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Non è mai stato un disco vero e proprio, ma una sorta di esame collettivo: una seduta di psicanalisi di gruppo alla quale ogni ascoltatore (milioni e milioni) ha dato il suo contributo di “sangue, sudore e lacrime” percorrendo migliaia di volte i solchi del suo vinile, come se lungo il tragitto, spigolando tra “Triad” e “Ohio”, Cowgirl in the sand” e “On the way home”, avesse perso le chiavi di casa.

All’interno di 4 Way Street si poteva sfogliare il libro delle speranze. Ma letto nel maggio del ’71 (il disco uscì il 12 del mese, a un anno esatto da Dèja vu), quel libro sembrava già il libro delle illusioni: dalla persuasione allo sconforto la “Caravan of dreams” di Woodstock impiegò poco più di un anno e mezzo. Gli stessi argomenti, a obbiettivo mancato, suonavano decisamente più agghiaccianti. Ma probabilmente ancora più veri.

Proprio per il fatto che non poteva più cambiare niente (e forse per il fatto che niente, e mai, sarebbe potuto cambiare) parole e suoni di 4 Way Street divennero il simbolo del sogno di libertà che svanì in dissolvenza, come una canzone qualsiasi. O come una canzone precisa, dal titolo altrettanto preciso (Find the cost of freedom). La cruenta convention democratica di Ohio, la rabbiosa denuncia anti-razziale di Southern man, la non meno forte posizione di Cowgirl in the sand, le persistenti voglie acide della vecchia proposta di elevarsi a camminare “a otto miglia da terra” del Crosby “farmacologicamente mistico” erano già diventate messaggio ai posteri. I quattro cavalieri non cercavano in realtà alcuna apocalisse, ma in un certo senso, stracciando ogni vecchio criterio di perfezione concertistica, unendo errore agli assoli e irripetibili magie vocali, si costruirono la loro privata apocalisse.

4 Way Street aveva dunque la forza delle cose andate e la grinta disperata delle situazioni terminali. Conteneva i gesti di un popolo scatenato contro le picolezze del sistema: gesti consunti dalla sofferenza di non aver cavato un solo ragno dal buco attraverso i canali della rivolta. Ma i quattro cavalieri sembravano ancora talmente fieri di non aver ceduto, benchè sconfitti dalla storia, che 4 Way Street appare ancora adesso di una straripante vitalità ideologica e di una ammaliante bellezza musicale.

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Nonostante sia suonato in buona parte dai componenti dei: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e da: Neil Young, Graham Nash e Joni Mitchell, If I Could Only Remember My Name è senza dubbio il capolavoro personale e privato di David Crosby. Un album tutto di voci, ma con pochissime parole, come se esprimere pensieri e significati non fosse più possibile e soprattutto non avesse più molto senso.

Siamo a San Francisco (California) nel 1971 e mai come in questo momento i “figli dei fiori” o dell’utopia assumono le sembianze di profeti di un nuovo credo, sempre più staccato dalla realtà urbana e sempre più proteso verso un mondo ideale, tanto astratto quanto contradditorio.

David ha già scritto delle meraviglie con i Byrds e con i C.S.N.&Y, ma è in questo album che il suo sogno visionario, la sua anima più interna e creativa si esprime al meglio. La più profonda esplorazione del proprio amore per la Natura, la necessità di esplorare ogni frammento della propria coscienza viene portato in musica.

Una musica liquida e stellare, su una linea di confine tra folk e jazz, leggero come un gas evanescente If I Could Only Remember My Name è adagiato su un tappeto fluttuante in zone inaccessibili alla coscienza umana.

In questa evidente fragilità generazionale è importante esprimere emozioni, colori, suoni, sensazioni, stati d’animo. Questo solo conta, questo solo è possibile fare e If I Could Only Remember My Name ne è l’esempio più emblematico, bello e profondo.

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Alle radici del cosi detto southern rock, ma soprattutto di una serie di incursioni strumentali che hanno reso la Allman Brothers Band una delle compagini più affiatate e propense alla jam di tutti i tempi. Giocoforza scegliere dalla sua discografia la performance indimenticabile al Fillmore East di New York del ’71, dove i fratelli Duane (chitarra) e Gregg (tastiere) Allman duettano con l’elettrica di Dickey Betts, si fanno sostenere da una grandissima sezione ritmica composta da due batterie (Jay Johanny Johanson e Butch Trucks) e basso (Raymond Berry Oakley) e inventarono , in generale, un modo nuovo di concepire il rock dal vivo, raffinato e legato a forme improvvisative vicine ai sapori jazz dell’epoca.

Memori delle fantasie psichedeliche a cavallo dei decenni, gli Allman reinterpretarono espansivamente classici blues (Statesboro Blues, Stormy Monday) come pure originali estenuanti ma avvincenti (su tutte gli oltre venti minuti di Whipping Post).

