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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Se il titolo “Neon Bible” e la copertina del Cd possono indirizzarci verso una strada di non facile percorrenza, in realtà la prima sensazione che si percepisce nell’ ascoltare questo nuovo disco dei Arcade Fire è quella di “freschezza”. Dove per freschezza si intende: una musica immediata e vivace.

Neon Bible è il loro secondo disco. Il primo “Funeral” del 2004 riscosse parecchio successo, sia dalla critica sia dall’utenza musicale. E, come succede in questi casi la seconda prova viene sempre attesa al varco: bolla di sapone o reale novità sonora? Direi che è la seconda quella azzeccata.

Gli A.F. hanno voluto prendersi tre anni di tempo, prima di incidere questo bell’album, che viene registrato quasi totalmente in una chiesetta sconsacrata vicino a Montreal (mi ricorda il primo disco dei Cowboy Junkies) mentre per una parte dei cori vanno incidere a Budapest.

L’ambiente in cui si snoda questo capitolo musicale è carico di atmosfere cupe e apocalittiche. Le undici canzoni che compongono questo “viaggio” sono dei veri gioiellini, arrangiati con fantasia e intelligenza.

Questi sette musicisti canadesi, dimostrano di essere un gruppo eclettico e un po’ pazzerello. Producono le loro canzoni con: chitarra, basso, batteria, poi aggiungono archi e vari rumori, trovati non si sa dove. Il suono così creato, sommato a ritornelli cantati dai vari coristi, creano un “sound” personale e autentico, che li rende riconoscibili già dopo qualche ascolto, immatricolando così un genere che è già un loro marchio di fabbrica.

Questo fa si che si elevino di una spanna sulla media della produzione musicale, cosa non facile di questi tempi, e soprattutto per una band alla seconda prova discografica.

#duemilasette

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La musica di Terry Riley sfugge a una precisa classificazione, tra i vari termini che gli sono stati coniati quello forse più appropriato è di “musica minimalista”.

Il primo disco di Riley è “In C” composizione destinata a fare scuola. In C (titolo derivato dalla persistente pulsazione in Do del pianoforte che ne guida lo svolgimento) è del 1964. Questa suite che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo è certamente il suo lavoro meno accessibile. Gli strumenti partono uno dopo l’altro fino ad accavallarsi, seguendo ognuno singolarmente uno schema assai semplice, in modo che i musicisti possano suonando esprimere e trasmettere dei sentimenti, delle emozioni primordiali.

Cinque anni dopo nel ’69 esce questo “A Rainbow In A Curved Air”, in Italia esce nel ’74, ben cinque anni dopo la sua pubblicazione. L’opera che molti considerano il suo capolavoro, e anche il disco che maggiormente ha influenzato altri musicisti: i “Soft Machine”, specialmente con il loro massimo capolavoro che è “third”, la scuola tedesca dai Tangerine Dream in giù, e per finire gli Who che gli dedicarono il brano Baba O’ Riley pubblicato nell’album “Who’s Next”.

L’opera è un inno alla gioia, con gli strumenti sovrapposti che intessono un’atmosfera da “paradiso”. Terry da solo suona organo, clavicembalo e percussioni. I suoni sono ed evocano una struggente saga della nostalgia, dei mondi vaganti e sassofoni impazziti, un rotolare meravigliosamente verso l’Io, senza inganni, un suono nuovo nella mente, con delle figure musicali inafferrabili come i sogni.

Questo è Terry Riley, molto sinteticamente. Musica dello spirito. Musica dell’inconscio. Musica della gioia. Musica della danza. Musica della nostalgia. Musica del pianto liberatore, dell’emozione pura, della pace psicofisica, interiore.

L’ascolto di questo disco provoca, e non può essere diversamente, una certa riflessione: “Bisogna essere molto coscienti dell’azione che il suono ha su di noi, il modo secondo cui ci influenza. Non dirsi: faccio questo esperimento perché è nuovo, ma vedere quale effetto esso ha su di noi, dentro di noi. Chi fa musica ha una responsabilità, perché fabbrica le vibrazioni. E’ come fabbricare un prodotto chimico, un profumo. I musicisti hanno questa responsabilità: trovare come fare le migliori vibrazioni possibili”.

