🅐🅡🅣🅔🅢🅤🅞🅝🅞

millenovecentosessantanove

immagine

Probabilmente il solo album “progressive” in grado di entusiasmare anche i detrattori più feroci del genere, e capitolo di spicco di una discografia mediamente buona, In The Court Of The Crimson King segna l’esordio dei King Crimson, creatura del geniale chitarrista inglese Robert Fripp. Con lui, in questa prima di molte incarnazioni, Ian McDonald ai sassofoni e alle tastiere, Michael Giles alla batteria e il paroliere Peter Sinfield, oltre a Greg Lake (basso e voce), che di lì a poco si unirà in trio con Keith Emerson e Carl Palmer. Non sono proprio dei debuttanti, questi musicisti facenti parte dei King Crimson che, partendo alla grande, entrano in studio e superata una falsa partenza (cambiano produttore) in soli otto giorni registrano un album che trasporta tutti — ascoltatori e musicisti — in una dimensione nuova, forse quella del nuovo decennio in arrivo. Cinque le tracce, tutte a loro modo capolavori: a partire da 21st Century Schizoid Man, abrasiva come un nascituro hard rock e scossa da dissonanze e repentini cambi di tempo, proseguendo, in un meraviglioso gioco di contrasti, con la delicatezza quasi eterea di I Talk To The Wind e la vibrante epicità di Epitaph (in cui a farla da protagonista è il mellotron), per arrivare al bizzarro minimalismo di Moonchilde ai crescendo pseudo-orchestarle di The Court Of The Crimson King. In sostanza, un matrimonio perfetto di pop e rock con classica e jazz, in cui la ricchezza degli arrangiamenti e il virtuosismo dei musicisti non sono mai fini a se stessi, risultando anzi, (quasi) sempre indispensabili al delicato equilibrio globale. I King Crimson fanno un passo in avanti: le loro non sono semplici canzoni con sonorità innovative, sono piccole suite che alludono alla musica barocca, a oscure mitologie esoteriche, e hanno un andamento classico, ben più complesso della solita alternanza tra strofa e ritornello (e inciso, ovviamente). E’ grazie (anche) a questo disco che nasce il progressive, o prog, destinato, in tutte le sue varianti (più o meno sinfonico, più o meno folk) a risuonare — soprattutto in Europa — per tutti gli anni Settanta. Un’atmosfera musicale che offrirà possibilità di espressione più ampie e riflessive sull’uomo contemporaneo.

#millenovecentosessantanove

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Live Dead è il primo album dal vivo della band che più di ogni altra ha costruito la propria immagine sui “live”. Nella loro discografia i dischi dal vivo hanno raggiunto quelli in studio e senza dubbio sono destinati ancora a crescere. Live Dead è un live un po’ speciale non solo perché è stato registrato con una platea di amici e non con un pubblico pagante ma soprattutto perché è un disco di passaggio, “il” disco di passaggio dagli Acid Tests e dalla San Francisco “sixties” verso il mondo nuovo, verso i settanta, anni più complicati e grigi.

Nel ’69 i Dead avevano appena abbandonato il quartier generale di Haight Ashbury e si erano spostati a nord, in campagna, alla ricerca della quiete e delle “buone vibrazioni” che nella città della baia, ormai sconsacrata, non poteva più dare. Con loro, anche la musica aveva cambiato domicilio, spostandosi dallo spazio astrale e psichico ai prati e alle colline di casa, dalle improvvisazioni elettriche alle semplici melodie country folk.

Nella sua magrezza assai poco Dead (settantacinque minuti su due LP, quando un “normale” show durava già allora più di tre ore), il Live rende la ricchezza e l’eccitazione del periodo, il “questo” e “quello” che Garcia e i suoi si stanno impegnando a fare. Ci sono schegge del passato prossimo (Saint Stephen) e folgoranti novità (Dark Star), ruminazioni sonore a oltranza (Feedback) e puntigliose rivisitazioni blues (Death Don’t Have No Mercy), in colorati “fili” sonori grossi e lunghi, brani di otto, dieci, venti minuti. C’è il classico suono Dead, sottile e sfuggente, tanto che non si ha mai capito perché il gruppo si dotasse di amplificazioni enormi e d’avanguardia se poi la musica era così pallida e spettrale: e c’è il gusto del gioco, del dilungamento, della piccola avventura da inventare sul momento, che è un po’ il segreto della storia Dead e la molla che anima tanti loro eredi, a cominciare dai Phish.

