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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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“Spero che questo album porti gioia, amore, pari opportunità, giustizia, pace, comprensione e unione al mondo”. Femi Kuti

A cinque anni da “No Place For My Dream”, e a quasi trenta dalla sua prima pubblicazione “No Cause for Allarm”, Femi Kuti pubblica il suo decimo lavoro “One People One World”, disco composto da dodici tracce. Il figlio di Fela Kuti, leggenda e pioniere dell’Afrobeat, a differenza della rabbia giusta che ha ispirato quasi tutte le sue precedenti registrazioni, dove mischiava convinzioni combattive sulla libertà e sulla democrazia sociale, è tornato con un disco che genera un messaggio di speranza e riconciliazione.

Femi Kuti è il cuore e l’anima del moderno Afrobeat creato dal padre Fela. L’Afrobeat ha spinto diverse generazioni di musicisti a usare la musica in Nigeria e in tutto il mondo come arma per combattere a favore della giustizia e la libertà. Femi e il suo gruppo, Positive Force, sono in prima linea in questo movimento, espandendo continuamente il vocabolario della musica, aggiungendo note punk e hip-hop al suono, pur mantenendo queste radici tradizionali e il messaggio politico.

Registrato in gran parte a Lagos, in Nigeria, “One People, One World” vede Femi e i Positive Force, tornare alle radici africane della musica. Le note di reggae, highlife, soul, R & B e altri sapori africani, caraibici e afroamericani, compongono un grande mix sonoro, aggiungendo profondità e complessità agli arrangiamenti, senza disturbare il suono caratteristico di Femi:

“Quando ero piccolo, ascoltavo funk, highlife, jazz, canzoni folk, musica classica e composizioni di mio padre, quindi senti queste cose nella musica, ma tutto in questo album viene rigorosamente dal mio cuore e dalla mia anima. Come l’Africa stessa, Afrobeat ha infinite possibilità nella sua struttura. Mentre suoniamo dal vivo a Shrine, le canzoni si evolvono, assorbendo l’energia del pubblico. È come dipingere, con i colori cangianti e le tonalità dei ballerini che colorano la musica. Quando stiamo registrando in studio, si sentono tutte queste influenze e si muovono insieme.”

In questo disco, le radici del ritmo, nella sua forma rituale più ancestrale ed esoterica, affondano nel cuore del continente africano, ed è indubbio che dall’Africa si siano diffuse in tutti i continenti grazie alla presenza di figure carismatiche come Fela Kuti prima, rivoluzionario poli-strumentista nigeriano, che ha contribuito alla nascita di un vero e proprio genere, l’Afrobeat, e Femi Kuti poi, che, mischiando elementi della tradizione yoroba a sonorità più vicine al funk ed al jazz, tradizione del popolo africano, hanno saputo amplificare gli echi di quel battito primordiale.

#duemiladiciotto

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Sin dalle prime note la musica trasporta istantaneamente gli ascoltatori in un viaggio all’interno del proprio spirito e allo stesso tempo in un viaggio nel mondo reale. Un’esplorazione della musica afro-cubana in tutte le sue forme, una intensa meditazione sui cicli della vita e dell’esistenza. Il “piano” di Sosa non è uno strumento musicale, ma un condotto di consapevolezza spirituale e la “kora” di Keita una elegante dichiarazione di gioia.

La foto di copertina sintetizza perfettamente il mood dell’album; due musicisti provenienti da angoli lontani del globo, faccia a faccia, ognuno con il proprio carico di esperienza ed ispirazione: unico limite il cielo. E questo lavoro non è solo un semplice incontro tra artisti diversi e complementari, nel quale il pianismo del cubano Sosa si limita ad accompagnare le evoluzioni della straordinaria kora del senegalese Keita. Transparent Water è uno dei viaggi più complessi mai intrapresi nell’ambito della world music; nel disco sono presenti strumenti e musicisti provenienti da ogni angolo del Mondo.

