Da Balvano alla Piana delle Giare

PhouPhati Nome in codice: Lima Site 85 sul Phou (monte) Phathi. Ex avamposto della CIA nel distretto di Huaphan, nord del Laos

Il mio ultimo sforzo letterario si intitola “Da Balvano alla Piana delle Giare”. E' una riflessione sul Laos e sulla storia del colonialismo nel sudest asiatico che parte dalla Basilicata, da Balvano, ma che attraverserà anche altri luoghi, che verranno svelati poco alla volta. L'obiettivo generale è riallacciare un discorso iniziato con il mio testo inedito sulla Colombia, che potete scaricare qui e di cui potete leggere un veloce riassunto qui.

Nelle pagine conclusive di quel lavoro, mi chiedevo se l'Assenza potesse essere pensata come una relazione di potere.

L'assenza dello Stato è infatti una categoria politica a sé stante intorno alla quale sono state costruite cartografie “coloniali” praticamente da sempre. In Colombia esistono le “zone rosse”, “i territori vuoti” e “le zone di guerra”, aree che appartengono ad un fuori dello Stato, riconoscibili per la loro dis-indentificazione e perchè sono oggetto di operazioni speciali di qualche tipo. Intorno alle “Zone” vengono predisposti diversi dispositivi giuridico-legali e militari-burocratici che materializzano governamentalità, cioè pianificano e realizzano ove possibile, interventi ad hoc per inglobare, annettere, assorbire, far divenire le zone parti della totalità che le definisce.

Un caro amico antropologo, tristemente ucciso a Mariupol nel 2022, si spinse così lontano da voler scrivere e filmare zone “di operazioni speciali anti-terrorismo”, le più speciali di tutte, perché riguardano processi reali di fabbricazione della realtà giuridico legale con la quale si regolamenta una specifica relazione bellica e di inimicità. In queste zone, a parere di Mantas, il nome del mio amico, si produce una peculiare condizione che definiva di “bespredel”, cioè di “assenza di limiti”. Mantas raccontava la vita nell'eccesso di potere dove la realtà può essere letteralmente fabbricata a piacimento dall'autorità, creando testimonianze e prove materiali di eventi che si imprimono nella memoria pur senza avere alcun legame reale con le operazioni belliche da cui nascono. Ci troviamo cioè nel bel mezzo di una produzione sistematica di fake news che però diventano (S)toria.

“La Zona”, come la definisce Mantas, con la Z- maiuscola (una Z che ricorda così tanto la lettera dipinta sui carri armati e sugli elmetti dell'esercito russo che invade l'Ucraina), era proprio Mariupol, ma anche la Cecenia, dove lavorò molti anni producendo un film documentario in cui raccontò invece di un luogo onirico, Barzakh, un rifugio sospeso tra la vita e la non vita, tra la morte e la non morte, dove si incontravano i desideri delle persone in attesa dei loro cari scomparsi. Accompagna per lungo tempo con la sua telecamera una madre che attende informazioni sul figlio scomparso. Ha pagato alcune migliaia di dollari ad un agente dell'FSB, il servizio segreto russo, ex KGB, per sapere se è ancora vivo, se è detenuto in qualche carcere oppure se è morto. Trova così archivi improbabili, tra indovine che leggono dei sassolini e i documenti fabbricati dalla Burocrazia, ampiamente inutili, che, però, in qualche modo, soddisdano la sua richiesta di informazioni. In questo triste viaggio in cui l'accompagna, Mantas scopre Barzakh e racconta un'altra Assenza, quella di un luogo, la Cecenia, che oggi potrebbe dirci tanto della Russia e della leadership che governa il mondo. In Cecenia si è progressivamente assistito alla radicalizzazione islamista della resistenza al potere centrale russo; dal sufismo moderato e mistico si è arrivati allo jiadhismo wahabita, come se solo un “dio” potesse dare la forza di opporsi al potere assoluto che lì si manifestava. Ma si è anche assistito al suo successivo annichilimento. Ciò avvenne, secondo Mantas, dentro una grande finzione giuridico legale che era la “Zona di operazioni speciali anti terrorismo”, in cui vecchie pratiche staliniste di dominio e di controllo delle popolazioni ribelli trovarono uno spazio di legittimazione legale che permise la sistematica cancellazione di ogni forma di resistenza e di ogni racconto sugli orrori che via via venivano commessi: nel silenzio assenso della comunità internazionale e dei loro imperatori anglossassoni alle prese con le loro proprie cancellazioni e gli affari con gli oligarchi di Putin.

Il destino ha voluto che Mantas trascorresse i suoi ultimi giorni di vita conoscendo direttamente, sul suo proprio corpo, il “bespredel”, giustiziato “con onore”, secondo i codici criminali russi, dalle truppe speciali cecene, arrivate per l'occasione a dare manforte allo scalcagnato esercito di Mosca (*). Nello scoprire che Mantas era l'unico straniero rimasto a Mariupol insieme alla compagna compresero di poter finalmente regolare un conto sospeso. Mantas filmò Barzakh sotto i loro occhi, senza che loro se ne accorgessero, aiutato dalla resistenza cecena. Un affronto inaccettabile che gli valse anche un premio alla Berlinale. Circa 10 anni più tardi, dopo le torture rituali, Kadirov si è preso la briga di sparargli personalmente i due ultimi colpi letali; uno sul cuore e l'altro tra gli occhi. Per non farsi mancare nulla nel “bespredel” il suo corpo fu fatto ritrovare dalla compagna alla quale fu permesso anche di portarlo in Lituania, passando proprio dalla Russia, mentre a Mariupol, rasa al suolo, le macerie coprivano le fosse comuni.

La Cecenia è oggi un'entità sovrana in cui i movimenti di indipendenza sono solo un ricordo cancellato del passato. E' comandata da Kadirov per conto dello Zar Putin e la sua durata ne determinerà il nome. “Stato” è però come già viene definita ed in effetti allo Stato ci si riferisce quando si parla di eventi come quelli che hanno ricostruito il potere russo in Cecenia, che hanno fatto sparire quel ragazzo ed hanno ucciso Mantas. Ma ci raccontano in modo analogo di quanto sta accadendo in Palestina e in molti altri luoghi del mondo. Da Hobbes fino a Schmitt, lo Stato sembra essere fondato intorno ad una relazione intima con un atto originario essenzialmente atroce ed orrorifico percepito come “fuori” ed eccezionale rispetto ai luoghi in cui prende forma.