E’ questa la loro dimensione ideale, come conferma il successivo Eat A Peach, uscito quando Duane è già scomparso in un incidente motociclistico lasciando un’eredità impressionante — ampiamente documentata negli anni succesivi — come turnista e performer. At Fillmore East è uno dei più bei dischi dal vivo della musica rock, un documento sonoro degli anni ’70 obbligato per un appassionato di musica, un album che bisogna avere in ogni discografia che si rispetti.

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Atto finale della più grande cantante blues bianco mai esistita poco prima della sua morte, avvenuta il 4 ottobre del 1970, a causa di un miscuglio di alcol e droga. Pearl è il canto del cigno di una donna sola, infelice, che canta la sua tristezza con rabbiosa determinazione. A due passi dall’autodistruzione Janis Joplin realizza a Los Angels il sogno di emulare la sua antica maestra nera, Bessie Smith.

Ogni brano è un gemito, un pianto disperato dove il sesso e l’anima si uniscono per diventare emozione sconvolgente, viva, esplosiva. Non ci sono più le certezze di essere l’unica star di un gruppo di dilettanti come i Big Brothers né il dilemma e la paura del fallimento con la degenerazione sonora di Kozmic Blues, ma c’è un’artista che sente la fine un attimo prima e vuole dare il meglio di sè per esser ricordata.

Uscito postumo, Pearl è un epitaffio alla Spoon River. Si possono rintracciare canzone dopo canzone, nascita, splendore, miseria e morte di un talento inimitabile a cui bastava soltanto un sorso di bourbon per riprendere fiato, rialzarsi dal fango e scatenare il delirio.

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immagine Il titolo non tragga in inganno: non si tratta di un omaggio ad Elvis, nativo di Tupelo, Mississippi. Tupelo Honey è una ricercata qualità di miele, a cui Van paragona la sua dolce Janet.

Tutto i testi, qua, vertono sullo stesso tema: miele ed amore. In quanto a “radiofonicità”, questo è il seguito di Moondance, ma è un disco tutto diverso. E’ un tipico prodotto del periodo, sulla scia dei successi di James Taylor e Carole King.

Van si diverte a fare il cantante romantico, e ci riesce incantevolmente bene, circondato da un’orda di validi strumentisti. Il soul lascia lo spazio al country, gli arrangiamenti si sprecano, i coretti femminili non si risparmiano.

Dal punto di vista della musicalità e della produzione, questo disco soddisfa ampiamente. Delle composizioni spicca solo l’iniziale “Wild Night”, una melodia facile su un ritmo contagioso, con la quale Van dimostra la sua abilità nello scrivere pezzi da classifica e la sua incapacità di promuoverli adeguatamente.

Il singolo, infatti, non entrò nelle top ten. Delle altre canzoni si fanno notare quelle più lunghe, organizzate come piccole suite.

La critica italiana ha, per sua tradizione, bersagliato di offese questo lavoro, molto oltre il suo unico demerito, che è quello di contenere troppo miele.

Questo è un disco che nessun appassionato di Van dovrebbe lasciarsi scappare.

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Joni Mitchell è la compagna musicale fin dalla mia adolescenza. Era nel ’74, che io allora quindicenne, grazie a Carlo Massarini e ai programmi radiofonici serali della radiorai, ascoltai Blue, da quella volta non la persi più di vista

Ogni qualvolta ascoltavo questo disco eseguivo quasi un rito; lentamente prendevo il vinile, come fosse un oggetto di culto, lo mettevo sul giradischi come pesasse dieci chili, e al rallentatore appoggiavo il pick-up nei suoi solchi, quasi a non volerlo consumare.

Ricordi, sono ricordi ancora presenti nella mia mente, che però non rimangono solo tali, ma anzi rafforzano il mio presente.

Le dieci canzoni di Blue sono dei veri e propri autoritratti, sono racconti quotidiani in forma di canzoni. Esprimono i suoi sentimenti, il suo spirito tormentato, il suo punto di vista tipicamente femminile sulle contraddizioni dell’animo umano. Un disco intimo come le pagine di un diario, sono pensieri e appunti racchiusi in un taccuino di viaggio sulla poesia e sulla quotidianità che sta attorno a lei.

Mai, come in questo album, Joni riesce a fondere la sua vera grande passione (la pittura) e il suo talento naturale (la musica) diventando un’unica e inimitabile arte. Tanto che, per la prima volta, non ha bisogno di usare un suo dipinto per illustrare la copertina dell’album.

Musicalmente, i brani sono arrangiati in modo scarno ma raffinato, chitarra acustica e pianoforte sono quasi sempre l’unico accompagnamento sonoro alla sua melodiosa voce, voce che a volte è fragile, appena percettibile e subito un secondo dopo forte e squillante, ma pronta a gettarsi a capofitto in vocalizzi straordinariamente dolci e sofferti.

Le soluzioni ritmiche non sono mai scontate e, planando su un pop dolce e sottile, regalano passaggi deliziosi.

Blue è un disco magico, è una creazione poetica è un disco da consumare.

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