Due sono i brani che più hanno contribuito a insediare Live/Dead nella Hall Of Fame del rock. Uno è Turn On Your Love Light, uno swingante Bobby Pland subito tra i preferiti del pubblico. Dal vivo era la passerella di “Pigpen” McKernan, il percussionista che rappresentava l’anima spontaneista e “freak” del gruppo: che non solo cantava, ma la usava come spazio personale per improvvisati rap e storie di vita. L’altro clou è Dark Star, il lungo volo chitarristico di Garcia e Weir dove in gioco è più il sudore e swing di Love Light ma un “sballo” più sottile, un viaggio magico e profondo.

Registrato nel ’69, il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e il 27 febbraio al Fillmore West a San Francisco, il disco dai quattro lati (del vinile s’intende) “colorati” come tavolozze, ci offre un flusso sonoro di blues, psichedelia, improvvisazione, sperimentazione o meglio una combinazione di tutti questi elementi, amalgamati come solo loro riescono a fare. Un grande progetto riuscito, e non a caso quella Stella Scura ha continuato a mandare la sua luce nei concerti Dead sino alla fine, ogni sera abbagliante e sempre diversa.

#millenovecentosessantanove

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Se il primo album della Band “Music from Big Pink” (1968), per molti il capolavoro del gruppo, sembrava provenire dal nulla, fu con questo secondo disco Omonimo che la Band prese il volo. Il gruppo più coeso e compiuto, con uno sforzo maggiore e consapevole, assume le fisionomie di vera band. Abbandonando la miscela sgangherata, per quanto eccezionale del primo lavoro, il suono delle dodici canzoni che compongono questa pietra miliare assume una linea più marcata e personale.

Una Band speciale sotto molti punti di vista: per il nome (l’unico veramente incondizionato), per la provenienza geografica, per le peculiarità dei componenti: un batterista che suona il mandolino, un organista che suona il sassofono, un bassista che suona il violino e un pianista che suona la batteria. L’unico normale è il chitarrista Robbie Robertson, che però è un eccellente strumentista, oltre che autore di gran parte delle canzoni e leader a tutti gli effetti. Appunto, una Band con un leader non cantante: le voci affidate al batterista, al pianista e al bassista. Una Band di purissima americana costituita per quattro quinti da canadesi. In una parola: un miracolo.

Più dell’esordio di Music From The Big Pink, questo secondo album omonimo è il solco più profondo scavato nelle viscere dell’America ancenstrale, dalle fondamenta di ragtime, bluegrass, jazz fumoso, rhythm’n’blues e folk da campo. Un uovo concetto di country-rock, diranno i critici contemporanei. Robbie Robertson, Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson e Richard Manuel ci arrivarono dopo aver sudato come The Hawks al fianco di Ronnie Hawkins e con Dylan nella basement, ma ci giunsero essenzialmente “da soli”, con un insieme di cultura, grazia a passionalità che non verrà mai eguagliato. Immagini calde e fascinose, il Grande Romanzo Americano nella sua essenza più nobile.
Across The Great Divide, Rag mama Rag, The Night They Drove Old Dixie Down, Up On Cripple Creek e Rockin’ Chair sono scritte sul Libro della Vita.
Oggi di quei prodigiosi figli americani ne restano tre: Manuel s’è impiccato, Danko è morto nel sonno. Robertson pare ormai stanco di musica, mentre Helm e Hudson vivono rintanati sugli Appalachi, nel cuore remoto di un’America ancora troppo grande per loro.

Questa è musica senza tempo.

#millenovecentosessantanove

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

A metà degli anni sessanta, specialmente in California esplodono le feste hippy, la sbornia mistica, l’equazione tra amore e libertà trionfa, la maggior parte dei gruppi West-Coast sono attivissimi ed in prima fila nella contestazione al “sistema” ed alla guerra al Vietnam.

I Jefferson, formatosi nel ’65, conoscono già il successo, soprattutto grazie a un percorso artistico che partendo dal folk revival acustico li portano alla psichedelia, al rock “acido”, alle ballate libertarie e impegnate. La loro “visione” musicale è per lo più una ricerca collettiva che li porta pian piano ad annullarsi come entità fissa per ridefinirsi come collettivo aperto alle collaborazioni.