#millenovecentosessantanove

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C’è ancora bisogno di commentare un’opera come questa?, di dire chi era ed è diventato per tutti i cultori della musica sperimentale, Demetrio Stratos? Io credo di si. Basta ascoltare Arbeit Macht Frei, per capirlo.

Se pensiamo poi che un genio della sperimentazione musicale, un rivoluzionario dello “strumento-voce”, ma soprattutto un uomo dotato di un’umanità fuori dal comune ci ha lasciati, lasciando un vuoto culturale, prima ancora che musicale, incolmabile, sono ancora più convinto del si. Arbeit Macht Frei è una delle cose musicalmente più interessanti che si siano mai realizzate in Italia.

Gli Area al di là di certe pretese social-politicizzate, sono il primo gruppo che nella nostra nazione si pone come obbiettivo l’avvicinamento di una grossa fetta di pubblico ad un tipo di musica nuova e non facilmente alla portata di tutti.

La struttura portante di questa opera è lo studente di architettura allora ventisettenne Demetrio Stratos, 7000 Hz di estensione vocale, la rivoluzione storica della voce italiana di tutti i tempi, un personaggio sensibile al periodo storico e sociale in cui vive. Con Demetrio la voce diventa per la prima e forse ultima volta strumento musicale a tutti gli effetti, le sue corde vocali prendono posizione all’interno di questo “international popular group”, formato da Giulio Capiozzo — Percussioni, Yan Patrick Erard Dyivas — Basso/Contrabbasso, Patrizio Fariselli — Piano/Piano Elettrico, Gianpaolo Tofani — Chitarra Solista/VCS3 eBusnello al sax.

Musicalmente “Arbeit Macht Frei” offre ottimi spunti che vanno dall’improvvisazione free jazz (con i suoi limiti) al rock e alla musica etnica. In questo contesto il disco unisce avanguardia e tradizione popolare regalando alcune situazioni molto godibili e trascinanti che hanno reso caratteristico il suono “area”.

“Luglio, agosto, settembre (nero)” è il brano che senza dubbio sintetizza queste soluzioni al meglio, grazie anche a uno strepitoso tema strumentale. Non manca poi qualche momento sperimentale come “L’abbattimento dello Zeppelin” o più incline al jazz-rock come “Le labbra del tempo”. Gli altri tre brani che completano il disco: Arbeit Macht Frei, Consapevolezza, 240 Chilometri Da Smirne, completano quest’opera unica nel panorama musicale Italiano.

Una musica libera e naturale, difficile da spiegare a parole. Qualcosa in sintesi di veramente nuovo per noi (ricordiamoci che siamo nel ‘73), che lascerà, com’ è stato, un segno indelebile. Obbligatorio nella nostra collezione musicale.

#millenovecentosettantatre

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La nostra sessantunenne (nel 2007) Patti Smith non sente i segni del tempo, e ci regala questo bel disco di cover. E’ facile pensare che un disco di cover sia un disco di comodo, un’uscita obbligata da contratti discografici, il riempire un vuoto creativo, insomma tutto fuorché un’opera vera e propria. No, niente di tutto questo. questo è un disco puramente voluto e sentito dalla nostra.

Patti Smith ha sempre amato rifare brani di altri autori, nella sua carriera ne ha inciso abbastanza, con le canzoni degli altri riesce a dare il meglio di se, riesce a plasmarli come fossero opere sue.

Per il titolo del disco non ha passato notti insonni, si chiama Twelve, dodici, come il numero delle canzoni incise. Sull’interpretazione invece, l’ex sacerdotessa punk ha fatto molto, cercando di ricreare e far sue alcune perle della storia del rock.

Queste dodici canzoni ci accompagnano per un’ora di musica piacevole, molto godibile. Un cd che sono convinto confidenzierà parecchio con i cd-player delle nostre auto.

Nel complesso l’album si mantiene su standard molto buoni con dei brani di grande effetto, tra le quali il quartetto più riuscito di: helpless (Neil Young) grande ballata, gimme shelter ( Rolling Stones) grande passione e grande voce, changing of the guards (Bob Dylan) perfetta è la parola giusta, the boy in the bubble (Paul Simon) ottima, più dell’originale.

Altrettanto riuscite, sono: Are you experiened? (Jimi Hendrix) manca la sua chitarra è chiaro, ma Patti ci mette la sua voce, Everybody wants to rule the world (Tears for Fears) semplice pop-song che però la Smith riesce a renderla al meglio, Within you without you (Beatles) per pareggiare il conto con i Rolling Stones, tra le meno riuscite, White rabbit (Jefferson Airplane) con la voce di Grace Slick, probabilmente la nostra ci perde, ma nonostante tutto la Patti riesce a creare una grande canzone, di forza, Soul kitchen (Doors) questa come quella dei Beatles è tra le meno riuscite, e per concludere le ultime tre del disco: Smells like teen spirit (Nirvana) una delle canzoni più famose degli anni novanta, che Patti riesce a personalizzare come meglio non poteva, molto bella, Midnight rider (Allman Brothers) in originale era molto blues, in questo caso diventa più rochettara, Pastime paradise (Stevie Wonder) non conosco l’originale, ma questa versione è comunque ben fatta.

Ecco, questa è Patti Smith, Twelve è un disco bello, intenso e godibile. Niente di eccezionale e di eclatante, solo una serie di canzoni riviste con passione e con cuore.

#duemilasette

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La pubblicazione di un album da parte di un musicista di grande spessore com’è Ry Cooder, crea sempre un certo “travaglio”. Si perché ormai il nostro Ry ci ha abituato, che ogni sua uscita discografica sia diversa dalla precedente e ogni volta ci svia verso nuove frontiere e quindi nuove visioni, nuove realtà, nuovi orizzonti sonori.

Anche in questo caso non si smentisce e ci regala quest’opera di notevole valore, se non altro per il coraggio di intraprendere “sentieri” molto tortuosi, aspri e di difficile percorribilità. E’ un buon disco questo, anche se, e già il “se” implica un non totale coinvolgimento dell’album, e questo è dato solo esclusivamente dalla musicalità, dalle onde sonore che il mio “sentire”, non riesce completamente a far sue.

Ascolto dopo ascolto, riesco a cogliere le varie sfumature che il bravo Ry è riuscito ad imprimere, ma non riesco ancora per il momento a “sentire” quelle vibrazioni che si percepiscono solo a “pelle”. Ci vorrà del tempo lo so, in fondo tutte le opere di grande pregio, non le assapori mai ai primi ascolti, ma un po’ alla volta, sono questi i dischi che poi diventano di grande pregio.

Passiamo al disco. Buddy è un gatto che con la sua valigia affronta un viaggio alle radici della musica nordamericana. In questo suo nuovo lavoro, Cooder immagina e racconta quello che gli occhi di questo felino vedono e sentono. My name is buddy è un disco folk, basti pensare che nel disco compaiono: Paddy Moloney (Chieftains) e i fratelli Seeger. Sotto questa “etichetta” folk, c’è comunque un tessuto musicale che spazia tra: country, texmex e shuffle blues e gospel.

Per certi aspetti questa è la continuazione di chavez ravine (disco altalenante con momenti di grandissima musica e altri mediocri) ma in questo caso Ry prende in considerazione gli immigrati bianchi e le loro canzoni cantate quando si trovavano assieme nella loro quotidianità. Siamo nell’America del ’29 la grande depressione, povertà, violenza, gente che perde lavoro, precariato, scioperi e tutto il malessere che possiamo immaginare.

My Name is Buddy è questo, la cronaca di una vita di lotta e sofferenza, di vicende sindacali, di sconosciuti eroi di tutti i giorni. Il disco tratta di canzoni che in America sono fortemente radicate nell’immaginario collettivo. Quasi tutti i pezzi dell’album sono dei traditional o direttamente ispirati da brani popolari: straordinarie canzoni di preghiera, di dolore, di protesta, di festa, alcuni, poi, sono veri e propri inni.

