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L'intera discografia di Patti Smith in ordine cronologico. Disco dopo disco, canzone dopo canzone, per un totale di 142 brani.

Link: https://open.spotify.com/playlist/1lNKfQdIAmmvCFsEK2GMgS

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1967 – 2014: la playlist con tutti gli album dei Pink Floyd in ordine cronologico è stata compilata da Openculture ed è oggettiva.

Contiene tutti gli album dei Pink Floyd, in ordine cronologico, sia quelli in studio che i live.

Dura 17 ore. Contiene 209 canzoni. E copre un arco di tempo incredibile. Dal 1967 al 2014.

Il viaggio inizia con “Astronomy Domine” e termina (un po’ mestamente) con l’ultima traccia di The Endless River.

Non manca l’incursione ufficiale nel panorama delle colonne sonore (per i film del regista Barbet Schroeder), con il terzo e il settimo album in studio, “More” e “Obscured by Clouds”. L’incursione non ufficiale, quella per Zabriskie point di Michelangelo Antonioni, manca nella playlist.

C’è un’altra ragione per esplorare una playlist così comprensiva. Riscoprire i Pink Floyd più faceti, anche senza Syd. In Meddle, ad esempio, un disco apparentemente più serio che mai—c’è “Echoes” — trovi due splendide canzoncine ben note agli appassionati. “Seamus”, blues dedicato a un cane che si sente guaire per tutto il pezzo. E la pigra “Saint Tropez”, che a moltissimi ascoltatori italiani sembrò contenere, nell’ultima strofa, un verso che fa “making a date for Rita Pavone”. Ci credette anche Rita Pavone.

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Figlio del compianto Ali Farka Touré, ampiamente acclamato come il più grande chitarrista africano di sempre, Vieux Farka Touré incarna l'interpretazione moderna dell'anima del blues in Africa. Le sue melodie urbane ed elaborate e il modo di suonare la chitarra da virtuoso gli sono valsi il soprannome di “Hendrix del Sahara”.

Vieux si è affermato, nei suoi cinque album da solista fino ad oggi, come un illustre musicista che ha enfaticamente ampliato i confini della musica dell'Africa occidentale. Con questa sua ultima uscita, Les Racines, che si traduce come “Le Radici”, il titolo dice tutto, Vieux ritorna con un suono che si ricollega con la musica tradizionale Songhai settentrionale del Mali, introdotta nel mondo intero da suo padre e assegnata all'etichetta occidentale “Blues del deserto”.

Ali, disapprovava il desiderio di suo figlio di diventare un musicista, anche se lui stesso aveva sfidato i suoi stessi genitori nel farlo. Ignorando questo consiglio, Vieux inizia la sua carriera di musicista come batterista e suonatore di calabash (una zucca) all'Institut National des Arts del Mali, per poi iniziare segretamente a suonare la chitarra nel 2001. Poco prima della morte di Ali, e grazie all'aiuto dell'amico di famiglia Toumani Diabaté, il maestro di kora, Vieux ha ricevuto la benedizione di suo padre per diventare musicista, infatti ha contribuito all'omonimo album di debutto di Vieux.

Quando la pandemia di Covid ha colpito nel 2020, la mancanza di opportunità di tournée ha colpito duramente questo prolifico artista di performance dal vivo, ma allo stesso tempo gli ha dato l'opportunità di allacciarsi le cinture e lavorare instancabilmente per due anni su un progetto che in realtà era in cantiere da molto tempo. Come spiega, “Ho avuto il desiderio di fare un album più tradizionale per molto, molto tempo. È importante per me e per il popolo maliano rimanere in contatto con le nostre radici e la nostra storia... Tornare alle radici di questa musica è una nuova partenza per me e non ho mai trascorso così tanto tempo o lavorato così duramente su un album... molto tempo per riflettere su come farlo e metterlo insieme”.

