rappresentato”. Les Racines non è solo un album di cui Ali Farka Toure sarebbe stato orgoglioso di assistere alla perpetuazione delle tradizioni e delle credenze che ha sposato e abbracciato, ma conferma anche che musicalmente Vieux è ora il legittimo erede del suo illustre padre.

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