Per “far dimenticare” questa assenza primordiale la “Zona” sembra essere un ottimo strumento e nel mio testo sulla Colombia descrivo alcuni suoi elementi di liquidità, per come emergevano a Buenaventura.

Raccontando la ricorrenza di eventi culmine, quali improvvise ondate di militarizzazione del “Barrio” in cui vivevo, oppure eruzioni di violenza armata sulle strade intorno a noi, ma anche rivolte più o meno spontanee, cercavo di osservarla a partire da spazi che generavano convivialità ed “oblio” dell'orrore. Ne osservavo, cioè, i meccanismi di rimozione. Ritrovai così dei momenti rituali nel senso più antropologico del termine (spazi di comprensione iniziatici, chiusi, ripetibili ma con una durata) che liberavano dall'autorità e dalla guerra. Tutto ciò avveniva in maniera effimera ma decisamente importante per gli equilibri psico-sociali della comunità. Sostituivano la tradizione militarista dei luoghi con pratiche celebrative della vita che ribadivano la superiorità dei vincoli sociali rispetto alla morte. Per farlo tuttavia non ricorrevano all'istituzione del “funerale” oppure della “commemorazione”. Non avevo trovato Barzakh ma spazi di resistenza ai potenti flussi psichici che trapassavano luoghi e persone.

Ho chiamato questi momenti rituali “interregni”, prendendo a prestito la nozione da Gramsci. Li ho descritti come spazi sospesi, nei quali la comprensione ontologica che l'ordine materiale delle cose non cambia al cambiare dell'organizzazione “superiore” che si occupa della logistica della “Zona”, produce una scissione ideale tra i dominanti ed i dominati. Vi è cioè una comprensione condivisa per cui tutti sanno che chi comanda non risolverà mai i problemi del vivere, ma senza chi comanda tutto potrebbe diventare peggiore di quanto non sia, almeno dal punto di vista personale e familiare. Questa peculiare forma di intendere le dinamiche socio-economiche è dovuta alla natura intermediaria del potere ed al suo articolarsi attraverso la duplice regola del “Know How” e “Know Who”. Antropologicamente, dunque, si assisteva, a mio parere, ad una continua fine del “vecchio ordine” senza che il “nuovo” producesse mai alcun effetto concreto sulle relazioni di scambio e sulle economie morali della comuna e del quartiere. Tuttavia, il passaggio da un'organizzazione all'altra era un fatto reale e, nella transizione, si producevano vie di fuga che ho descritto come potenzialità, che alcuni sapevano cogliere o vedevano meglio di altri.

In questa prospettiva, ho raccontato, ad esempio, le storie dei “muchachos” e della loro funzione connettiva tra il Barrio e il resto della città, tanto materiale, producendo servizi di moto taxi e trasporto merci, quanto simbolica, rappresentando un “potere” che iscriveva il Barrio sulle mappe urbane, rendendolo così capace di reclamare quote della ricchezza cittadina. C'erano vere e proprie organizzazioni di base nella “Zona” che mantenevano relazioni tra loro, imitandosi nella gestione dei commerci ed armandosi contemporaneamente se le condizioni lo richiedevano per delimitare le varie zone di influenza. Nelle relazioni tra il “dentro” del barrio e il “fuori” della città che queste organizzioni producevano, si articolava, a mio parere, un elemento molto importante della fattualità del potere come brokeraggio ed orrore che descrivevo nella “Zona”. Vi scorgevo, infatti, degli elementi di sistemi politici estramente complessi, troppo spesso dimenticati nelle analisi politologiche sulla Colombia e sui paesi colpiti dalla “war on drugs” o di cui si leggeva solo su testi molto specifiici ma di criminologia locale o di giornalisti d'inchiesta che raccontavano le stesse storie da decadi e ormai nessuno le leggeva più.

Quello che osservai durante il mio lavoro di campo fu che nel “cambio di ordine” da Rastrojos ad Urabeños, si generò un qui-ed-ora espresso attraverso locuzioni come “callejear” (andare in miezz' a via) e “jugar vivos” (giocare da vivi) che definivano una necessità di comprensione della “Zona”. I racconti del Barrio dimostravano, a mio parere, che il potere, che poteva certamente essere “senza limiti”, veniva anche quotidianamente “messo in scena” nella sua precarietà ed instabilità, da soggettività in divenire che incorporavano l'assenza di limite della Zona. Seguendo queste linee interpretative, descrivevo l'emergere di leader che poi si facevano capi e di capi che parevano re per una notte o per un mese o di membri di gang che per alcuni diventavano dei locali Robin Hood e per altri dei carnefici. Ognuno di questi micro ordini personalistici rappresentava dunque una possibile soluzione, seppur ripetitiva e parziale, al problema dell'Assenza.

Ciò che, però, più mi interessava in questi intrecci tra autoritarismo ed anti-autoritarismo, era che i capi, a volte anche estremamente improbabili, emergevano quasi quotidianamente non solo nella praticità delle loro azioni e della loro presenza sulle strade. Erano “capi” anche perchè manifestavno un mondo mitico fatto sia di racconti di strada sia di momenti di condivisione rituale. In alcuni casi ritrovai, ad esempio, il Jean Rouch de “les maitres fous”. In altri mi parve di scorgere elementi di veri e propri “Stati ombra” africani di cui hanno scritto diversi antropologi (per esempio qui e qui) che esistono solo in una forma mistica e simbolica se non proprio come spiriti che possiedono alcune persone. Quello che notavo a Buenaventura, cioè, era l'emergere di organizzazioni politiche radicalmente multipolari e certamente instabili, ma che esistevano in quanto celebrazione rituale del molteplice e non come riduzione ad unità e normalizzazione del dominio. Le implicazioni di queste conclusioni sono certamente vaste; riguardano pratiche di governamentalità che le assoggettano attraverso la guerra civile permanente, forzando la periodica legittimazione di un dominio comunque parziale (il passaggio appunto da Rastrojos ad Urabeños); ma anche la creazione di società segrete, sette e società di mutuo aiuto di vario tipo; oltre che esperimenti di autonomia locale più durevoli (i cimarrones ed i quilombos nella tradizione afro-americana) .