Vieux è affiancato nell'album da una serie di musicisti ospiti tra cui Moussa Dembel alle percussioni, il fratello minore di Toumani Diabate, Madou Sidiki Diabaté alla kora nella title track e su Lahidou, Kandia Fa con l' n'goni, Marshall Henry al basso, Souleymane Kane con la calabash, Modibo Mariko anch'esso al basso, Cheick Tidiane Seck alle tastiere e Madou Traoré al flauto. Inoltre, si può sentire Amadou Bagayoko, di Amadou & Miriam, suonare la chitarra in Gabou Ni Tie.

Le dieci canzoni dell'album sono tutte composizioni originali e trattano una vasta gamma di argomenti, comprese riflessioni personali sull'amore, la famiglia, i ricordi, insieme a questioni sociali contemporanee come il rispetto, l'unità e la compassione, temi importantissimi in un paese in cui alti tassi di analfabetismo significano che la musica è il principale metodo di diffusione della conoscenza e dell'informazione.

Nonostante avere un padre famoso può essere un'eredità difficile, Vieux è diventato un impressionante rappresentante del blues africano, ha rivendicato per se stesso le luci della ribalta e ha suscitato scalpore con un'idea radicale: sposare le sue radici musicali, fortemente influenzate dalla regione del Sahara occidentale. La sua musica riflette l'Africa contemporanea: urbana, sofisticata, globalmente connessa senza trascurare l'orgoglio del patrimonio culturale. La sua musica è moderna e rock, ma lascia comunque che i cammelli passino tranquillamente davanti all'occhio interiore. 

Vieux ha affermato che ”L'album è un omaggio a mio padre ma, altrettanto importante, a tutto ciò che ha rappresentato e per cui ha rappresentato”.  Les Racines non è solo un album di cui Ali Farka Toure sarebbe stato orgoglioso di assistere alla perpetuazione delle tradizioni e delle credenze che ha sposato e abbracciato, ma conferma anche che musicalmente Vieux è ora il legittimo erede del suo illustre padre.

di Silvano Bottaro | via: https://artesuono.blogspot.com | #ascolti #disco #recensioni

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Questo bel disco del 2021 della canadese Dominique Fils-Aime è stato ahimè un po' snobbato dalla critica ufficiale. Anche se la nostra ha fatto cose migliori, questo disco all'apparenza “leggero”, si fa “ascoltare” nella sua interezza senza cali di tono. La sua ottima produzione lo rende perfetto e non solo musicalmente ma anche nei testi che sono tutt'altro che banali.

Il cuore pulsante del nuovo album di Dominque Fils-Aimé, giovane talento canadese di origini haitiane, è il soul, inteso nel senso quasi letterale del termine: emozioni sonore che nascono dal profondo dell’anima e riscaldano gli ascoltatori. Three Little Words conclude infatti la trilogia sulla storia della musica afro-americana iniziata con l’esplorazione blues di “Nameless” (2018) e l’immersione jazz di “Stay Tuned” (2019). Acclamata vincitrice dei Juno Awards dello scorso anno per il miglior vocal jazz album (i Grammy canadesi, per intenderci), la Fils-Aimé ancora una volta fa della sua voce il centro vibrante di questo nuovo lavoro. E non a torto considerando che è soprattutto la sua interpretazione a rendere interessanti e coinvolgenti anche brani non particolarmente vibranti (“Home to me”). Toni e semi-toni della lead singer intrecciati agli essenziali cori rendono ogni pezzo una storia a sé e anche laddove l’intro è affidata a ritmi doo-woop tipicamente anni Cinquanta (francamente un po’ stucchevoli) – come in “While We Wait” – l’evoluzione del pezzo conduce poi verso un’apertura musicale dove radici afro e consapevolezza del proprio essere porta verso rivendicazioni di uguaglianza e libertà per i diritti dei neri (We could be the change, we will be the change). Se pezzi come “Being the same” e “You left me” sono biglietti da visita da presentare in contesti un po’ più mainstream, il lavoro di ricerca (vocale e strumentale) raggiunge un ottimo risultato in brani come “Fall and All” e “Tall Lion Down” (peccato per la durata limitata  poco più di un minuto). Ma la strada da percorrere viene decisamente indicata in composizioni come “Grow Mama Grow”, “Love Take Over”  e nella title-track, dove ritmi, cori e contenuti raggiungono l’equilibrio perfetto e sembrano rappresentare quel melting-pot ideale che la biografia (personale e professionale) della Fils-Aimé impersonifica. Prodotto e arrangiato dal fidato Jacques Roy (“il collante che ha reso possibile questa trilogia”, secondo la cantante), “Three Little Words” è forse il meno riuscito dei tre album finora prodotti ma rappresenta un tassello importante per la definizione dell’immagine di quest’artista canadese che procede nella definizione di sé con coraggio e determinazione.

