La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

[bada-boom #z]

Provo a leggere. Durante queste vacanze mi sono portato solo l'ebook reader carico di romanzi. Niente libri di carta, niente portatile per scrivere, solo questo tablet a inchiostro elettronico carico di romanzi. Una decina di romanzi, classici che dovrei aver letto e che non ho mai letto. La vita è piena di romanzi che dovresti aver letto e che non hai letto, per quanto tu ti sforzi di leggere tutto, ci sarà sempre qualcuno che ti rimprovererà di non aver letto qualcosa. Ma dai, Venerandi, come è possibile che tu non abbia mai letto... segue nome di un romanzo che tu, cioè io, non ho mai letto. È pieno di libri che avrei dovuto aver letto e non ho mai letto, liste interminabili. È un po' la sberla che il padre di Zeno Cosini getta in faccia al figlio in punto di morte, il senso di colpa. E per quanto io mi metta a leggere furiosamente romanzi, sempre ce ne saranno di nuovi da leggere, è una battaglia impari.

Così, questa estate, ne ho messi una decina sul lettore e ho iniziato a snocciolarli senza pietà. Calvino, Fante, Carrere, Schnitzler, Lussu, Shiel, Moravia, Camus, Celine, Lewis, tutti questi grandi classici che avrei dovuto aver letto e che ora leggo, calma ragazzi, non vedete che li sto leggendo? Non mi state addosso, sono qua che li leggo, proprio quelli che avete detto che devo, assolutamente devo aver letto. E più li leggo più mi ci sento dentro, come se fossi caduto in un impasto.

Gia a Genova, prima della partenza mi ero svegliato, ero andato in cucina, e mentre facevo colazione avevo aperto tutta la decina di ebook che mi ero comprato per il viaggio, tutti, avevo impostato la grandezza corretta del font, i margini, avevo disattivato la sillabazione e avevo iniziato a leggerli tutti e undici, la prima mezza pagina.

E mentre ero lì che passavo da Calvino a Celine, da Moravia a Fante, venivo colpito dalla materia, dalla forma mobile della scrittura, delle parole, del suono. L'incipit è un po' come entrare in un flusso, avvicinarsi al bordo della piscina e guardare l'acqua sapendo – dentro di te – che se fai il salto poi cambia tutto, ma per ora sei ancora salvo, sei un terrestre che fissa una massa d'acqua. L'impasto era tutta la glassa, il sovrapporsi di tecniche di quegli ometti che avevano passato ore, giorni, anni a scrivere cose che potessero mentirmi, intreccio, scene, personaggi, pause, idioletti e che ora – aprendo il libro – portavano il senso di sé, del loro essersi messi lì a trascriversi, a compitare il loro modo di ingannarmi e farmi perdere tempo. Sentire – da lontano – la consistenza della loro lingua, quella che leccava e si muoveva nella loro testa.

Era la sensazione strana di trovarmi davanti a codici, a declinazioni di quella tecnologia nata per tenere conto del bestiame e delle anfore d'olio, che ora veniva distorta per raccontare cose inesistenti che permangono nel tempo. Una tecnica inventata per memorizzare cose reali, dati, usata ora per descrivere l'irreale e il fiabesco. La narrativa è un allungamento deforme delle fiabe delle buona notte, una versione per lenire, anche per gli adulti gli orrori del giorno. Così come la musica popolare, gli incastri della trap come gli accordi base del rock, altro non sono che una versione portatile – negli anni – delle ninne nanne, i jingle con cui le femmine del pianeta ci hanno rassicurato nel momento di chiudere gli occhi, così fragili, nel buio. Quelle per innamorarci, quelle per danzare.

Decine di incipit come odori personali, questo ingombro dell'autore, la scheda personale, la prefazione dello scrittore contemporaneo, la seconda, la terza e la quarta di copertina, la voce che ritorna lì, nero su bianco, a raccontartela, a costiparti la testa di una leggera frenesia che si accumula, periodo dopo periodo, finché non sei saturo e dici basta, basta e chiudi tutto, salvando lo stato, per riprendere appena possibile, una volta esauriti gli altri infiniti antipasti dell'anima di cui siamo circondati.