Quest'ultimo punto ci conduce direttamente al nuovo lavoro e ad un aspetto del potere inteso come brokeraggio e orrore che vorrei indagare con maggiori dettagli; “il far dimenticare” e “il dimenticare” in senso più generale. In questi mesi di letture sulle ribellioni del XIX secolo che accompagnarono l'incontro coloniale in Asia, mi sono infatti scontrato con processi che avevo considerato meno durante la mia permanenza in Colombia. La pervasività di traumi dovuti alla violenza armata non mi aveva permesso di scorgere una questione altrettanto importante. A fondare lo Stato o un regno o un'entità politica di qualche tipo non è solo l'atrocità originaria bensì il suo oblio. Non è, o non è solo “il far credere”, ma il “far dimenticare” che risulta “istituente”. Il caso della Cecenia e delle cancellazioni storiche prodotte dal regime di Kadirov lo dimostrano con una certa chiarezza. L'attuale racconto occidentale della guerra in Palestina ne è un'ulteriore prova. Non si tratta però di costruire un inganno che diviene realtà come accade nel film “Donbass” di Sergei Loznitsa. Si tratta invece di vere e proprie epistemologie che usano la rimozione dell'orrore quasi come sistema di programmazione linguistica e neuronale. La rimozione cioè si fa paradigma estetico che riempie di immagini la memoria saturandola in modo da impedire la critica del qui-ed-ora, ma anche di un passato controverso e non condiviso.

LuangPrabang

Il luogo che più di tutti mi ha portato a riflettere sulla rilevanza della dimenticanza è stato Luang Prabang, una città con una storia decisamente interessante che nel corso degli ultimi anni si è convertita, come ebbe a dire un'antropologa locale, in una “Zona Speciale per il Turismo”. C’è un aspetto di Luang Prabang che ha a che fare con la sua turisticizzazione\mercificazione che rende peculiare la quotidiana esperienza del tempo, cioè di come passato e presente esistono nel presente. Il nodo cruciale è che la (S)toria della città riguarda la vecchia famiglia reale che viveva, gestiva e possedeva tutta l'aria divenuta patrimonio dell'UNESCO nel 1995. La stessa area inoltre è stata profondamente modificata dall'incontro coloniale e, se si eccettuano i templi, tutte le architetture presenti oggi, con pochissime eccezioni, furono costruite durante i 50 anni della Colonia francese, tra la fine del 1800 e l'inizio della seconda guerra mondiale. Stiamo quindi parlando di un processo di urbanizzazione che in poche decadi ha di fatto cancellato o modificato radicalmente il paesaggio cittadino. A complicare i percorsi di rimemorazione vi sono poi altri elementi di una certa importanza per la storia locale. Il primo fu un saccheggio della città che avvenne nell'ormai lontano 1887 nel quale il centro cittadino fu raso al suolo quasi del tutto. Il secondo sono le due guerre di Indocina in cui il Laos, sotto la leadership più o meno imposta della famiglia reale di Luang Prabang, divenne zona di guerra. In particolare, dal 1959 fino al 1975, il Laos entrò in una lunga e sanguinosa guerra civile che portò al quasi completo annichilimento di varie province e regni del Paese che, in diverse epoche storiche, contesero il potere alla famiglia reale di Luang Prabang.

Nei libri di (S)toria, la guerra civile normalmente si sovrappone e si confonde con la “Guerra Segreta” che inizia “ufficialmente” con una conferenza stampa tenuta dal Presidente J.F. Kennedy il 22 marzo del 1961 e in cui affermò, al di fuori di ogni dubbio, che il nord del Laos era stato invaso dalle forze comuniste nord vietnamite. La paura dell'“invasione” è un tema ricorrente nelle narrazioni locali e, in effetti, queste terre furono invase per saccheggi in diversi momenti storici. Tuttavia, nel 1961, l'“invasione comunista” apparteneva a quelle invenzioni di cui Mantas scriveva nel suo lavoro sulla Cecenia ed assomigliava alle “armi irachene di distruzione di massa” fabbricate per le riunioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2002. Inoltre, “la guerra segreta” che terminò con gli accordi di pace di Ginevra del 1973, fu riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti solo nel 2016 e con una lunga serie di limitazioni rispetto al suo reale svolgimento, al riconoscimento delle vittime e delle stragi di civili perpetrate e rispetto alle innumerevoli testimianze del diretto coinvolgimento della CIA e dell'esercito americano (e francese) nello sviluppare il traffico internazionale di eroina a partire dalle produzioni di oppio laotiane. Ci troviamo quindi dentro un processo di rimozione storica di vasta portata.

L'aspetto interessante è che sullo sfondo della “Guerra Segreta”, la guerra civile laotiana vide Luang Prabang al centro di svariate macchinazioni politiche che riguardarono i membri della sua famiglia reale, esponenti dell'esercito e dell'alta burocrazia. Benchè alcuni dei maggiori leader politici dell'epoca venissero proprio da questa città, oggi, a Luang Prabang, ad esempio, non c'è un museo che ripercorra le diverse fasi di questo conflitto o che si addentri, con qualche dettaglio, nelle dinamiche che condussero la leadership cittadina ad accettare, se non proprio a volere, sia i bombardamenti a tappeto di vallate molto vicine, sia lo stesso traffico di eroina. Siamo quindi nella presenza di una cosciente rimozione storica che potrebbe essere interessante analizzare con maggiori dettagli.

Al posto di un passato conteso, troviamo infatti un discorso identitario e nazionalista che costruisce attraverso il passato “mitico” della città la “laotianità” intesa sia come marchio etnico-popolare venduto dall'industria del turismo, sia come simbolo di unità di un territorio altrimenti trapassato da flussi di vasta portata, tanto finanziari ed economici, quanto culturali ed etnici. Per questa ragione, nella nozione di “heritage” (patrimonio culturale) creata dall'UNESCO, e che analizzerò meglio poi, si produce un'esperienza storicizzante della quotidianità abbastanza peculiare nella quale l'epoca monarchica è rimessa in scena nel suo lato più accogliente ed “illuminato”; quello appunto che “riuniva” e che produceva economia. Vecchi edifici coloniali, stanze di re e regine o giardini di principi e principesse che affacciano su uno dei più suggestivi fiumi dell'Asia sono oggi disponibili per il tempo libero dei suoi visitatori. E' come se tutti i suoi abitanti partecipassero di una vera e propria costruzione immaginaria di Luang Prabang in cui la (S)toria riemerge come una fantasticheria sul suo passato. Così facendo, produce un ordinamento giuridico-morale che, cancellando una parte comunque importante di quello stesso passato, riproduce immagini di una forma di governo che alcuni, probabilmente, vorrebbero restaurare. Questa prospettiva è quella che più mi interessa perchè ha a che fare con una aspetto del patrimonio storico artistico che lo rende “un ordine” oltre che una modalità del godimento. Per dirla con Zizek, questi intrecci infatti “insegnano [al soggetto] a desiderare”, quindi, a dimenticare oltre che a sognare un nuovo ordinamento politico.

Non esiste chiaramente una maniera univoca di raccontare le modalità con cui è possibile rivivere il passato nel presente. Nelle pagine che seguiranno proporrò diverse prospettive e traiettorie in cui eventi traumatici del passato sembrano manifestarsi nel presente in diversi contesti geografici. Proporrò poi una rassegna storiografica della regione in cui è inserito il Laos per fornire una migliore caratterizzazione del contesto in cui avvengono le rimozioni. Infine, se possibile, raccoglierò alcuni archivi etnografici nei quali questo passato conteso riemerge con maggiore chiarezza.

Perchè questo viaggio e questo esercizio di scrittura sia possibile però devo iniziare da una spedizione in kayak su di un fiume lucano dove queste idee hanno iniziato a prendere forma.

(*) Quella che propongo è una mia personale ricostruzione dell'omicidio di Mantas sulla base delle testimonianze di persone informate sui fatti ed incrociando dati sulla guerra a Mariupol durante la sua uccisione. In particolare, la presenza di Kadirov e delle forze speciali Cecene è stata cruciale durante la presa dell'industria siderurgica Azofstal nel porto di Mariupol che avvenne poco tempo dopo l'uccisione di Mantas. Nel suo lavoro “Mariupolis” raccontò, tra le altre cose, la progressiva crescita militare del battagliane Azof insieme alle critiche che provenivano da entrambi i lati, sia russi che ucraini, per la sua chiara appartenenza all'estrema destra neofascista. Nel suo lavoro postumo “Mariupolis 2”, presentato a Cannes nel 2022, Mantas stava documentando invece la vita di alcuni rifugiati che non volevano andare via dalla città sotto i bombardamenti ed erano rimasti dentro una chiesa evangelica. La sua uccisione potrebbe essere stata casuale. In effetti, trovandosi in Ucraina senza documenti ufficiali, è possibile che non sia stato riconosciuto da chi lo ha trovato. La possibilità poi che i militari disponessero di tecnologie di riconoscimento facciale è in effetti remota anche se bastava scattare una foto con un cellulare ed inviarla a chi di dovere. Senza dubbio, Mantas era iscrittto da tempo in una black list del regime russo. Dopo Anna Politoskaya, fu uccisa in Cecenia anche una collaboratrice della giornalista russa ed amica personale di Mantas, Natalia Estemirova. Mantas probabilmente era da qualche parte su quella stessa lista di nomi. Le torture subite e i due spari a freddo ricevuti mi hanno fatto quindi propendere per un regolamento di conti “mafioso”. Non ho però prove che sia stato Kadyrov a sparare materialmente i colpi. Si trovava solo a Mariupol quando Mantas morì. Ci tengo a chiarire che la ricostruzione che propongo è quindi mia e personale e non è una versione condivisa dai familiari di Mantas, nè dalla sua ex compagna che anzi all'epoca del nostro incontro non la riteneva pienamente credibile.

La Galleria di Balvano

C'era un'dea, semplice: discendere in kayak il fiume Platano, più o meno da Balvano fino a Romagnano al Monte. Poi sgonfiare il kayak e camminare lungo la vecchia strada provinciale per tornare alla moto e riprendere la via in direzione Potenza. Ci eravamo inventati una micro esplorazione nel fine settimana in modalità “packrafting” che in Alaska è una cosa di tutti i giorni mentre in Basilicata non proprio. Stavamo inscenando una fuga dal quotidiano, tra ex compagni di corso all'epoca dell'università a Milano. Eravamo due seguaci di Guido Tabellini, dei cicli economici elettorali e dei modelli che se non raggiungono un equilibrio almeno hanno soluzioni. Ma se il mio amico si era dedicato per qualche anno alla consulenza aziendale per poi fare ritorno a “casa”, io invecchiando ho preferito approdondire gli aspetti qualitativi ed irrazionali dell'economia politica fino a diventare un antropologo dilettante. Vivo con il peso di aver studiato nei migliori Dipartimenti di Antropologia Sociale del Regno Unito, con studenti cosmopoliti e progressisti dell'elitè mondiale e professori che hanno fondato, nel vero senso della parola, l'Antropologia sociale. Il peso, cioè il non sapere come maneggiare questa genealogia, deriva dal fatto che ognuno di questi studi si è concluso con atti inconsulti, fughe improvvise, qualche addiction, molti soldi spesi, inclusi quelli della Regione Basilicata, e pochi titoli ufficiali ottenuti. Mentre il mio amico ha seguito un percorso lineare e dopo la consulenza, si è fatto imprenditore al Sud, salvo poi cercare rifugio nel pubblico, io, per il momento, sono guida turistica informale in Laos dopo una vita di espedienti e cosiddetti “lavoretti”. Ma sono anche un proprietario ed un “renditiero”, condizioni queste ultime che mi forniscono alcune minime risorse per studi, dilettanteschi e part time appunto, ma di lungo, se non proprio di lunghissimo periodo. Pur nella mancanza del confronto imprescindibile con colleghi e studenti, nelle attuali fasi accelerazioniste, dominate dal marketing cognitivo, “avere tempo” è probabilmente un privilegio, anche negli ambienti intellettuali ed accademici. Per circa 7 anni mi sono dedicato con dedizione a molto del materiale prodotto intorno agli studi su “Capitalismo e Schizofrenia” di Deleuze e Guattari, la mia personale Bibbia. Per dare un senso “fuori di me” a questa passione, ho preso l'abitudine di condividere pubblicamente alcuni stadi di avanzamento della mia “educazione continua”. Nei periodi più creativi, quando l'ossessione si materializza su in pezzo di carta che magari è un luogo virtuale sul mio laptop, devo trovare anche metodi per resettare la testa e riuscire a scrivere senza prendermi troppo sul serio. Il packrafting ad oggi è sempre stata un'ottima soluzione.