Fonte: Indieoteque #ascolti #disco #recensioni

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Con i Phish per oltre vent'anni (dal 1983 al 2004) Trey Anastasio ha all'attivo come solista una decina di album. Ghosts of the forest penultimo album in studio, contiene alcune perle che meritano assolutamente di essere ascoltate: About To Run e In Long Lines per esempio ma anche Ruby Waves e la lunga Beneath a sea of stars (23 minuti) non sono da meno.

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60 brani selezionati dalle ultime uscite discografiche a cura della rivista musicale di musica rock “Buscadero”

#buscadero #ascolti #playlist

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Dal debutto di “Life In A Day” (1979) fino alla metà degli anni 80, i Simple Minds sono stati uno degli avamposti più creativi e sperimentali della new wave britannica. Dal successo mondiale di “Don't You” in poi, hanno preferito ripiegare su un pop-rock più votato alle arene e al mainstream, piazzando però qua e là qualche buon colpo, attraverso una prolifica attività che persiste tuttora. Abbiamo giocato a scegliere le nostre 20 canzoni preferite della formazione capitanata da Jim Kerr. Eccole qui.   20. Don't You (Forget About Me)

Sì, ci sarà chi la leggerà al contrario, ma per chi scrive la massima hit di Jim Kerr e compagni è in coda, anziché in vetta, di questa ideale top 20. Funziona, certamente, con quel suo refrain da arena e il suo ritmo incalzante, ma il singolo bestseller inciso per la colonna sonora del film “Breakfast Club” segna anche la prima – e definitiva – resa dei Simple Minds all’anthem rock da classifica, a scapito di quella new wave torbida e sinuosa con cui ci avevano irretiti fino ad allora. E come in una sorta di faustiano patto col demonio, da quella hit in poi il gruppo smarrirà la sua identità, finendo progressivamente stritolato negli ingranaggi dello stardom. Il paradosso è che “Don’t You” non era neanche stata composta dai Simple Minds, bensì dal duo Steve Schiff-Keith Forsey...   19. I Wish You Were Here

A proposito di bestseller, anche l’album del grande successo mondiale, “Once Upon A Time”, che da solo venderà più di tutti i (magnifici) precedenti messi assieme, non lo annoveriamo tra i vertici della discografia dei Minds. Il sound si fa più tronfio e pomposo, le tastiere perdono smalto in una (sovra)produzione laccata marcatamente mainstream. E come per gli U2 da “Ruttle & Hum” in poi, il processo di “americanizzazione” nuoce a Kerr & C., che abbandonano le radici electro-wave per inseguire un sound meno innovativo e più convenzionale. Ma qualche gradita eccezione non manca, soprattutto tra gli episodi meno noti e appariscenti, come questa malinconica ballata elettro-rock che distilla lo spleen dei migliori Simple Minds all’interno di una cornice sonora patinata ma mai pacchiana.   18. Midnight Walking