E ora – con la schiena a pezzi – con le parole di Svevo ancora nelle orecchie, mi muovevo all'interno di quei fragili labirinti narrativi. Fragili, la scrittura è di una fragilità disarmante. Richiede uno sforzo da parte di chi legge, andare avanti, riga dopo riga, parola dopo parola, staccarsi da tutto quello che si ha attorno. Trovavo dei pezzi, li sottolineavo, cercando di mangiare, di fare cannibalismo di questi autori invisibili, essere anche io un po' Fante, un po' Carrere, un po' Celine. Divorare questa spiaggia allucinante, con il sole che annienta ogni cosa e in piedi ci sono io con la pistola in tasca, me la sento fra le dita, lucida e dura e cammino verso quell'arabo per terra, l'acqua dietro di lui. Le arance che ho messo sotto al letto, ne ho divorate e decine e ora ho la pancia gonfia, mi viene da vomitare mentre fisso il prato verde, appena fuori dalla finestra aperta del mio appartamento. Tutto mangio, divoro, cambio forma ogni secondo.

Leggere è una metamorfosi, una droga. Un side effect della comunicazione inaspettato e provvidenziale. E poi succede questa cosa, che alcune cose che aveva iniziato a dirmi Svevo, finisce di dirmele Celine. Mettono tasselli a una terza narrazione che non è più quella di Svevo né quella di Celine. È la mia, è interna, quando vuole salta le righe di questi morti senza nemmeno leggerle e poi si ferma e divora una frase, una parola, così, come un banchetto dove posso mangiare quello che voglio, evitare certe pietanze, tirare fuori dalla bocca i resti di un lemma e ributtarli nel piatto, così, piene di legacci e legami interni del mio corpo.

A un certo punto penso che nella mia testa è una tempesta di copia e incolla dei diversi romanzi, sberle di queste storie e prese come una sola, vedo entrare il Bandini di Fante nella provincia francese di Celine, vedo gli esseri senza tempo di Calvino che incontrano con l'ultimo uomo sulla terra di Shiel, un personaggio si sposta all'interno di una descrizione, è un centone in cui tutto questo impasto si incontra per un attimo, prima di crollare, come la mia schiena, che mentre sono lì che tento di leggere, faccio uno spostamento su di un gomito e quella manda le sue urla atroci nella carne, altro che Zeno, questo è un dolore reale. Il dolore nella vita reale fa male, davvero. Chiudo l'ebook reader, non riesco a leggere.

Alla fine la letteratura è fragile, ha molta meno forza di quello che crediamo. Basta un mal di schiena per fare tornare i segni sulla forma della pagina, per renderli degli ostacoli per occhi, dei semplici simboli messi gli uni davanti agli altri. Inutili, spenti. Quando arriva il dolore, anche quello interno, non della carne, tutta la forza della fiction decade. Ogni organo del tuo corpo inizia a pesare mille quintali, dentro di te. Ogni cosa fuori è lì immobile per ferirti. La cosa migliore è stare nel letto, coprirsi con un lenzuolo e fare la magia del prestigiatore: scomparire dall'umanità, dalla stanza, dalla famiglia. Chiudo gli occhi. Li riapro: davanti a me c'è Elettra. “Io non me la sento di ripartire domani” le dico. Lei annuisce. Pensa. “Domani vediamo di fare qualcosa per te” dice e io rispondo “occhei”. Come in un romanzo americano, occhei e sento tutto il fastidio del mondo che si gratta attorno a me, oltre lo spazio interno all'appartamento, sopra il tetto fuori nel vento nero della notte norvegese che smuove rami e terra e più in là, per l'intera circonferenza del globo, a scuotere capelli, finestre, masse immani d'acqua scura.