Ne risulta un disco meticcio e multiforme carico di caldi accenti sudamericani, struggenti melodie africane ma anche di sinuosi ritmi e fascinazioni provenienti dalla tradizione dell’estremo oriente, con profumi jazz e blues. Merito dei due protagonisti e della messe di ospiti che popolano il disco: le percussioni del venezuelano Gustavo Ovalles, il koto della giapponese Mieko Miyazaki, il nagadi di Mohsin Kahn Kawa e il geomungo della coreana E’ Joung-Ju. Un disco senza confini, nel quale la vastità degli orizzonti musicali contribuisce a trasportare l’ascoltatore attraverso un percorso sonoro estremamente affascinante.

#duemiladiciasette

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Nel 2006 usciva una compilation di cover intitolata Yo La Tengo Is Murdering the Classics, in cui la band di Hoboken aveva raccolto una serie di cover suonate dal vivo durante un evento di raccolta fondi per la stazione radio indipendente WFMU.

In quell’occasione le canzoni erano a richiesta: gli ascoltatori ne chiedevano una via telefono e la band si cimentava nel suonarla a memoria, con risultati alterni.

Ora, dieci anni più tardi, viene alla luce un secondo lavoro intitolato, appunto, Murder in the Second Degree, una nuova raccolta di cover improvvisate.

Oltre alla pregevole copertina, di nuovo opera — veramente dark — di Adrian Tomine, il disco non è da meno. I brani “coverizzati” hanno la pregevole peculiarità di essere tutti “marchiati” Yo La Tengo, un suono, un marchio, una garanzia.

#duemilasedici

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La carriera musicale di Youssou N’Dour inizia a sedici anni quando nel 1975 entra nell’orchestra Star Band di Ibra Kasse. Successivamente la sua esperienza maturerà tra le varie band di Dakar e del Senegal, collaborando con musicisti del calibro di El Hadj Faye e creando il suo primo gruppo denominato “Etoile”. Sarà proprio da questo gruppo che nascerà e crescerà lo “Mbalax”, l’ultima evoluzione della musica senegalese. Successivamente la collaborazione con Peter Gabriel e Neneh Cherry lo porterà alla fama mondiale. Ora il cinquantottenne cantante e compositore, diventato tra l’altro anche ministro della cultura e del turismo, si mette in evidenza pubblicando il suo 34° album.

“Africa Rekk” significa in Wolof, la lingua nazionale del Senegal: “Solo l’Africa”. Ed è probabilmente l’album più africano che Youssou N’Dour abbia mai lanciato sul mercato internazionale; i ritmi mbalax senegalesi in alcune canzoni, le ballate e i suoni in generale lo testimoniano.

Si tratta di un viaggio attraverso l’Africa e per l’Africa, dove per prima cosa l’Africa è mostrata in modo positivo. Un viaggio che parte dal Senegal in Africa centrale e vuole espandersi verso l’esterno. Una corrente sonora dove i giovani fanno musica perchè esce dalle proprie radici, dal proprio essere e non per copiare ciò che viene dagli Stati Uniti o l’Occidente in generale.

I duetti con il rapper Akon, che è di origine senegalese e il congolese Fally Ipupa Stella completano questo viaggio musicale.

Youssou N’Dour ha dimostrato che un senegalese pur rimanendo nella sua casa di origine, può fare comunque una carriera internazionale. Il ragazzo con la voce d’oro, nato nel 1959 a Dakar, nella Medina, ha fatto della sua musica “Mbalax” la numero uno di fatto e, di conseguenza, di lui il cantante africano più famoso al mondo.

“Ho voluto creare posti di lavoro, e ho voluto dare voce a chi altrimenti sarebbe stato ignorato”

Due canzoni di questo nuovo album sono dedicate a leader spirituali del Senegal, eroi delle confraternite religiose di cui Youssou N’Dour fa parte: la confraternita di Mourides, il cui motto è “pregare e lavorare”.

“Oggi, i giovani hanno bisogno di una guida, specialmente in Africa, che è molto importante. Per quanto accade perché alcuni sviluppati, ma non dobbiamo dimenticare i nostri valori. Il Senegal è un modello di benvenuto. Le confraternite creare la pace, partecipano alla vita sociale, essi siano ascoltate e rispettate. Questo è uno dei motivi per cui il 95 per cento musulmani e cinque per cento cristiani e le altre religioni vivono insieme nel nostro paese in una molto buona coesione.”