Rappresentata nelle retrovie della nostra playlist, con questo brano dal più che dignitoso “Big Music” (2014), la fase più recente (e declinante) della parabola della band scozzese. Dopo vari passaggi a vuoto, Kerr e soci riescono a imbastire una sintesi tra il suono infervorato degli esordi e quello più tronfio di “Once Upon A Time”. Un impasto denso, stratificato, al quale si aggiunge, a tratti, una rinnovata ispirazione in sede di scrittura, come in questa possente cavalcata sintetica sulle orme del groove del Sogno Dorato.   17. Speed Your Love To Me

Quasi a metà strada tra l’aspra irruenza giovanile degli esordi e il sound più tondo e robusto della maturità, si piazza uno dei lampi sotto la pioggia di “Sparkle In The Rain”. Il disco non riesce a mantenere la strabiliante continuità del predecessore “New Gold Dream”, ma l’invocazione disperata di Kerr suggella un ritornello tra i più ficcanti della saga della band scozzese, puntellato da una sarabanda di percussioni e tastiere scintillanti. La sua energia travolgente ne farà anche un cavallo di battaglia per le esibizioni live.   16. Love Song

Ed eccola, invece, l’elettronica pulsante e irresistibile dei migliori Simple Minds, quelli della prima fatidica cinquina (celebrata anche in un recente tour). In questo secondo singolo estratto dall'album “Sons And Fascination/Sister Feelings Call”, Kerr riesce a piazzare un ritornello appiccicoso in un vortice di chitarre, tastiere e ritmi indiavolati, coniugando la vena art-rock degli esordi con i groove funky-dance più accessibili già abbozzati su “Empires And Dance”. L’amore del titolo non è dedicato a una fanciulla, bensì al legame tra Europa e America: “Una relazione che è durata nei secoli, attraverso tempi buoni e cattivi”, Kerr dixit. Sarà anche il primo singolo dei Simple Minds a entrare nella Top 50 del Regno Unito (anche se solo al n. 47).   15. Reel To Real

Oscuro, raggelante. È il brano-manifesto del sophomore “Reel To Real Cacophony” (1979), il disco griffato da una copertina monocromatica nera, che si orienta dalle parti di un sound più ostico e minaccioso à-la Wire, meritando la definizione di “album meno commerciale mai distribuito dalla Arista”. Con i piedi piantati nell'art rock dei 70 e lo sguardo proiettato in un ipotetico futuro techno, i Simple Minds forgiano una implacabile “cacofonia” sospinta da incessanti folate di synth e da una sezione ritmica implacabile, lasciando presagire la traiettoria lungo la quale si sarebbero mossi negli anni a venire.   14. Glittering Prize

Il primo gioiello dallo scrigno d’oro a 24 carati di “New Gold Dream” è il secondo singolo estratto dall’album, che si rivelerà anche una discreta hit (n.16 nella Uk chart) e darà il titolo a una raccolta dei successi dei Simple Minds pubblicata nel 1992, a conferma della sua “rappresentatività”. Oltre al solito Kerr, salgono in cattedra Derek Forbes, con il bellissimo riff di basso che regge l'intera canzone, e un sempre saltellante Mick MacNeil, con le sue tastiere che lasciano spazio nel ritornello ai ricami chitarristi di Charlie Burchill. Una prova di forza corale.

13.This Earth That You Walk Upon

Una delle vere chicche dell’accoppiata “Sons And Fascination/Sister Feelings Call” del 1981. Quasi interamente strumentale, il brano ha un incedere solenne, plasmato da scintillanti riff di tastiera e da un basso cupissimo ad assecondare la cantilena di un quasi profetico Kerr che si interroga minaccioso: “What's your name/ What's your nation/ Sense of order/ Sense of speed”. Preziosi anche i graffi della chitarra metallica di Burchill che squarciano la coltre elettronica del brano con suggestivi arabeschi wave.   12. Destiny

Ed ecco invece il travolgente sound del debutto “Life In A Day” (1979), chissà perché spesso colpevolmente sottovalutato anche dagli stessi fan della band scozzese. Un riff iniziale che è già un trionfo. Atmosfere languide e futuriste di marca quasi ultravoxiana. Il canto sconsolato di Jim Kerr che declama “I don’t want this destiny” punteggiato dai ricami delle tastiere. Posta in decima posizione nella tracklist, questa sinuosa cantilena synth-wave ci regala uno dei momenti più intensi dell’intero disco, svelando il lato più delicato e malinconico della formazione scozzese. Che non sarà certo quello più sviluppato in futuro, a dirla tutta. Ma va bene così.   11. Celebrate

Ipnotico è invece uno degli aggettivi che meglio si attaglia alla prima magica cinquina di Jim Kerr e compagni. E questo singolo tratto da “Empires And Dance” del 1980 ne è una dimostrazione eloquente, con il suo ritmo palpitante, i timbri possenti del basso e la voce tetra di Kerr in primo piano. Ha una struttura più lineare rispetto ad altre tracce del disco, ma testimonia appieno il clima decadente e paranoico che si respira tra i suoi solchi. Quasi l’altro volto, quello più alienante e decadente, della Mitteleuropa decantata nello stesso anno dagli Ultravox di “Vienna”.   10. Life In A Day

L’esordio, sì, ancora lui, rappresentato dalla traccia che gli fornisce titolo e spunto musicale di partenza. Ovvero, un’ombra del glorioso (post-)punk che fu, seppellita sotto massicci strati di synth d’ascendenza teutonica (Kraftwerk, Neu!) ma mediati dalla lezione dell'immancabile Bowie berlinese. Dei primi i Simple Minds riprendono soprattutto le sonorità pulsanti e ossessive, del secondo lo spleen decadente e lo straordinario talento melodico, che qui il canto struggente di Kerr suggella con semplicità, tra i suggestivi ricami tastieristici di McNeill e le traiettorie tese della chitarra affilata di Burchill.   9. Theme For Great Cities

Son(g)s and fascination. I Simple Minds con gli strumentali ci sanno fare. Lo dimostra quello che rimarrà uno dei più noti e celebrati: il tema dedicato a tutte le grandi metropoli del mondo. Quasi sei minuti di un’elettronica scintillante, che si snoda convulsa e frenetica su strati avvolgenti di tastiere, lungo la rotta tracciata da un basso cupissimo, fino a quell’esplosione radiosa del riff di synth che funge da ritornello. Talmente bella da ricordare i migliori episodi di colui che forse meglio di tutti ha saputo plasmare l’elettronica su spettacolari melodie pop: Jean-Michel Jarre.

8.Factory

A proposito di melodie, chi l’ha detto che non possano coesistere con le cacofonie? I Simple Minds costruiscono un album apposito per smontare il cliché e lo chiamano proprio “Reel To Real Cacophony”. Mostrando come anche in quello già definito come “l’album meno commerciale mai distribuito dalla Arista” possa brillare un gioiello melodico come questo, dove il canto angoscioso ed evocativo di Kerr tocca le sue corde più struggenti per narrare di fabbriche oppressive, alienanti “imitation of life” da cui fuggire a gambe levate. Curiosità: tra i versi è citata proprio l’espressione “glittering prize” che fungerà da titolo al succitato loro celebre brano del 1982.   7. New Gold Dream

Ed eccoci al sempiterno capolavoro del 1982. Con Mel Gaynor al posto di Brian McGee dietro i tamburi (anche se nelle registrazioni si alterneranno vari sessionmen), la band sprigiona un sound ancor più potente e maestoso, in cui il dialogo tra la batteria e il basso di Forbes conta quasi quanto i magnifici arabeschi delle tastiere di McNeil, il prezioso ricamo effettistico di Burchill e il canto epico di Kerr. La title track è la canzone-manifesto del disco. Si parte con il serratissimo pulsare del basso sul riff delle tastiere e poi è tutta una fantastica galoppata con un epico Kerr a inneggiare al sogno dorato di quei primi anni 80.   6. Big Sleep