SulPlatano

Quel sabato dell'Aprile 2023, decidemmo di esplorare i dintorni della città perchè non li conoscevo un granchè e il mio amico si era offerto di accompagnarmi. Provengo da una famiglia piccolo borghese del Sud Italia, educata all'esotico del “lontano” e il “viaggio di famiglia a ferragosto” lo facevamo rigorosamente in macchina, con bagagliaio colmo di qualsiasi bene del mondo e all'estero, in Austria, Germania, Belgio, Francia etc.. In più con madre del ravennate, trascorrevo il mio tempo libero soprattutto in Romagna. Da bambino era in Riviera, da Cesenatico a Lido di Classe, passando per Milano Marittima e Cervia, che scoprivo il mondo. La Basilicata l'ho trovata proprio all'università, anche grazie al mio amico, ed è stata una scoperta appassionante che mi accompagna tutt'ora. Eravamo tra l'altro nel bel mezzo di una primavera piovosa e fredda, l'anno della prima alluvione in Romagna per intenderci, e anche tra le montagne lucane si sentivano gli effetti del maltempo globale. Quel sabato, però, uno squarcio di sole ci diede la speranza di trovare tutto insieme: un bel fiume in piena rispetto alla sua normale esistenza di torrente svogliato ed affluente del ben più noto Sele, e giornata mite per potersi bagnare nelle fredde acque di inizio primavera. Va detto che erano anche almeno 25 anni che speravo di conoscere quei luoghi.

packraftingsulPlatano

La vecchia ferrovia “fascista” che collega la Basilicata alla Campania passa tra gole di rocce calcaree di colore bianco acceso, scavate proprio dal fiume Platano. Alcuni indigeni le chiamano “Gole del Fiume Bianco” perchè capita che l'acqua assuma un sorprendente colore biancastro, mostrando la meraviglia del suo letto di rocce senza colore. Le vidi per la prima volta a 18 anni, quando dovetti prendere un treno verso Salerno per la visita di leva: i famosi tre giorni, durante i quali finii dallo psicologo perché risposi affermativamente alla domanda “ti piacciono i fiori? E mi beccai un ceffone a mano aperta dal capotreno perchè gli altri coscritti stavano devastando il vagone, tristi di ritornare a Potenza. Forse ce l'aveva con me perché ero l'unico che guardava fuori dal finestrino e gli chiesi “ce l'hai con me?” oppure perché ero il più mingherlino. Non lo seppi mai. Ma quel giorno rimasi abbagliato dal Platano. Nell'Aprile 2023 la congiuntura astrale mi condusse finalmente su quelle strade.

covobrigante

La nostra avventura in kayak si rivelò da subito più ostica del previsto. Non eravamo partiti in modalità “spedizione” ma con panino, moto e cannetta. Le rapide del Platano ci sorpresero subito dopo la prima curva. Pur senza rovesciarci ed essere assaliti dal panico, alla fine fu il fiume a decidere per noi ogni passo, ogni piroetta, ogni insabbiamento. Dopo alcune ore, eravamo ancora lontani dalle gole del fiume bianco e da Romagnano, e decidemmo di fermarci al ponte di Annibale, da cui si dice passarono degli elefanti durante le lontane guerre puniche. Infreddoliti ma colmi di adrenalina iniziammo la risalita della valle per raggiungere la vecchia strada provinciale. Tra prati e viste mozzafiato, strade solitarie e vecchi covi briganti, rientrammo a Balvano per celebrare l'impresa in un bar della piazza centrale del paese e scambiare due chiacchiere con gli abitanti. Fu allora che Balvano entrò nella mia vita, e da qui nasce questo nuovo sforzo letterario.

Balvano

Balvano è un piccolo centro abitato della provincia di Potenza. Come molti paesi della Lucania, non arriva a 2000 abitanti. La sua storia recente è stata segnata profondamente dal terremoto del 23 novembre 1980, quello erronamente ricordato solo come terrremoto dell'Irpinia, nel quale fu quasi completamente distrutto. Un evento in particolare si è impresso indelebilmente nella memoria dei suoi abitanti. Durante la scossa più forte, 77 persone si trovavano nella chiesa di Santa Maria Assunta. Tra loro, 66 erano bambini ed adolescenti. Il crollo della parete principale della chiesa è stato immediato. Non ha lasciato a nessuno il tempo di rifugiarsi. Sono morti tutti. Solo il parroco che celebrava la messa è riuscito a salvarsi. E questo ha raccontato alle telecamere della RAI giunte per documentare l'evento: “E' indescrivibile, inimmaginabile, non ce lo aspettavamo. Stavamo lì ad attendere forse questa sciagura. Chi lo sa. Non sappiamo. Intanto il fatto è questo. Crudo. Tremendo.” Queste scarne parole che documentano l'apocalisse vissuta dagli abitanti di Balvano hanno purtroppo precedenti storici. Vito Teti ricorda che già nella seconda metà del 1700, in Calabria, sulla Sila, accadde qualcosa di analogo. Gli uomini indaffarati nei campi si salvarono da un violento terremoto mentre donne e bambini alle prese con funzioni liturgiche o faccende domestiche morirono nelle chiese e nelle case crollate. Ne seguì un'epoca di brigantaggio e di migrazione che condusse molti di quei villaggi a spopolarsi e poi a divenire rovine. La periodicità dei terremoti ha in effetti scandito distruzioni e ricostruzioni con una certa regolarità su queste terre. Tuttavia, nonostante i noti rischi sismici, le popolazioni dell'appenino calabro-lucano e dell'Irpinia preferirono per secoli vivere sulle sommità delle montagne invece che nelle valli. I loro villaggi furono costruiti non in prossimità della costa o su fiumi più facilmente in comunicazione con altri centri commerciali ma su cime scoscese e difficilmente raggiungibili con i mezzi di trasporto medievali.

Le mappe urbane si assomigliano con una certa regolarità. Sono dominate da fortificazioni, per lo più torri, poi progressivamente abbandonate, dove c'erano caserme ed accampamenti militari invece che abitazioni nobiliari o di grossi proprietari terrieri. Erano quindi villaggi facilmente difendibili ma dove la vita risultava piena di asperità, con cicli economici estremamente locali. Oggi osservare questi centri abitati relativamente isolati e nascosti fa immaginare una sorta di paura atavica ma anche un'ansia di preservazione. La loro “ritirata dal mondo” non dipese però dai terremoti, bensì da una debolezza strutturale medico sanitaria e militare. Le vallate erano per lo più aree paludose e malariche e per questo invece di abitarle si preferiva rimanerne lontani. Erano anche segnate dal passaggio della via Appia, una delle principali vie di comunicazione d'Italia, fin dall'epoca dell'Impero Romano. Ci troviamo quindi in una terra di mezzo, percorsa da eserciti e carovane di mercanti che si spostavano da Roma e Napoli fino a Brindisi e Taranto e viceversa, lungo vie di comunicazione che collegavano le grandi città dell'Impero romano prima e del Sud Italia poi ai porti che portavano in medio oriente e in “terra santa”. Alcuni dei villaggi lucani avevano addirittura nomi arabi ed avevano una loro esistenza indipendente sulla cartografia ottomana. Benchè con minore intensità rispetto alle vie costiere queste terre furono create dalla doppia influenza cristiana, sia papale che monarchica, sia dal pragmatismo commerciale dei mondi islamici. Ma per oltre mille anni il Sud ha vissuto anche in una condizione di “colonia”, provincia di regni lontani che la governavano tramite figli di Re ed amici di amici; dai Normanni agli Svevi, dagli Angioini ai Borbone, fino ai Savoia. Tuttavia se città come Napoli e Palermo, ma anche Bari o Lecce emersero come centri cosmopoliti “di abitanti del Mediterraneo”, il sistema di villaggi di cui faceva parte Balvano esisteva soprattutto in quanto avamposto militare e come frontiera diffusa. Il suo scopo era assicurare un tranquillo passaggio di genti e mercanzie tra le due coste mediterranee dello Ionico-Adriatico e del Tirreno.