Nel novembre del 1969 esce “Volunteers” il loro l’album più polemico. Gli ospiti del disco sono come sempre importanti: Jerry Garcia, Joey Covington, David Crosby, Nicky Hopkins al pianoforte e Stephen Stills all’organo hammond. Paul Kantner, Steve Stills e David Crosby firmano insieme “Wooden ships” uno dei momenti più riusciti dell’album. “Volunteers” si apre con “We can be together”, un vero e proprio inno alla fratellanza mentre “Hey Fredrick”, scritta da Grace Slick è uno dei momenti più toccanti con il piano di Nicky Hopkins. Altri brani interessanti sono “Good Shepherd” un traditional arrangiato da Jorma Kaukonen e “Meadowlands” con Grace Slick all’organo.

Un album fantasioso, provocatorio nel quale i Jefferson esprimono la violenta presa di posizione del gruppo sui temi politici in linea con la protesta studentesca nei “campus” delle università californiane. Musicalmente il disco è costruito intorno al talento individuale dei vari componenti della band che presentano Grace Slick alla voce, Paul Kantner alla chitarra, Marty Balin (fondatore del gruppo), Jorma Kaukonen alla chitarra, Spencer Dryden alla batteria e Jack Casady al basso.

La musica dei Jefferson Airplane è stata un perfetto esempio di musica allo stesso tempo militante, almeno nell’accezione del grande movimento americano, e totalmente disposto ad ogni “apertura”. Questa peculiarità è confermata in “Volunteers”, nel quale il vecchio patriottismo, l’attaccamento ai valori fondamentali della nazione americana, erano completamente rigenerati alla luce della rivoluzione di quegli anni: una vera e propria chiamata alle armi che col senno di poi suona come il canto del cigno del movimento.

#millenovecentosessantanove

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

artesuono

La musica di Terry Riley sfugge a una precisa classificazione, tra i vari termini che gli sono stati coniati quello forse più appropriato è di “musica minimalista”.

Il primo disco di Riley è “In C” composizione destinata a fare scuola. In C (titolo derivato dalla persistente pulsazione in Do del pianoforte che ne guida lo svolgimento) è del 1964. Questa suite che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo è certamente il suo lavoro meno accessibile. Gli strumenti partono uno dopo l’altro fino ad accavallarsi, seguendo ognuno singolarmente uno schema assai semplice, in modo che i musicisti possano suonando esprimere e trasmettere dei sentimenti, delle emozioni primordiali.

Cinque anni dopo nel ’69 esce questo “A Rainbow In A Curved Air”, in Italia esce nel ’74, ben cinque anni dopo la sua pubblicazione. L’opera che molti considerano il suo capolavoro, e anche il disco che maggiormente ha influenzato altri musicisti: i “Soft Machine”, specialmente con il loro massimo capolavoro che è “third”, la scuola tedesca dai Tangerine Dream in giù, e per finire gli Who che gli dedicarono il brano Baba O’ Riley pubblicato nell’album “Who’s Next”.

L’opera è un inno alla gioia, con gli strumenti sovrapposti che intessono un’atmosfera da “paradiso”. Terry da solo suona organo, clavicembalo e percussioni. I suoni sono ed evocano una struggente saga della nostalgia, dei mondi vaganti e sassofoni impazziti, un rotolare meravigliosamente verso l’Io, senza inganni, un suono nuovo nella mente, con delle figure musicali inafferrabili come i sogni.

Questo è Terry Riley, molto sinteticamente. Musica dello spirito. Musica dell’inconscio. Musica della gioia. Musica della danza. Musica della nostalgia. Musica del pianto liberatore, dell’emozione pura, della pace psicofisica, interiore.

L’ascolto di questo disco provoca, e non può essere diversamente, una certa riflessione: “Bisogna essere molto coscienti dell’azione che il suono ha su di noi, il modo secondo cui ci influenza. Non dirsi: faccio questo esperimento perché è nuovo, ma vedere quale effetto esso ha su di noi, dentro di noi. Chi fa musica ha una responsabilità, perché fabbrica le vibrazioni. E’ come fabbricare un prodotto chimico, un profumo. I musicisti hanno questa responsabilità: trovare come fare le migliori vibrazioni possibili”.

#millenovecentosessantanove

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit