La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

[back in time: 2011]

Figlio numero uno si è messo in testa di programmare gioca ai videogiochi e vuole farli uguali, quando camminiamo mi dice allora di cosa parliamo, di programmazione o di videogiochi e io scuoto la testa e gli dico di platform, parliamo di platform e camminiamo per strade inclinate su cui scorrono barili e fiammelle da abbattere con grossi martelli, ogni tanto mi parla del mostro di fine livello che sta ideando, mi spiega nel dettaglio come saranno i laser che ha, e di come lui sposterà il mostro di fine livello a inizio del gioco.

Io lo ascolto con amore e penso se devo cazziarlo oppure no, sono fiero del fatto che voglia programmare, ma penso che sia ancora piccolo per programmare videogiochi. Vorrei che facesse cose adatte ad un bambino, che si godesse la vita e che iniziasse con sql, che è più semplice e ti dà maggiori possibilità di lavoro, sql viene sempre utile, puoi fare di tutto con sql, forse anche videogiochi.

“Ma di cosa parla il tuo videogioco?” gli chiedo per farlo parlare un po’. Figlio numero uno sorride. Mi guarda e mi rivela che il protagonista è un prete. “Uh, un videogioco con protagonista un prete?” Figlio numero uno annuisce e sorride ancora tra sé e sé. Digrigna i denti. Non mi sembra il caso di indagare oltre. Cammino senza pensare a niente, tengo per mano figlio numero due che sgambetta senza sapere cosa dirmi. Mi ama.

Entriamo in casa, figlio numero uno sale al piano di sopra, mi chiede se può usare il computer, io gli dico di no e sento che lui accende di nascosto il suo computer e gioca o coda. Figlio numero due fissa me, poi sale di sopra, fissa figlio numero uno e poi si rannicchia in un angolo a covare il suo senso di esclusione familiare.

Io mi siedo davanti al mio powerbook e inizio a taggare, ormai non gioco più ai videogiochi, non scrivo, non faccio altro che taggare, taggare è come sbucciare le fave, come pelare le patate, tagghi e guardi lo schermo senza pensare a niente che non sia il tag stesso è una cosa di grande zennità, da ragazzo ho sempre sognato di fare una cosa per Elettra, ovvero prendere diversi pacchi di post-it e mettere su ogni cosa che c’era in casa un post-it con scritto cosa era, tipo mettere un post-it sul frigo con scritto frigo, sul tavolo con scritto tavolo, sulla finestra con scritto finestra, su ogni pentola con scritto pentola e così via fino ad arrivare al maggior dettaglio possibile e pensavo alla faccia che avrebbe fatto Elettra girando per la casa piena di post-it esplicativi e aprendo il frigo e trovando le uova con scritto ‘uovo’ su ognuna, o i piatti con scritto ‘piatto’ e avrebbe pensato che ero completamente pazzo mentre sarei stato completamente pazzo e innamorato di lei, non l’ho mai fatta questa cosa perché era più bella pensarla e scriverla qua che farla davvero e perché poi ho scoperto che taggare è esattamente questo e quindi ho convertito il mio desiderio nel taggare tutto il conoscibile, ogni singolo termine taggarlo con quelle meravigliose stanghette maggiori e minori di, come parentesi tonde su cui si andata a sbattere una palla a mille all’ora stirandole in apici solitari.

E sono lì che taggo e scende figlio numero uno è perplesso e mi dice uffa è un casino, non ci capisce. “I compiti di scuola?” chiedo. “Ma no il c++, è un casino” fa lui sbuffando. Tolgo le mani dalla tastiera. Le poso sulle sue spalle. “Figlio, hai solo nove anni. Spegni quel computer e vai fuori a sbucciarti le ginocchia sull’asfalto” “Uh, non fa male?” Scuoto la testa. “Malissimo –spiego– ma infinitamente meno del c++”

“E poi –aggiungo– è più adatto alla tua età. Io mi sono infilato pietroline preziosissime sotto la pelle saltata dei ginocchi. Se ho un ricordo della mia adolescenza sono i miei ginocchi insanguinati pieni di pietroline”. Figlio numero uno non dice niente, sguiscia via come una anguilla e torna al piano di sopra. Il demone intanto ha sentito tutto e come un’ombra scivola fuori dalla porta finestra che dà sul giardino.

Torno a taggare. E mentre taggo penso e penso che in fondo devo solo tenere duro ancora qualche anno e poi esploderà l’adolescenza. Odori, carne, ragazze, erezioni. Tutto quello che ha imparato fino ad oggi andrà alle ortiche, se ha funzionato con me funzionerà anche con lui. L’adolescenza, scoprire che l’infinito è a portata di mano e che dura molto meno di infinito. E con me era peggio. Figlio numero uno ad esempio ha degli amici. Ha una vita sociale, cose del genere.

Sorrido e taggo quando sento che mi chiama dal bagno, è la sua voce. Mi alzo, vado fino al gabinetto, apro la porta, entro. È seduto sul gabinetto. Guardo se manca la carta igienica. Non manca. Lui mi guarda mi dice papà, io vorrei, e si ferma come per pensare. Io indico la carta igienica e dico la carta igienica c’è, lui fa un gesto con la mano, come dire ‘vanitas’.

Io vorrei, riprende, che faccio un cerchio, e questo cerchio viene stampato su quattro fogli a4, al computer dico. Come potrei fare per, inizia e io faccio un gesto con la mano, come dire stop e dico, ma scusa, questa cosa deve venirti in mente mentre stai cagando? e lui fa un verso come dire, eh papà quando scappa scappa.

Io faccio due passi indietro, non rispondo, chiudo la porta del bagno e sento un rumore alle mie spalle. Mi giro lentamente e nel mezzo della stanza c’è figlio numero due che mi fissa con odio. Più in basso brilla il suo ginocchio insanguinato. Innamorato.

Vado da primogenito e gli chiedo se mi dà una mano per spostare un po' di tronchi e portare una carriolata di mattoni pieni e quello inizia a lamentarsi come lo avessi accoltellato dicendo che sta studiando, dannazione, ha gli esami, dannazione e io dico occhei occhei, faccio io, se stai studiando ci mancherebbe, occhei.

Esco fuori dalla tavernetta e sbuca terzogenita: “ecco, te stavo cercando” le dico. “Puoi aiutarmi?” Lei mi guarda, stranita. “Cosa devo fare?”. “Dovresti portare una carriolata di mattoni pieni dall'auto a casa nostra” le spiego e lei “ok” dice e prende la carriola e inizia ad andare verso la macchina.

E – niente – la scena si conclude con io che porto i tronchi e terzogenita decenne che mi segue con la carriola e la sua dozzina di mattoni pieni e io ogni tanto mi giro e la guardo e penso, un giorno mi ringrazierà, un giorno capirà la fortuna.

E poi passiamo sotto gli occhi dei vicini che la vedono e le dicono “sei forzuta eh!” e lei ride e sembra una scena di un film di Miyazaki.

capisci di aver speso bene il tuo tempo come padre quando tua figlia terzogenita a pranzo ti propone di fare un trivia a turni su Yotsuba!& e tu dici occhei e passate mezz'ora deliziosa a farvi domande a vicenda sul manga, tipo “chi è innamorato di Asagi?” o “una volta il papa di Yotsuba la porta in un tempio e la terrorizza facendole credere che sarebbe stata punita dalla divinità locale, cosa aveva fatto?” e le indovinate tutte e ridete complici ricordando tutte le avventure lette assieme e poi – alla fine – sospirate entrambi, e lei esce con un “bei tempi”, intendendo quando passavate la sera a leggerlo assieme nel letto. e poi aggiunge, “ma potremmo rifarlo, ce lo rileggiamo tutto nel letto stasera?” e tu dici di sì, dannazione, sì

— secondogenito — dimmi papà — allora, come ti trovi in montagna con la zia? — uh. bene? — come sono le montagne? — normale — secondogenito — eh — tu non sai nemmeno come siano fatte le montagne lì — uh, in che senso, io... — ho guardato la tua scrivania — ah — sei in montagna e ti sei portato l'iPad, la Nintendo Switch e l'Oculus — posso spiegare — tanto vale che passavi le vacanze chiuso in bagno qua a Genova — uh, avrei potuto? — no — ecco — comunque — eh — il mio non è un rimprovero — ah — è invidia

[dialoghi con i figli]

— pronto? — papà — secondogenito? — ciao — ciao — ti chiamo solo per avvisarti che resto in campeggio ancora un giorno — ah, ti stai divertendo? — no, hanno hackerato le biglietterie delle ferrovie dello stato. Non è più possibile comprare biglietti — ... — ti mando i link che lo testimoniano — ...

***

— papà — dimmi terzogenita — ma tu vorresti morire nel sonno? — ... — papà? — cos'è, vuoi darmi una mano nel caso? — no, chiedevo per sapere — ...

***

— terzogenita, ti ha mai detto nessuno che sei oppressiva? — cosa significa? — che opprimi le persone, gli stai addosso, gli divori l'anima — ah, quello. Beh, sono tua figlia — ... — è il mio ruolo — ...

— terzogenita — eh — oggi mentre impaginavo un libro mi è caduto l'occhio su un paragrafo e ho scoperto una cosa — racconta — l'uomo era primitivo, no? Tipo animale. Ugha ugha — sì — e a un certo punto ha iniziato a diventare come noi. A pensare al futuro, a ragionare su se stesso, a immaginarsi cose — ok — si chiama rivoluzione cognitiva — ok — e sai come mai è successa? — no — il linguaggio. Si pensa che sia stata la nascita del linguaggio a permettere all'uomo di fare questo enorme cambiamento — forse lo sapevo — infatti, e fin qui tutte cose che sapevamo. La cosa che ho letto oggi è questa: un tempo si pensava che il linguaggio fosse arrivato piano piano, progressivamente, una pratica d'uso degli adulti che si modifica lentamente. Oggi invece si sono fatte delle nuove scoperte e, senti. — ... — il linguaggio è un'invenzione. Dei bambini. I bambini l'hanno inventato per giocare, e poi se lo sono tenuto — vediiii? Noi bambini siamo miglioriii! — ecco — noi abbiamo la fantasia! Siamo noi che cambiamo le cose! — certo — noi abbiamo inventato il linguaggio! — e il cin cin karaté — anche il cin cin karaté, che è un bel gioco — bello, vero. Comunque anche io sono stato bambino eh — non conta — non è che siamo in competizione — non conta, ora non lo sei più

I supermercati tedeschi vendono la carta igienica omeopatica. Pacchi da venti rotoli che pesano meno della tua anima, li metti in bagno, fanno il loro effetto. Ti rassicurano mentre tu sei lì – seduto – con il cellulare in mano che navighi per il mondo e sforzi i tuoi organi interni perché facciano uscire quella poltiglia inumana di cui ormai dopo decenni riconosci l'odore standard, la consistenza giusta e quella preoccupante.

Quando hai finito, comprimi ancora e non c'è più niente da dare, ti giri, prendi la parte finale della carta igienica dei tedeschi, tiri con decisione e quella ruzzola via nell'aria, fa una specie di festone cinese, si sente rumore di petardi lontani millenni, poi tutto si sfarina e scompare in una pioggia di caroselli e coriandoli d'aria.

E tu resti così, sporco, a fissarti la mano vuota, il rotolo appena iniziato e già finito e il cilindro denudato di cartoncino marrone, imbarazzato, infilzato al porta carta igienica come un san Sebastiano neo pop.

— pronto? — papà — ah secondogenito, come sta... — il cinghiale è stato aggirato con successo — ecco — ora posso andare a scuola — ecco

[in moto con terzogenita]

— papà — dimmi terzogenita — guardami gli occhi — sì — sono identici a quelli di mamma — sì — perché ho preso tutto da mamma e niente da te? — dunque — sono bionda come mamma, ho gli occhi di mamma — qualcosa hai preso anche da me — cosa? — sei completamente scema — ... — non so se sto insultando te o me — tutti e due — ecco — stai facendo autodissing — autodissing — autodissing — ma, amore, siamo in moto — ... — stiamo facendo motodissing al massimo — scemo — scema

Sto camminando di sera con terzogenita in piazza della Vittoria dove c'è un grosso arco di epoca fascista. Celebra le vittorie militari italiane. Poggia – letteralmente – su un parcheggio sotterraneo ed è circondato di parcheggi a pagamento. Di sera è illuminato di viola, e le luci creano, nella parte superiore, il nome dello sponsor che – immagino – abbia manlevato il comune dalla cifra che serve per illuminare i monumenti di Genova.

“Guarda – mi dice mia figlia – hanno scritto il nome di una ditta là sopra!”. È meravigliata. Io le spiego che – no – sono solo luci, ma non posso non pensare che quel monumento, con quella scritta là in cima, lo sponsor, abbia modificato il suo significato, la sua presenza nello spazio.

Quando lo guardo non penso al monumento fascista, alla faccia scolpita di Mussolini e poi abrasa dopo la seconda guerra mondiale. Lo guardo e penso allo sponsor.

Il delegare servizi della cittadinanza ai privati, priva i cittadini del servizio, perché quello che ottengono è qualcosa di diverso. Il comune ha la storia, il privato la trasforma in reclame.

Più tardi seguiamo i carri del funerale della sardina che all'improvviso lanciano giocattoli sulla gente ai lati della strada. Sono giocattoli di plasticaccia, cose made in Cina che vengono buttate a migliaia sulle persone che si mettono a prenderle a manciate, riempiono borse di paccottiglia.

Ma non solo per avidità. Anche per pena. Perché se non le raccogliamo i carri che seguono i primi ci vanno sopra e le distruggono. La fiumana delle persone che arriva le calpesta. Si sente rumore di plastica che va in pezzi, sono giocattoli che perdono braccia, testa.

Scoprirò più tardi che immediatamente dopo l'ultimo carro ci sono i camioncini dell'AMIU che ripuliscono la strada in tempo reale, tutti i resti spariscono nel nulla. Niente storia.

Alla fine siamo in piazza De Ferrari e partono i fuochi di artificio. Vanno in sincrono con la musica pop dei ragazzini. Terzogenita riconosce le canzoni e mi dice il titolo.

Indico i fuochi nel cielo che esplodono. “Non sono belli?” chiedo a mia figlia e lei li guarda, ci pensa e poi mi dice. “Sì, sono belli: ma saranno eco-sostenibili?” e resta a fissarmi con aria di sfida e io penso a come si formano le idee, le nuove generazioni, i nuovi linguaggi del mondo.