L'epoca del Risorgimento italiano e della “riunificazione d'Italia” fu invece segnata da un lungo confitto armato, di quasi 10 anni, che produsse migliaia di morti e la quasi completa scomparsa, ancora una volta, di molti villaggi. Dopo la “liberazione garibaldina”, Cavour tradì le promesse di vaste redistribuzioni di terre ai contadini e poco alla volta si produssero fuochi di ribellione sparsi tra tutti i villaggi. Nel momento di maggiore forza, la guerriglia contadina dell'appenino Irpino e calabro-lucano raggiunse quasi le 3.000 unità, un numero ragguardevole vista la popolazione dell'area. Erano anche discretamente armati e preparati alla guerra. Dopo aver partecipato alla spedizione garibaldina molti dei briganti ricevettero e perferzionarono le loro capacità belliche attraverso emissari inglesi e spagnoli interessati a mantanere alto il conflitto nel sud Italia, sempre per ragioni di controllo del Mediterraneo. Non vedevano di cattivo occhio il suo passaggio ai Savoia ma volevano essere certi che non potesse rientrare sotto la stretta influenza francese. La risposta dello “Stato Italiano” fu estremamente forte. Da Napoli, arrivarono diverse ondate di violenta militarizzazione che utilizzarono metodi adottati dagli Inglesi per sconfiggere l'idipendentismo irlandese con operazioni militari speciali che prevedevano il sistematico annichilimento delle basi di appoggio e dei collaboratori dei briganti. Per farlo penetravano in ogni villaggio, ammazzando chi non dava informazioni sui nascondigli, inclusi donne e bambini, e bruciando tutto quello che incontravano. Furono così commesse un numero imprecisato di stragi e si produssero sconvolgimenti demografici profondi le cui cicatrici hanno segnato queste terre per diverse decadi.

Un'intera generazione di contadini si era infatti data “alla macchia”, cioè prese le armi per contestare la legittimità del potere locale e della famiglia Savoia. In alcuni centri maggiori, come Melfi e Lagopesole, la contesa si fece estremamente sanguinosa e localissima, tanto che alcuni storici non riescono pienamente a conferirle una dimensione unitaria ed in alcune aree la considerano più simile ad una “guerra civile” che ad un movimento contadino armato e/o un movimento indipendentista. In generale la storia del “Brigantaggio”, come venne poi definito, con la B maiuscola, per lungo tempo costituì un altro della “nazione” che dopo essere stato sedato fu fatto dimenticare. Solo recentemente, negli ultimi 30 anni almeno, si è iniziato a studiarlo con maggiori dettagli nelle scuole. Rimane però ancora associato a banditismo e criminalità e non sempre gli si riconosce una rilevanza storica e politica, come una della maggiori rivolte contadine della storia d'Italia.

Questo posizionamento marginale delle aree intorno a Balvano nella storiografia nazionale riguarda, a mio parere, una più generale narrazione della dimenticanza, una nozione solo parzialmente considerata nella macro categoria “questione meridionale” che ha invece dominato i dibattiti sul Sud Italia per decadi. Ad esempio, è davvero soprendente scoprire che gli abitanti di Balvano ricordino un altro evento funesto. “Il disastro di Balvano” è il maggiore incidente ferroviario della storia italiana. Più di 500 persone persero la vita nell'ormai lontano 3 marzo del 1944 quando il treno 8017, un convoglio a vapore alimentato a carbone partito da Salerno, si bloccò nella galleria delle Armi, una galleria di quasi 2km che passa accanto al fiume Platano. Intrappolato all'interno del tunnel, i fumi del motore si diffusero rapidamente nei vagoni, uccidendo tutti. Il quotidiano “La Stampa Sera” titolò il giorno successivo “Morti nel sonno in 500”. Era difficile da credere che, nel bel mezzo della guerra, tra bombardamenti alleati e violenza nazi-fascista, si potesse morire anche così. E infatti il caso fu presto dimenticato. Anche quello. Il governo italiano impose il segreto militare sull'evento e censurò o cancellò diversi archivi. Oggi, gli unici documenti militari disponibili sono quelli inglesi, consultati da un avvocato in contatto con le famiglie delle vittime e con gli abitanti di Balvano che sono tra i pochi a custodire una memoria storica dell'accaduto. Nei verbali del Consiglio dei Ministri relativi all'incidente, il Generale Badoglio affermò che sul treno vi erano “600 contrabbandieri e viaggatori di frodo”, un'affermazione frettolosa e stigmatizzante che però evidenziava e ribadiva ancora una volta la narrazione egemone che esisteva su queste terre.

I treni merce che percorrevano la nuova linea ferroviaria Salerno-Metaponto erano spesso carichi di vettovaglie provenienti dai campi lucani, pugliesi e calabresi. Erano frequentemente presi d'assalto da gruppi di “banditi” affamati, ma venivano utilizzati anche da famiglie e contrabbandieri per recarsi direttamente dai produttori, per acquistare cibo a prezzi inferiori o per sostituirsi e competere con la logistica militare che la faceva da padrona. Molti si aggrappavano letteralmente al treno o si lanciavano su di esso. C'erano sempre vagoni vuoti, e bastava solo sapere dove trovarli. Le descrizioni di questi viaggi di fortuna, in generale, dipingono un quadro di una popolazione allo stremo, che abbandonava periodicamente la Campania per cercare cibo nella vicina Lucania. E mostrano le molteplici sfumature della quotidianità durante la guerra. In questi intrecci, il contrabbando di oggetti sottratti all'esercito alleato permetteva a intere famiglie di sopravvivere senza sostenere per questo il regime fascista. Tuttavia, sul treno 8017, i passeggeri erano quasi tutti saliti regolarmente a bordo nelle stazioni di Napoli e Salerno; molti di loro avevano persino pagato un biglietto per poter viaggiare. Esisteva cioè anche una sorta di organizzazione emergenziale e probabilmente illegale che gestiva il movimento di persone lungo la tratta utilizzata dai treni merce per sostenere gli eserciti alleati. Questo fatto era considerato inaccettabile dal governo italiano, che all'epoca, tra l'altro, aveva sede provvisoria proprio a Salerno.

L'incidente fu spiegato in tutta fretta attraverso la scarsa qualità del carbone utilizzato per la combustione. Proveniva dalla Yugoslavia e non generò il calore necessario per superare la salita. Un errore del macchinista bloccò poi il treno in galleria e i fumi in pochi secondi fecero il resto. Povertà ed errore umano sono altre due linee narrative da sempre impiegate per spiegare le storie di queste terre. Non era ad esempio possibile che treni merce come l'8017 fossero obiettivi militari e bersaglio di sabotaggi? Ad osservare meglio gli eventi, il loro oblio rappresenta un'altra grande stranezza della “nazione” e riguarda da molto vicino un piccolo paese come Balvano. Queste storie scollegate e non unitarie formano allora uno di quei nodi dell'Assenza che Mantas cercava di dipanare nei suoi lavori documentali. Balvano è un territorio trapassato dalla ripetizione storica di morti collettive. Dai disastri naturali, alle ribellioni, alla tragedia delle guerre, la storia di Balvano è segnata da momenti di tragedia condivisa che si sono sedimentati ed iscritti da qualche parte sul suo corpo sociale. Negli ultimi 40 anni Balvano è stata ricostruita e l'apocalisse testimoniata dal Parroco si è trasformata. Ma com'è stata ritualizzata, neutralizzata, contaminata, disseminata?

LaFerrerodiBalvano

Arrivando a Balvano dalla strada provinciale che la collega a Picerno, si viene accolti dal fiore all'occhiello lucano degli investimenti industriali sovvenzionati dallo Stato. E questa volta la “FIAT di Melfi” non c'entra. Si tratta della piementose Ferrero. “La mattina ci svegliamo e invece dei gas dei camion si sente l'odore del pane nel forno”, diceva un ragazzo che si sedette con noi al tavolo. “Qui le crostatine le distribuiscono gratis dopo pranzo”, ci prendeva in giro un signore che ci ascoltava dall'ingresso del bar. Il paesaggio intorno a Balvano e fino a Picerno, costeggiando la “storica autostrada Potenza-Sicignano”, sembra in effetti una rappresentazione lucana del sogno del “Mulino Bianco”, per molti anni archetipo della felicità perfetta piccolo borghese del bianco caucasico, basata sulla trinità casa-famiglia-cibo. Si tratta di una narrazione resa popolare da campagne pubblicitarie durate svariati anni, dal 1977 al 2019, di un noto marchio del gruppo Barilla, un altro grande “investitore e proprietario terriero” della Lucania (l'altro, se si escludono le compagnie petrolifere e la Chiesa, è la cesenate Orogel). Le villette sparpagliate, dotate di garage e giardinetto e veicolo di trasporto con vista mozzafiato delle gole del Platano o della piana di Baragiano e degli altri villaggi sui monti lucani, da San Gregorio Magno a Vietri, sembrano proprio la realizzazione pratica di quell'utopia di progresso consumista. Qui pare di trovarsi in una specie di eccezionalità della Basilicata, un esempio virtuoso di un processo che, dal terremoto del 1980, ha visto la regione entrare in una lunga e lenta fase di ricostruzione, restauro e, in alcuni casi, anche di abbellimento del suo patrimonio artistico e paesaggistico.

spopolamento Territotializzazione dei tassi di crescita della popolazione Italiana negli ultimi 20 anni

Nonostante ciò, ci troviamo comunque in una delle zone d'Italia a più alti indici di spopolamento. “Chi può se ne va, perchè in paese non c'è niente da fare.” Ci disse il nostro Virgilio. L'andare via è un tema fondante di queste aree della Lucania, e quel ragazzo ce lo diceva per aggravare lo stato di Assenza che sembrava dominare Balvano nei suoi racconti. Tuttavia, l'Assenza da migrazione ha un carattere diverso da quella del terremoto. Proprio nella valorizzazione patriottica della “restanza” e della sua confusione con un valore nazionalistico e di protezione dei territori dai non-bianchi, le estreme destre hanno raccolto un gran numero di preferenze elettorali anche da queste parti. A ben vedere, però, “l'andare via” da Balvano non riguarda un viaggio di conoscenza e di lavoro nel mondo, o il “viaggio nell'altro mondo” che ha portato molti lucani a migrare nel nord Italia, in Germania, nelle americhe o in Australia dopo la seconda guerra mondiale. Racconta invece di un processo di migrazione interna molto concreto e molto locale che porta la cosiddetta (a Potenza) “gente di paese” a spostarsi nei centri abitati maggiori e più vicini, tra cui appunto Potenza.

vistadacasa

Trasferitasi nel capoluogo, con alte probabilità “la gente di paese” finisce per vivere in nuovi palazzi antisismici, pensati per convincere i genitori a rompere il salvadanaio, rimpinguato dai sussidi della Politica Agricola Comune dell'UE, e acquistare un appartamento dove far vivere i figli. Il nuovo cemento armato garantisce di “esserci fino alla fine” per almeno i prossimi 20 anni. Per “la gente di paese” è un investimento, per gli altri speculazione edilizia. Ne emergono progetti di urbanizzazione che rendono Potenza una “città verticale”, colma di edifici che si sviluppano in altezza, tra montagne che sfiorano i 1000 metri. Questo avviene anche perché il modello di business che li porta alla realizzazione crea una catena debitoria banche-imprese di costruzione-banche-gente di paese che non può essere compromessa ed opera in automatico, altrimenti si bloccherebbe tutta l'economia di queste terre. “la gente di paese” diventa in altre parole il preciso target di mercato di una modalità di sviluppo della città che a sua volta si modella intorno alla natura diffusa del risparmio dei potenziali acquirenti. In assenza di “grandi proprietari” che di solito vivono altrove, l'architettura si “adegua” al mercato. Il risultato è un'edilizia popolare classica, come lo furono il quartiere Zen di Palermo o Scampia a Napoli e lo stesso “Serpentone” di Potenza. Tuttavia, questa volta, gli edifici sono realizzati da ditte private che sfruttano le sovvenzioni statali per produrre costruzioni “ecologiche ed antisismiche” e gli appartamenti vengono venduti a prezzi non calmierati spesso pagati con lunghi mutui e tassi di interesse variabili.

Per essere più concreti, chi lascia Balvano per spostarsi a Potenza con altissima probabilità va a vivere a Macchia Romana. Secondo dati non completamente verificati, negli edifici della foto di sotto vivono circa 10.000 persone, il 15% della popolazione di Potenza, di cui il 60-70% viene dalla provincia. Se Balvano è “il mulino bianco”, Macchia Romana rappresenta la materalizzazione degli spettri del passato e del futuro della migrazione che danzano intorno all'Assenza prodotta dal terremoto. Quei palazzi sono un prodotto della “modernità” esattamente come le villette di Balvano. Rappresentano una ricostruzione prospettica del villaggio distrutto che ritrova patria in un altrove immemore, anonimo, in cui Balvano c'è come un nodo dell'Assenza. A Macchia Romana è il cemento armato ad emergere come idolo del nuovo mondo post terremoto del 1980. Mentre l'eredità dei genitori si capitalizza, paga l'imprenditoria edile e i suoi alleati politici e paga le banche con lavoro salariato, il cemento armato domina i paesaggi e gli spazi come baluardo di non ripetibilità e di non deperibilità, come garanzia di futura rivendita o per lo meno di mantenimento del valore.

Macchia Romana

L'urbanizzazione di boschi e campi agricoli fino a pochi anni fa pubblici o con forme di proprietà diffuse, ha prodotto edifici alti e maestosi; immagini sbiadite delle fortificazioni del passato. Un tempo però quei luoghi erano riservati ai proprietari terrieri ed ai militari, ora il “progresso” si è diffuso e si è materializzato grazie al cemento armato. Secondo i dati delle agenzie immobiliari di Potenza, l'appartamento, nuovo ed antisismico, è la modalità di investimento preferita dalla “gente di paese”. Ci troviamo allora in uno snodo centrale della ricostruzione di Balvano. Tutto farebbe pensare che la “dottrina degli shock”, come la chiamava Naomi Klein, abbia qui funzionato alla perfezione. Inoltre, Balvano sembra vivere dentro una pax petroliera criminale che lo ha lasciato fuori degli interessi economici sia della camorra casertana sia di quella emergente del foggiano. Rosaria Capacchione spiega molto bene come la ricostruzione dell'Irpinia abbia rappresentato lo spartiacque tra la camorra del contrabbando di sigarette e droghe a quella dell'edilizia creando un'alleanza funzionale con le imprese edili del nord italia, soprattuto venete e lombarde. L'accresciuto potere negoziale non derivava però dall'uso delle armi e dal controllo del territorio, o meglio, non direttamente. “Il cemento armato” della camorra costava semplicemente la metà degli altri e ciò era possibile grazie a tutti gli schemi di “lavaggio di denaro” e di superamento sistematico di regolamentazioni locali di cui era capace. C'era quindi da mangiare per tutti ma solo se ci si alleava ai clan. Il culmine di questo lungo processo di normalizzazione dei sistemi mafiosi fu raggiunto quando Nicola Cosentino e l'alleanza mafiosa e petrolifera che rappresentava divennero vice ministro delle Finanze in uno dei governi Berlusconi.

Macchia Romana e questo pezzo di Lucania sembrano invece seguire dinamiche diverse, legate da un lato ad un'occupazione nepotistica e clientelare delle burocrazie, e dall'altro alla presenza di grandi “contractors multinazionali” come l'ENI, la Total, Stellantis, la Barilla e anche la Ferrero. L'economia più che essere in mano ai clan, è in mano alla burocrazia che la gestisce per conto o insieme ai grandi contractors da cui riceve le risorse finanziarie necessarie, come le royaties del petrolio. L'obiettivo in fin dei conti è storicamente sempre lo stesso, cioè permettere un tranquillo sfruttamento del territorio. Ma il risultato è che la competizione non segue il diritto di natura, per cui il pesce grande mangia il pesce piccolo. Al contrario, quasi come in un contrappasso dantesco, vive dentro tutta una serie di isterie legali e guerre commerciali a suon di querele che rallentano fino a bloccarlo ogni meccanismo produttivo reale. A primeggiare non è, cioè, il più forte e nemmeno il “migliore”, ma il più “adattato”, di solito il meglio connesso e il più “presentabile” alle autorità antimafia. Invece di manager senza scrupoli dominati dall'ansia di profitto, questi pezzi di Sud sono gestiti da ingegneri e geometri capaci di ricostruire Balvano, e da avvocati e notai che navigano con astuzia i meandri oscuri delle infinite leggi italiane. Ne emerge così un'economia reale essenzialmente estrattiva, con un'imprendotoria locale poco innovativa e per lo più concentrata nel settore edilizio o in quello dei servizi ma con bassi livelli di produttività ed una stagnazione strutturale dei profitti. I locali cicli di debito si sostengono soprattutto grazie alla gestione dei fondi pubblici che, in un modo o nell'altro, arrivano da queste parti.

In questo contesto, Balvano è un nodo dell'Assenza. La sua ricostruzione è rimasta vuota perchè gli abitanti, dopo 45 anni, sono ancora spaesati, hanno convertito l'eredità in capitale e sostituito le vecchie case con il cemento armato di Macchia Romana. Nel frattempo la sua architettura rurale si è trasformata in un bellissimo contenitore in attesa che accada qualcosa che ne cambi il destino. Le case sono perfettamente legalizzate e in regola, sono “accatastate” e mappate negli uffici comunali. Sono prodotti pronti per il mercato immobiliare e quello del turismo. Aspettano capitali ed investitori che però non arrivano. Seguendo una traiettoria di oltre 40 anni, quei dispositivi che dopo l'evento traumatico hanno fissato Balvano in una “Zona”, ne hanno poi gestito la sua scomparsa/assorbimento/assimilazione. Dopo la messa a reddito della ricostruzione, ora il suo “spostamento” negli edifici di Macchia Romana racconta la modalità in cui Balvano può continuare ad esistere, anche se ancora in una fine collettiva. Il suo divenire “cemento armato” è infatti anche il suo divenire “rovina”, spopolata, abbandonata, in attesa di fondi e di capitali. Forse anche a questo si riferiva De Martino quando definì le apocalissi culturaleli. Indirettamente stava già osservando una lenta ed irreversibile assimilazione e l'assoggettamento al capitale dei territori connettivi in prossimità delle aree di grande urbanizzazione. Eppure si tratta solo della fine di un mondo. Ma per spiegarmi meglio devo scrivere del Laos, delle sue frontiere e di due popolazioni, i Phunoy e i Hmong.