“Questi sono gli argomenti di cui hanno sempre cantato i poveri: morte, religione, famiglia, lavoro, vita quotidiana, “ma quelle canzoni erano il loro conforto morale“, risponde Cooder in una intervista.
Bisogna quindi rendere merito a Ry Cooder di aver avuto il coraggio di esprimere e sostenere pubblicamente queste idee. Quello di Ry Cooder in My Name Is Buddy, pur essendo un messaggio apertamente in difesa dei lavoratori e dei loro diritti sindacali va letto come un messaggio politico nel più ampio senso del termine.

Ed è questo il modo di far “politica” di Cooder, attraverso il recupero di testi e di suoni che appartenevano al mondo sindacale e operaio. My name is Buddy” parla di tutto ciò, di quei problemi che poi alla fine sono gli stessi di oggi. Canzoni che con tre accordi raccontano la verità.

#duemilasette

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Joni Mitchell è la compagna musicale fin dalla mia adolescenza. Era nel ’74, che io allora quindicenne, grazie a Carlo Massarini e ai programmi radiofonici serali della radiorai, ascoltai Blue, da quella volta non la persi più di vista

Ogni qualvolta ascoltavo questo disco eseguivo quasi un rito; lentamente prendevo il vinile, come fosse un oggetto di culto, lo mettevo sul giradischi come pesasse dieci chili, e al rallentatore appoggiavo il pick-up nei suoi solchi, quasi a non volerlo consumare.

Ricordi, sono ricordi ancora presenti nella mia mente, che però non rimangono solo tali, ma anzi rafforzano il mio presente.

Le dieci canzoni di Blue sono dei veri e propri autoritratti, sono racconti quotidiani in forma di canzoni. Esprimono i suoi sentimenti, il suo spirito tormentato, il suo punto di vista tipicamente femminile sulle contraddizioni dell’animo umano. Un disco intimo come le pagine di un diario, sono pensieri e appunti racchiusi in un taccuino di viaggio sulla poesia e sulla quotidianità che sta attorno a lei.

Mai, come in questo album, Joni riesce a fondere la sua vera grande passione (la pittura) e il suo talento naturale (la musica) diventando un’unica e inimitabile arte. Tanto che, per la prima volta, non ha bisogno di usare un suo dipinto per illustrare la copertina dell’album.

Musicalmente, i brani sono arrangiati in modo scarno ma raffinato, chitarra acustica e pianoforte sono quasi sempre l’unico accompagnamento sonoro alla sua melodiosa voce, voce che a volte è fragile, appena percettibile e subito un secondo dopo forte e squillante, ma pronta a gettarsi a capofitto in vocalizzi straordinariamente dolci e sofferti.

Le soluzioni ritmiche non sono mai scontate e, planando su un pop dolce e sottile, regalano passaggi deliziosi.

Blue è un disco magico, è una creazione poetica è un disco da consumare.

#millenovecentosettantuno

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Dopo le sue due ultime produzioni del 2011 e 2012, non troppo entusiasmanti, Ry Cooder ritorna nella scena musicale con “The Prodigal Son” e questa volta convince. A differenza dei sopra citati, marcatamente fusi con suoni folk, blues e roots, questo “Prodigal Son” lo riporta all’inizio della sua carriera quando registrava vecchi brani blues, gospel, folk e swing.

Co-prodotto con il figlio Joachim — che contribuisce anche alla batteria e alle percussioni — Cooder prende il controllo; suona chitarre, basso, banjo, mandolino e tastiere in un programma di otto cover e tre brani originali raffinati.
Prodigal Son è un disco fortemente legato alla musica religiosa, suonato e registrato da un non religioso. Cooder le considera canzoni gospel, proprio per il loro potere di trasmettere un messaggio diretto a chi le ascolta. La cosa più importante del gospel è di dare forza alla gente, di fare da collante tra ascoltatore ed esecutore.