“Africa Rekk” è un ponte della musica africana di ieri, oggi e domani. E’ un album tributo ai giovani africani che sono la più grande ricchezza del continente e che l’artista chiama a credere in se stessi e nel loro futuro in Africa.

#duemilasedici

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Il nuovo album dei Sidestepper, il sesto della loro storia ventennale, è anche il loro più significativo, non solo perché Supernatural Lovearriva dopo sette lunghi anni di silenzio e dieci dal loro ultimo lavoro con materiale originale, ma perché rappresenta una svolta decisiva e matura nella loro carriera. Con la collaborazione di un collettivo elettro-cumbia britannico/colombiano, Supernatural Love mette in evidenza le origini Colombiane e Caraibiche della band. Dal momento dell’uscita del singolo “Come See Us Play”, era chiaro che i musicisti avevano lo scopo di recuperare il maggior numero di personaggi organici ed endemici della loro cultura. Supernatural Love è una immersione totale nella tradizione colombiana. Un recupero delle radici caraibiche e africane ma sviluppate anche con aspetti folcloristici del paese latinoamericano.

Queste caratteristiche sono senza dubbio il filo conduttore che aiuta Supernatural Love a guardare a un suono completo. In tutte le undici tracce dell’album, si può godere di una sensazione trasparente e continua, che ci accompagna indietro nel tempo per farci rivedere le origini di espressive musicali colombiane.

La natura essenziale del disco è in ultima analisi, incarnata nei testi. Un “Amore Soprannaturale” è la caratteristica trasformata in immagini elementari e icone: i quattro elementi, le stagioni, la gioia di vivere e la suadente “carnalità” Caraibica per la vita, sono evidenziate nelle canzoni che raccontano semplici avvenimenti sociali, storie d’amore, racconti ispiratori e le chiamate incoraggianti, che inducono e rafforzano lo spirito comunitario e il senso di condivisione di valori ed emozioni comuni.

Più si ascolta “Amore Soprannaturale”, più ci si rende conto di quanto ci mancano gruppi come i Sidestepper e l’atmosfera positiva che riescono a creare. Tornati finalmente in tutto il loro splendore, non ci resta quindi che gioire.

#duemilasedici

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“Secondo me la miglior musica è sempre quella che suona come se non ci fosse stato nulla di scritto prima di essa. Se possibile, bisogna sempre tornare a ripartire dal silenzio”

Con queste parole Keith Jarrett esprimeva il suo personalissimo concetto di musica fatto da continue scoperte. Settanta minuti d’improvvisazione geniale, un continuo smussare pensieri musicali in evoluzione con impostazioni fluide e un particolare uso percussivo delle tastiera. Jarrett non è un caposcuola, non ha discepoli devoti, eppure è un maestro unico. Il ‘concerto di Colonia’ carpisce un momento di grandissima creatività. Il pianista sceglie un suono o una frase e la elabora estemporaneamente, senza premeditazione alcuna, solo con meravigliosa spontaneità e gusto imprevedibile.

“Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. E’ come partire da zero”.

Passaggi veloci, prepotenza generosa di estrema liricità ed una grande musica senza spartito che poggia le sue basi, oltre che sull’abilità tecnica, sulla possibilità di continuare ad inserire nuovi suoni, nuove melodie.

Un artista randagio che cercherà ancora la sua poesia interiore con modalità inusitate, con avventure roboanti e per certi versi eccessive. Questa resta indubbiamente l’essenza sublime del suo inarrestabile pianismo, un album jazz che a tutt’oggi ha venduto qualcosa come duemilioni e mezzo di copie.

“Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, lasciarla essere”.

#millenovecentosettancinque

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A sei anni dall’ottimo Well never turn back e a tre dal buon You are not alone, ritorna Mavis Staples con “One True Vine”, quattordicesima incisione della sua ultra quarantennale carriera.

Da cantante gospel qual’è, è ancora la fede il comune denominatore dei suoi testi, ma è sempre la sua meravigliosa voce a renderli superlativi. A fronte dei suoi settantaquattro anni, la Mavis non mostra segni di decadimento ma anzi, come i migliori vini rossi, migliora col tempo.

Continuando la collaborazione artistica con Jeff Tweedy leader dei Wilco, iniziata con “You Are Not Alone” nel 2010, di cui è produttore, anche questa volta la Staples riesce a dare il meglio di sé. Fin dalle prime note è palpabile la passione religiosa per il Vangelo e il suo credo incrollabile ma è poi la sua voce e il feeling che riesce a creare che sanno rendere grandi le canzoni e farle apprezzare anche ai più atei ed agnostici. E’ proprio questa la grandezza dell’artista, una donna che sa esattamente come trovare l’anima di ogni lirica e consegnarla con estrema naturalezza, sincera ed onesta.

L’album cresce di ascolto dopo ascolto, ha un effetto magico che riesce a trasportare e soprattutto ad elevare anche lo spirito meno sensibile… che poi è quello che la buona musica dovrebbe fare, e (anche) in questo disco, la Grande Mavis Staples colpisce in pieno. One True Vine è un ottimo disco ed è soprattutto consigliato alle anime in cerca di pace.

#duemilatredici

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Sono trascorsi quasi quarant’anni dalla sua prima pubblicazione “Hangin’ Around the Observatory” targata 1974, in mezzo ci sono vent’uno dischi, alcuni memorabili come Bring the Family del 1987 e il successivo Slow Turning del 1988, altri ottimi come Perfectly Good Guitar, Crossing Muddy Waters, Master of Disaster e The open Road, alcuni sufficienti, tra gli ultimi Same Old Mandel 2008. Ora, dopo la sua ultima prova Dirty Jeans and Mudslide Hymns dell’anno scorso, disco che non ho avuto il piacere di ascoltare, ritorna con questo Mystic Pinball ed è ancora buona musica.

Hiatt è un grande scrittore, le sue canzoni ne sono la testimonianza. La sua peculiarità è proprio quella di adattare il suono, le note alle parole dei testi che tanto facilmente e soprattutto bene gli riescono. Detto questo è chiaro che la musica non diventa primaria nel suo modo di comporre. Ha il grande dono di saper creare personaggi, di saper risaltare le loro debolezze, la loro disperazione e occasionalmente i loro momenti felici, e tutto questo riesce a farlo con un senso dell’umor assai marcato. Le sue canzoni sono fatte di parole e immagini contornate da musica e anche questo suo ultimo lavoro ne è il chiaro esempio.

In Mystic Pinball, Hiatt esplora i temi della quotidianità affettiva come l’amore, il tradimento, la perdita e la felicità. Temi che per un sessant’enne (compiuti il venti agosto scorso) possono risultare forse “fuori tempo” ma è la sua anima “giovanile” ad avere il sopravvento e probabilmente anche quella che lo fa rigenerare di volta in volta.

Dodici i brani presenti con ballate, chitarre e pianoforte tra i marcatori dell’album. Un disco nel suo genere senza particolari rivelazioni, senza nessun azzardo. Forse qualcuno si aspettava qualcosa di più, forse l’uscita dei suoi album andrebbe un po’ diradata, forse… va bene comunque.

I fans saranno contenti lo stesso, gli altri meno.

#duemiladodici

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Tirando in ballo il cane di Ponzio Pilato chiamato “Banga” (dal libro “Il maestro e Margherita” di Bulgakov), la nostra sacerdotessa del rock pubblica il suo undicesimo album. Disco di inediti (a parte un brano) che esce a otto anni da Trampin’ e a cinque da Twelve, album di solo cover.

Patti Smith pubblica un’album di canzoni, quelle classiche, quelle che seguono la “forma” vera, ballate che raccontano “storie” di persone, fatti e tragedie personali e sociali. Tra i brani infatti, troviamo riferimenti che vanno dal terremoto in Giappone alle scomparse di Amy Winehouse e Maria Schneider. Le dodici canzoni che compongono l’album sono costruite su testi importanti, sono riflessioni ed esperienze, cariche di poesia e di reale vita quotidiana. Dodici canzoni per dodici tributi, dodici omaggi a persone, amici, personalità e popoli che in qualche modo hanno colpito i sentimenti della poetessa e che poi ha messo in musica.

Apre il disco Amerigo, il riferimento è a Vespucci e alla sua scoperta del Nuovo Mondo. Bell’inizio con un “triangolo”: voce, pianoforte e violino, che fa ben sperare. April Fool, letteralmente “Pesce d’Aprile” è il singolo che è uscito guarda caso il primo di aprile. Il brano è un omaggio allo scrittore Gogol, nato in questo giorno. Il terzo brano Fuji-San è dedicato alle vittime dello tzunami che ha colpito il Giappone lo scorso anno. Il suono a sentori orientali/nipponici, naturalmente. This Is The Girl ha sapore decisamente “fifties” ed è il ricordo/tributo a Amy Winehouse, tragicamente scomparsa, l’anno scorso. Il quinto brano Banga, è il risultato di una breve crociera a bordo della Costa Concordia. Ottima canzone che ben descrive il moto ondoso dell’oceano. Altro tributo è Maria, canzone malinconica dedicata alla Schneider, anche lei scomparsa nel 2011 e molto amica della Smith. La seconda parte del disco inizia con Mosaic, i riferimenti sonori questa volta ci portano ai paesi dell’est e proseguono con Tarovsky (the second stop is Jupiter) brano dedicato al regista russo. Dall’est all’ovest con un altro omaggio: Nine, e questa volta è il turno di Johnny Deep omaggiato per il suo compleanno. Il secondo brano (decimo della scaletta) scritto durante la crociera a bordo della costa Concordia è Seneca, fisarmonica e violini la fanno da padroni. Siamo al penultimo brano del disco Constantine’s Dream (Sogno di Costantino), dedicato all’affresco di Piero della Francesca conservato all’interno della basilica di San Francesco. Conclude l’album After the Goldrush brano di Neil Young e unica cover del disco, bellissima versione con tanto di coro fanciullesco finale.

Buon disco Banga, molto fruibile e tra i più orecchiabili che la nostra sessantacinquenne abbia mai scritto ma non per questo è un lavoro superficiale ne tantomeno banale. E’ un disco a tutto tondo dove i testi e il suono vanno a braccetto, tutto condito da un’ ottima qualità. Brava Patti!

#duemiladodici

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L’uscita di questo doppio album in questo periodo della sua carriera è stata una grande sorpresa, se poi è di ottima qualità è uno shock. Morrison ha avuto molto da dire in questi anni sulla sua infanzia e la sua fede, le sue ultime produzioni lo dimostrano ma, nonostante questo, in questo disco, in un modo molto meno obliquo, è riuscito ad aggiungere ancora altro materiale; testuale e sonoro. Di ottima fattura, sicuramente il suo miglior lavoro dal 1986, anno di uscita di “No Guru, No Method, No Teacher”. Il doppio disco è intensamente personale e rivelatore, proprio perché mette in luce i suoi pensieri molto chiaramente. Anche se marcatamente “religioso”, in questo lavoro avvincente, Morrison si rifiuta di “predicare” e si limita a esprimere i suoi pensieri senza forzature.

Organico: Van Morrison (voce, chitarra, armonica, sassofono contralto), Steve Gregory (flauto, sassofono baritono), Candy Dulfer (sassofono contralto), Kate St John (corno inglese), Neil Drinkwater (fisarmonica, pianoforte, sintetizzatore), Haji Ahkba (flicorno), Eddie Friel (pianoforte, organo, sintetizzatore), Georgie Fame (pianoforte, organo, cori), Terry Disley (piano), Derek Bell (sintetizzatori), Nicky Scott e Steve Pearce (bass), Paul Robinson (batteria), Dave Precoda (batteria, percussioni), Carol Kenyon e Katie Kissoon (cori). (Valutazione: Distinto)

“… più vario di tutti gli album degli anni ’80 messi insieme.”, “… altamente raccomandato.”, “… assortimento splendidamente interpretato di R&B country e gospel.”, “… un pieno di quello che Morrison riesce a far meglio.”, “… R&B, boogie, folk-rock, jazz e folk irlandese.”. (Alcuni commenti della carta stampata dell’epoca.)

#millenovecentonovantuno

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