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duemilaventi

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Come il venerato connazionale Salif Keita, il musicista maliano Sidi Touré condivide la particolarità di discendere da una stirpe reale in una famiglia che lo ha poi rinnegato. Nato a Gao, nella regione di Singhai nel nord del Mali, per inciso anche la casa del defunto Ali Farka Touré, (nessuna parentela), situato tra il fiume Niger e il deserto del Sahara, è un paio di centinaia di miglia a est di Timbuktu e la regione dei nomadi Tuareg di fama “desert blues”, un suono che può essere immediatamente riconosciuto nella sua musica. Prima della sua carriera solista, ha diretto The Songhaï Stars di Goa e nel 1984, quando ha vinto il concorso per il miglior cantante alla Biennale nazionale del Mali, un risultato ripetuto due anni dopo. Anche se immerso nella tradizione musicale del Mali settentrionale, il suo lavoro ha avuto una predominante influenza blues e rock che gli è valso un seguito entusiasta non solo nel suo paese d’origine, ma anche altrove, tra cui Nord America ed Europa.

Mentre la sua precedente uscita del 2018, Toubalbero, ha visto un cambiamento radicale verso un approccio elettroacustico, Afrik Toun Mé, vede un ritorno all’acustica pura e essenziale delle registrazioni precedenti, in particolare quella del suo primo disco del 2011 Sahel Folk, un album di sessioni informali registrato con gli amici a casa di sua sorella.

Come per Sahel Folk, l’obiettivo di questa registrazione non è una performance musicale, ma è la conseguenza che crea, la conseguenza del piacere che può essere condiviso da musicisti che si incontrano in studio per dialogare musicalmente, la gioia di divertirsi e l’orgoglio di suonare musica con le sue radici che affondano profondamente nella cultura maliana e nella cultura Songhaï.

Le otto canzoni risultanti di Afrik Toun Mé, che si traduce come ‘Africa Must Unite’ sono sparse, ma alla fine coinvolgenti, cose di grande bellezza, che “mescolano parabole e racconti di ispirazione che onorano il coraggio e la resilienza di fronte a prove e tragedie”. Le note fornite danno dai brevi indizi sul contenuto lirico, ma la barriera linguistica, (per coloro che non hanno dimestichezza con la lingua Songhaï), non è vista come problematica. I sentimenti e le emozioni che emana la stessa musica e i suoni creati, trasmettono più che adeguatamente significato.

Il calore della musica, (caratterizzato dalla scala pentatonica a cinque note che designa la secolare tradizione Songhaï), viene espresso in uno stile di esecuzione che è simultaneamente sia pizzicato che strimpellato, con un risultato inebriante di melodia e ritmo, doppiamente efficace quando le due chitarre suonano l’una con l’altra.

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Questo ultimo album, di Mary Chapin Carpenter, The Dirt and the Stars, registrato nel Real World Studio di Peter Gabriel, può sicuramente unirsi alla lista dei dischi del 2020 che funzionano perfettamente per la nostra comune crisi “mentale” dovuta ai fatti epidemici mondiali.

Il disco della Carpenter funziona particolarmente bene come balsamo calmante, con le sue parole di saggezza scelte con cura che si fanno strada verso di te attraverso una musica assolutamente priva di ansia. Con un sacco di esperienza di vita e di carriera alle spalle: quindici dischi, quindici milioni di copie vendute, 5 Grammy Award, di cui ben quattro consecutivi, su un totale di 15 nomination, Mary Chapin Carpenter è adeguatamente attrezzata per dispensare lezioni di vita e, in un certo senso, è quello che fa in The Dirt and the Stars.

Infatti, questo album caldo e pieno di cuore, la vede spesso invocare l’idea del tempo che passa; e come quel tempo possa sia darti prospettiva e saggezza, sia confortarti dimostrando che non tutte le cose durano per sempre.

In generale, The Dirt and the Stars è un album di brani rilassanti, folkeggianti e scritti in modo eccellente. Le canzoni lente, i ritocchi ambientali, i spigoli rock, non appaiono sicuramente originali ma fanno di questo album fin al primo ascolto, un disco senza tempo, appartenente a qualsiasi epoca.

L’attenzione è sulla voce della Carpenter e sulla strumentazione relativamente scarsa che crea un’atmosfera calda e avvolgente intorno a lei. Oltre alle sue canzoni che abbracciano i sentimenti e l’empatia per gli altri, ne include alcune che esplorano il potere della nostalgia. Qui, il concetto del tempo viene rivisitato non come strumento di apprendimento ma come forza potente.

È un album nel complesso solido, uno di quei dischi che lasciano il segno, che probabilmente non saltano subito alle orecchie ma che con il tempo lascerà un’impressione memorabile nel cuore. Forse un giorno, in un futuro più luminoso, potremo tornare a questo album e ricordare come ci si sentiva ad ascoltarlo durante i mari torbidi del duemilaventi.

Tra i più belli di quest’anno.

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