Il disco si apre con una versione intima del brano gospel del 1950 di Pilgrim Travellers “Straight Street”. Con banjo e mandolino sostenuti dai suoi riempimenti di chitarra elettrica e il rullante di Joachim. Cooder non ha bisogno di testimoniare vocalmente, sono i testi e la sua chitarra a farlo. “Shrinking Man” è un brano originale pieno di metafora commovente, blues, country e “stomp”, consegnato in stile elettrico. L’originale “Gentrification” offre un suono “mordace” adornato con strati di chitarre acustiche ed elettriche suonate in stile hippy nigeriano con kalimba, campane e fischietti; i suoi testi umoristici sono pieni di verità. Le letture di Cooder di Blind Willie Johnson “Everybody ought to treat a stranger right” e “Nobody’s fault but mine” risuonano di convinzione e determinazione grintosa. L’inno di Alfred Reed “You Must Unload” include il defunto Robert Francis Commagere al basso e Aubrey Haynie al violino. La title track “Prodigal Son” è un brano tradizionale. Cooder lo “sporca” con un suono elettrico e country — completando l’omaggio alla leggenda del country Ralph Mooney che suona la chitarra elettrica.

Il Banjo, mandolino e rullanti creano la cornice ideale per lo stridente “I’ll Be Rested When the Roll Is Called” di Blind Roosevelt Graves, mentre “Harbour of Love” di Carter Stanley è stato ricontestualizzato come una melodia delicatamente soul, pittorica, country-gospel. “Jesus and Woody” di Cooder è una tenera allegoria cantata dal punto di vista di un ex che chiede al leggendario cantante di sedersi e giocare per lui mentre riflette sul peccato, sul fascismo e sul sogno di un mondo migliore. Per finire il disco, Cooder ha un altro brano da consegnare nel tradizionale stomper ed è in “In His Care”, che ritmi incrociati e un pungente gospel incontrano le radici ribelli del rock and roll.

Gli undici brani che riempiono questo ultimo lavoro di Cooder ancora una volta riflettevano un passato musicale come illumina il presente storico. La sua dipendenza dal vangelo qui riflette il suo impegno per l’uguaglianza. “Prodigal Son” è ancora un altro atto intenzionale da parte di uno dei più grandi guardiani e fornitori della musica americana. Nella sua venatura, il piacere estetico e la volontà di giustizia dialogano e alla fine convincono il resto di noi ad agire.

#duemiladiciotto

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Settanta minuti su settanta senza nessuna caduta, la Williams ha fatto tredici! Tredici pezzi uno più bello dell’altro, senza noia, senza discontinuità. Un disco suggestivo, profondo.

West, nono album della rock-writer di Lake Charles che questa volta sceglie Hal Wilner come coproduttore (Elvis Costello, Lou Reed, Bill Frisell) e una serie di musicisti famosi, dall’eclettico Bill Frisell al superprofessionale Jim Keltner (batterista), dal bassista di Dylan Tony Garnier al Jayhawk Gary Louris senza contare il fido chitarrista Doug Petibone e gente sconosciuta ma brava come il violinista Jemmy Scheinmann e il tastierista Rob Burger entrambi fondamentali nel creare un suono più “orizzontale” e meglio arrangiato.

Il disco sembra possedere una struttura circolare come se l’artista passasse attraverso una metamorfosi. Inizia lento e quasi assonnato, le liriche sono introspettive, alcune come Mama You Sweet e Fancy Funeral evocative e tristi poi ad un certo punto, enfatizzata da un violino che è una morsa al cuore la Williams si ritrova a chiedersi Where Is My Love? e in questa compassionevole richiesta d’aiuto c’è uno dei temi del disco ovvero dov’è finito l’amore dopo tante perdite e tanto lutto.

West nasce difatti dalla disillusione di un amore andato a rotoli, una relazione importante finita e dal dolore della morte della madre. Eventi cupi che sono stati metabolizzati dall’artista in un lavoro che qualcuno potrebbe definire catartico se non addirittura liberatorio. Brani come Fancy Funeral, Everything Has Changed, Learning How To Live e Mama You Sweet prendono spunto dagli eventi successi nella vita della Williams ma non si compiacciono del proprio dolore, riescono a mettere perfino ironia e un certo sarcasmo nella loro drammaticità, sono spesso ballate gentili che nella loro complessità emotiva trasmettono forza, senso della vita.

Poi a cominciare da Come On il disco prende una piega più esplicita e il lavoro di Hal Willner fa sentire il suo peso.
È un susseguirsi di grandi emozioni e grande musica, Come On sa di Positively 4th Street, Rescue ruota attorno alla voce addolorata della Williams, ad un contrabbasso che pulsa come una vena e a suoni che escono dalla notte più profonda e scura, What If è roba divina che non si può commentare, Wrap My Head Around If è nelle sue sincopate cadenze ritmiche la traccia più sperimentale del disco con la chitarra eclettica di Bill Frisell a dettare pause e dinamiche.

Chiudono un disco molto lungo (69 minuti) Words, ballata la cui fisarmonica evoca la natia Louisiana e West, brano che nella sua innocente e forse un po’ ironica esortazione di andare a ovest per “vedere come bello potrebbe essere vivere e amarsi” completa la metamorfosi iniziata con la domanda Are You Alright? primo brano di un disco che se non è un capolavoro poco ci manca.

Anche se i testi introspettivi parlano di “perdite”, perdita di un amore, perdita della madre, perdita di affetti, la Williams non si perde d’animo, i suoi brani diventano un canto liberatorio e fa trasparire anche su delle liriche tristi e drammatiche, un suono emotivo carico di forza, di ottimismo e di speranza. Quest’opera musicale è un susseguirsi di grandi ballate cariche di grandi emozioni, di grande musica. Ascoltare per credere.

#duemilasette

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Questo secondo disco dei tre fratelli canadesi Timmins; Margo alla voce, Peter alla batteria, John alla chitarra, più A. Anton al basso e J.Bird al mandolino e armonica, resta senza dubbio il disco più bello e suggestivo che abbiano inciso.

The trinity session è inciso dal vivo, in presa diretta, in una chiesa di Toronto (Holy Trinity) nel novembre del ’87. La principale peculiarità che il disco riesce a trasmettere è l’atmosfera tenue e rarefatta. Il suono prodotto è esclusivamente acustico, gli strumenti; chitarre, steel guitar, armonica, violino e fisarmonica, la voce quasi flebile di Margo (è una donna) fanno di quest’album un’opera splendida, da avere nella nostra raccolta musicale.

Il primo brano “Minin for gold” crea subito una atmosfera magica, che già ci fa capire con che “genere” musicale abbiamo a che fare. Il secondo “Misguided angel” leggermente più country, ma molto personale, con armonica in evidenza, comincia già a farci “scaldare”. A seguire la famosa “Blu moon” famosa cover, eseguita in maniera originalissima, non ci fa rimpiangere l’originale versione. I don’t get it” prosegue con questo suono magico per poi farci sentire “I so lonesome” di Hank Williams, splendida versione, malinconica e ancora una volta originale. Il sesto brano “To love is to bury” ci rende ormai conto che questo è un album innovativo. “200 more miles” è una ballata sempre sullo stile country/cowboy junkies, si perché ormai a questo punto si può già parlare di “marchio” C.J. L’ottavo pezzo rende omaggio a Patsy Cline, ma è con Sweet Jane che i cowboy raggiungono l’apice in questo disco. Questa versione acustica è unica per la suggestione che crea, la miglior versione che sia mai stata fatta (anche lo stesso Lou Reed lo dichiarerà), con questo brano la band dimostra che ormai e definitivamente una band di valore. Chiudono l’album altri due brani, rispettivamente; Postcard blues e Walking after midnight, che si mantengono nell’ordine di idee delle precedenti e quindi ancora due brani sussurrati e notturni (dichiarerà Margo, che la loro musica è da ascoltarsi alle tre di mattina).

Conclusione: Trinity Sessions è un album “diverso”, una raccolta di ballate sussurrate e atmosferiche. Ciò che rende unici i loro brani è che vengono rallentati quasi fino all’osso, soffocati impreziositi e snaturati. Ed è questo che ne fa di loro un marchio di fabbrica.

#millenovecentoottantotto

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Prefazione — Disco considerato come uno dei massimi capolavori non solo della musica italiana, ma della musica tutta. Attribuire questo disco a De Andrè è un po’ limitativo visto che l’apporto musicale di Pagani è non solo determinante ma in egual misura direi anche “sonoramente marcante”. Ammetto di averlo ascoltato fino quasi alla nausea (che non mi è mai venuta), assaporandolo in ogni sua minima sfumatura, nei suoni e nei testi, cercando di cogliere il significato più profondo che i due musicisti hanno voluto esprimere. Proprio per questo l’articolo è più lungo e dettagliato.

Il disco — Un disco italiano ma non in italiano, anzi in genovese antico. L’album infatti nasce dall’incontro tra De Andrè e Mario Pagani, uno dei maggiori musicisti italiani. L’idea è stata quella di concepire un album “mediterraneo” nell’origine, andando a pescare in giro per il bacino del nostro mare gli strumenti che le civiltà dall’origine avevano tramandato.

La malinconia che mi avvolge, quando ascolto la voce di Fabrizio De Andrè, è ancora tanta. Malinconia e senso di vuoto. Creuza de ma è uno dei tanti bellissimi dischi incisi da De Andrè, potrei banalmente definirlo un capolavoro, se non mi fosse difficile, per non dire impossibile, stilare una classifica delle sue composizioni. Una cosa differenzia questa raccolta dalle altre opere di Fabrizio De Andrè: tutti i brani di questo disco sono stati scritti e cantati in genovese. Ma anche in questa veste, pur nella difficoltà della comprensione del dialetto per chi genovese non è, la poesia è intatta, la magia e l’incanto delle atmosfere che De Andrè riusciva a creare, immutati. Intanto la musica, linguaggio universale che parla direttamente al cuore; poi la voce calda e scandita di Fabrizio De Andrè, inconfondibile e bella, pur se non estesa, che culla l’ascoltatore. Infine la sua poeticità, la sua delicatezza e la sua sensibilità, la sua ironia, che si esprimono magistralmente anche con l’uso del dialetto.

CREUZA DE MA’ – Il brano omonimo apre il disco sulle note dell’assolo di gaita (un tipo di cornamusa) e poi si sviluppa quasi esclusivamente su un tappeto ritmico-melodico-percussivo e sulla voce di De André. Sono le percussioni a parlare principalmente, nella musica mediterranea come nella musica nero-africana. “La mulattiera di mare” del titolo, è un primo grande affresco della vita alle soglie dell’acqua salata e racconta l’amore, l’amicizia, la delinquenza, gli odori e i sapori. È il primo colpo di genio della poetica del genovese ed è un colpo che tramortisce. Il brano si conclude con i rumori e le voci del mercato del porto di Genova, registrati in presa diretta da quel che ricordo. Le voci dei mercanti si fondono con la musica del brano successivo, il capolavoro musicale del disco, per quanto mi riguarda.

JAMIN-A — Straordinaria canzone: fosse stato comprensibile direttamente, il testo di “Jamina” avrebbe subito le ire censorie, non ho alcun dubbio. Jamina non è una prostituta, è LA prostituta, un corpo bollente prima ancora che un essere umano, un corpo che De André descrive quasi senza parlare della persona: “Mi voglio divertire/nell’umido dolce/del miele del tuo alveare”. Jamina deve farsi guardare, non servono parole: “Dove c’è pelo c’è amore/sultana delle troie”. Il corpo femminile come alveo dell’insopprimibile voglia di soddisfacimento sessuale degli uomini, raccontato da De André, che sulle prostitute ha imbastito alcuni dei suoi massimi capolavori letterari in musica.Musicalmente, il brano è altrettanto straordinario. Ancora un timido tappeto percussivo iniziale sulla voce, ma poi sono gli strumenti orientali a sommergere il tutto con la loro melodia. In questo caso, deliziano i padiglioni auricolari l’oud e il bouzouki, strumenti a corda di origine araba il primo e greca il secondo. I contrappunti ritmici e le lontane suggestioni melodiche, fanno di “Jamin-a” uno straordinario viaggio, da commozione pura.

SIDUN“ – Sidun” (Sidone) è il lamento di una madre palestinese per il proprio figlio morto, una ballata funebre che unisce il dialetto genovese al dramma mediorientale, in una comunione mediterranea di inenarrabile forza struggente. “Tumore dolce benigno/di tua madre”, canta De André, in un momento, il 1984, che doveva ancora vedere la nascita della prima “intifada”: “e ora grumo di sangue orecchie/e denti di latte”. Il lento dipanarsi del testo, accompagnato da uno strumento turco, lo shannaj, giunge sino a un punto quasi insostenibile a livello drammatico e di commozione, quando, sul finale, la musica sembra aprire uno scenario di speranza, proprio quando il testo conclude la sua narrazione del dramma di una madre. È a quel punto che la melodia si addolcisce, si arricchisce delle percussioni e si apre a una visione quasi solare per voce e strumenti. Devo ripetermi: un altro momento straordinario.

SINÀN CAPUDÀN PASCIÀ – “Sinàn Capudàn Pascià” racconta una storia dell’epoca della Repubblica Marinara genovese, quando un marinaio ligure catturato durante uno scontro con la flotta turca, Cicala, diventò un Pascià turco con il nome del titolo, sembra per merito del suo aspetto gradevole e della sua giovane età. Lo scontro militare avvenne davanti alle coste tunisine ed è così che la musica si accosta alla cultura maghrebina e Kabil, mentre il testo punta moltissimo sull’ironia e lo sberleffo sarcastico (“La sfortuna è un cazzo/che vola intorno al sedere più vicino”). Il ritornello riprende un motivo popolare che si vuole usuale tra le genti tirreniche: “In mezzo al mare c’è un pesce tondo/che quando vede le brutte va a fondo/In mezzo al mare c’è un pesce palla/che quando vede le belle viene a galla”. Una canzone che, a dispetto del suo incedere fortemente percussivo, sembra cantata e suonata in punta di piedi.

‘A PITTIMA – La pittima è colui che si lamenta, che rompe le scatole per qualsiasi cosa. La traduzione del foglietto del cd, riporta il termine dal dialetto alla lingua italiana, anche dalle mie parti ha lo stesso significato: persona che si lamenta.In questo caso, la pittima è l’esattore che va in giro a chiedere i soldi dei prestiti lamentandosi di continuo della sua condizione, vista come meschina dalla gente. A livello musicale, è forse il brano meno interessante dell’album, senza guizzi particolari e caratterizzato dalla voce mesta e bassa di De André, in tono, in ogni caso, con il testo.

A DUMENEGA – Canzone sull’ipocrisia e sulla falsità, “A dumenega” racconta di un costume antico della Genova di un tempo, quando alle prostitute, relegate nei ghetti durante la settimana, alla domenica veniva concesso di passeggiare per la città. Con un linguaggio sboccatamente popolare, De André racconta degli scherni della gente “normale” verso le prostitute in libera uscita, le stesse che comandano sui sensi di quella gente durante la settimana. Il testo, spiace ripetersi, è straordinario per l’uso sopraffino dei termini volgari e delle rime, con un colpo di scena finale di squisita ironia, quando il portatore della croce nelle processioni, scorge tra le prostitute la propria moglie, “mestierante” per guadagnare il pane.Il brano ha il sapore medievale dell’ambientazione narrativa ed è stupendo.

DA ME RIVA – Conclusione affidata a una tenue ballata che riporta il filo narrativo nel porto di Genova, dove era iniziato. Il marinaio lascia ancora una volta la sua bella sulla riva e la pensa mentre anche lei sta sicuramente guardando il mare. Il ricordo è affidato a una foto: “La tua foto da ragazza/per poter baciare ancora Genova”. Un finale struggente e malinconico, triste come può esserlo la vita del marinaio sempre in partenza, sempre sulle onde del mare “un po’ più al largo del dolore”. In fondo, un’ode di De André alla propria città.

Che dire di più, ogni canzone suscita emozioni, belle, allegre, tristi. Ogni canzone è una poesia musicata. Ogni canzone è il cuore di Fabrizio De Andrè. Sorrisi e lacrime, come sempre. Sorrisi e lacrime, ancora oggi, nel ripensare al grande poeta che non c’è più.

#millenovecentoottantaquattro

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