Ma ancora più suggestiva è quest’altra traccia dell’album-sogno, che si regge sull'intreccio del semplice riff di tastiere e del bel giro di basso slappato, su cui si riversa come una polvere magica la pioggia di note della chitarra e, su tutto, il martellante incedere della batteria sui quarti: uno dei più begli esempi di song ipnotica prodotta dalla new wave. Aggettivo che torna, ancora una volta, a definire il sound della band scozzese, giunta al top dell’ispirazione e dell’affiatamento.

5.This Fear Of Gods

Forse l’abisso più oscuro in assoluto dei Simple Minds. Sette minuti da vivere in apnea per un cerimoniale straniante, che si consuma tra tintinnii di campanelli, tastiere marziali, ritmiche tempestose, chitarre acide e un sax sintetico, con il canto di Kerr quasi soffocato nei riverberi a scandire parole d’ordine come “Lust lust lust”, “Violence and vivisection”, “Hero see no hero see no”. Scampoli di terrore per una religiosità minacciosa e opprimente (“I hear a voice and hear no angel”) che condensa tutto il clima di paranoica alienazione tipico della new wave degli anni 80. È il capolavoro di “Empires And Dance”, il disco con il quale gli scozzesi si attireranno le simpatie di Peter Gabriel, che li porterà con sé nel suo tour europeo.   4. I Travel

“Empires And Dance” è indubbiamente l'album più “dark” dei Simple Minds. Ma non per questo rinuncia a quel ritmo quasi dance che ha accompagnato tutte le prime produzioni della formazione scozzese. Perfetta sintesi di questo temerario connubio è il travolgente singolo “I Travel”, che, dietro le cadenze da discoteca, nasconde un certosino lavoro sul ritmo, tra percussioni ossessive, pulsazioni reiterate di synth e vortici elettronici d'ascendenza kraut-rock (Neu!, Faust). Kerr ci aggiunge un’altra delle sue palpitanti interpretazioni, supportata ancora una volta da un ritornello irresistibile che mette ko l’ascoltatore al primo colpo.   3. Someone, Somewhere In Summertime

Popolarità e qualità si sposano per una volta alla perfezione, in una delle canzoni più amate in assoluto dei Minds. Primo inno di “New Gold Dream”, si erge su un serrato tappeto ritmico che pulsa sui quarti, mentre il riff della chitarra introduce la strofa che si apre sui caratteristici tappeti di tastiere dell'epoca. La canzone sale avvolgente fino ad approdare al ritornello con Kerr che lancia lo slogan che le dà il titolo. Sognante, struggente, irresistibile. L’eterna estate di chi non riuscirà mai a staccarsi dalla bellezza del sound di un decennio intero.   2. Up On The Catwalk

La scintilla sotto la pioggia. Il lampo di creatività che accende di eterna gloria “Sparkle In The Rain”. Uno scatenato Mick MacNeil cesella una sarabanda di meravigliosi riff alla sua tastiera, costruendo l’architrave di un brano semplicemente memorabile, che si regge anche sul drumming tempestoso di Gaynor e su un’altra interpretazione di razza di un Kerr istrionico, che avvolge nel suo canto ammaliante i versi criptici e surreali del testo (“Up on the catwalk/ A big wheel is spinning/ And dollars to Deutchmarks/ And pennies from heaven”). Un brano che troneggia maestoso – e spesso colpevolmente dimenticato, anche dalle antologie – nella discografia dei Simple Minds.   1. Hunter And The Hunted

Il capolavoro nel capolavoro. Con una ciliegina sulla torta di nome Herbie Hancock, special guest alle tastiere. Un brano palpitante, solenne, in cui si respira una sensazione di attesa sfibrante, che raggiunge il suo acme proprio nella pazzesca e magica intro del solo di Hancock alle tastiere. È in quel preciso istante che si condensano in forma di note tutti i sogni dorati alimentati dal sound dei Simple Minds e – forse – dalla new wave tutta. Il suggello definitivo alla grandezza di “New Gold Dream”, nonché la sintesi perfetta di quel suono a forti tinte elettroniche e tentazioni dance che passa sotto il nome di “British Invasion”.

Fonte: ondarock #ondarock #ascolti #playlist #classifiche

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82 brani selezionati dalle ultime uscite discografiche a cura della rivista musicale di musica rock “Buscadero”

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Questo nuovo spazio che condividerò con pochi amici, anche se è sempre aperto e libero a chiunque abbia voglia di conoscere e ascoltare buona musica, o meglio, quella che io considero “buona musica”. Inizio con questo album dei THE PINES del 2016, che condivido perché nell'allenamento di stamattina mi è stato ricordato e “sparato” nelle cuffie. Album buono con alcuni ottimi brani (alcuni emozionanti da brividi, tipo: Hanging From The Earth) altri meno. Sperando di farvi cosa gradita vi auguro una buona giornata

The Pines sono una band particolare, molto particolare. I leaders sono due: David Huckfelt e Benson Ramsey. Nel gruppo poi c’è anche Alex Ramsey, fratello di Benson: entrambi poi sono figli d’arte, infatti il loro padre è Bo Ramsey, molto noto su queste pagine come autore, ma anche come produttore (Greg Brown, ad esempio).

Hanno già fatto cinque dischi e il nuovo album Above The Prairie, è lirico e visionario e usa il Midwest come punto di partenza per la propria musica. Anzi, facendo un paragone nobile, posso dire che il Midwest per The Pines è come la Monument Valley per John Ford e la musica della band è carica di immaginazione, colori, melodia e si adatta alla perfezione ai paesaggi incredibili che sono alla base della struttura del Midwest. La bellezza incontaminata di quei luoghi, le pianure a perdita d’occhio, i campi che non hanno fine e si perdono all’orizzonte, le strade che finiscono a contatto con il cielo: il Midwest è questo e anche altro e la musica dei Pines lo rappresenta alla perfezione con le sue melodie intense, il pianoforte liquido, le voci profonde e piene di pathos.

La loro discografia, cinque dischi, è andata sempre in crescendo: dall’esordio del 2004, con l’omonimo The Pines, al seguente Sparrow in The Bell (2007), il primo per la Red House. Ma è con il terzo album, Tremolo (2009), che la band assume una precisa identità, seminando canzoni morbide e melodie turgide, mischiando il folk e la canzone d’autore, usando il piano in modo essenziale, sempre a contatto con le voci dei due protagonisti. Infatti sia Huckfelt che Benson Ramsey hanno due voci molto evocative, profonde, espressive e basano gran parte della riuscita delle composizioni proprio sul loro modo di cantare e su una strumentazione calda e coinvolgente. Dark So Gold, 2012, è stato il disco che ha rotto gli equilibri e che ha portato la band ad essere conosciuta anche oltre oceano, con ottime recensioni sopratutto in Inghilterra (Q Magazine, Uncut) ma anche negli Stati Uniti (Goldmine e Rolling Stone).

Above The Prairie è un disco molto bello, pieno di canzoni intense e melodie turgide, canzoni come Hanging From The Earth, Aerial Ocean, There in Spirit, sino alla finale Time Dreams, dove appare John Trudell come ospite. La bellezza del suono, caldo e coinvolgente, si deve, oltre che ai due compositori, alla bravura assoluta di Alex Ramsey, pianista sopraffino, quindi a James Buckley, basso, JT Bates, batteria, Michael Rossetto, banjo, Jacob Hanson, chitarra elettrica, Tim Britton, uilleann pipes, e al violino di Ryan David Young (Trampled By Turtles).

Fonte: Buscadero #buscadero #ascolti #disco #recensioni

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