[bada-boom #y]

La missione che abbiamo, partendo da Genova, non è però visitare Kassel. Documenta è solo una tappa del percorso. La missione reale è quella di lasciare primogenito in Svezia, per il suo anno di Erasmus, visitare il Lysefjord in Norvegia, possibilmente salendo fino al famoso Preikestolen, un precipizio, e – infine – passare per Älmhult, la patria dell'Ikea, per chiudere un conto bancario che Elettra aveva aperto quando insegnava alla scuola internazionale svedese. Per fare queste cose io e Elettra abbiamo programmato un percorso serrato a tappe, che comprende anche Oslo, per mostrare ai nostri figli le statue di Vigeland che io e lei avevamo visto quando eravamo seriamente innamorati, voglio dire, di quel tipo di innamoramento che fa girare il cielo e precipitare in un mondo di roba liquida fosforescente. Quando non eravamo ancora né padri né madri e giravamo la Scandinavia come due pezzi di un corpo, due ragazzi con l'Interrail in mano. Mille anni fa.

Fa senso pensare che giravo con Elettra per la Scandinavia e non c'erano i miei figli, le torri gemelle erano ancora in piedi, niente internet di massa, la Jugoslavia era in tutte le cartine geografiche, appena infuocata, la Apple puntava forte sulle linee Quadra e Performa, Berlusconi aveva da poco fatto la sua discesa in campo, Occhetto lucidava la sua gioiosa macchina da guerra, e io ero già lì innamorato a vedere le statue a Oslo, leggendo le sceneggiature di Bergman e andando a visitare i posti dove Strindberg aveva scritto i suoi romanzi ed ero un ragazzino cretino come adesso, vicino a Elettra che mi guardava e non so cosa vedesse, non lo so nemmeno adesso. Mille anni fa, girano in fretta. Chissà, mi chiedo, che effetto mi farà rivedere quelle statue a decenni di distanza con i miei tre figli? Ci saranno ancora? Ogni tanto mi chiedo anche: ma c'erano già state davvero? È passato così tanto tempo che potrei essermi immaginato tutto.

In auto ci facciamo tirate da dieci, dodici ore di seguito. I figli, dietro, dormono, tappano, guardano fuori dal finestrino, ascoltano la musica, la voce di Zeno Cosini che racconta la sua vita. Man mano che prosegue il racconto di Svevo io confesso ai figli, vedete, Zeno sono io. Quando sento La coscienza di Zeno sono come quel personaggio di Tre uomini in barca, quello che legge i libri di medicina e più li legge più capisce di avere tutte le malattie del mondo. Io uguale con Zeno: più quello racconta, più capisco che parla di me, confessa i miei difetti, i miei modi di mentirmi, di sopravvivere. La coscienza di Zeno non è un grande classico della narrativa perché scava all'interno dell'uomo moderno, o perché scoperchia i processi psicanalitici, ma perché Svevo parla di me, in maniera palese. Spiego la cosa ai ragazzi mentre guido, la malattia di Zeno, i suoi dolori, sono tutti i miei.

La sera, dopo questa confessione, succede questa cosa. Guido fino alla casa che abbiamo prenotato, arriviamo alla sera, conosciamo il nostro ospite che ci saluta e ci spiega come entrare in questo piccolo appartamento, grazioso, costruito sopra un garage nel mezzo di un bosco. Posteggio, tutti scendono dall'auto, io spengo l'auto, metto il freno a mano, apro la portiera, metto fuori le gambe, faccio lo sforzo per alzarmi e parte un dolore, enorme, profondo. La schiena manda una fitta precisa, assoluta e io ripiombo dentro l'auto. Uso le mani, mi aggrappo al volante, riesco a mettermi in piedi e cerco di capire cosa cazzo mi è successo. Non dico niente a Elettra, inizialmente, voglio prima capire cosa ho.

Dopo un po' di tentativi, di analisi e di test di movimento capisco che quello che ho è che sono vecchio. Sono un adolescente, certo, ma vecchio. E la schiena mi sta mandando delle fitte atroci, non riesco nemmeno a slacciarmi le scarpe. Confesso dopo un po' la cosa a Elettra e anche lei cerca di capire cosa possa essere e dopo un po' capisce che il male che ho è che sono vecchio. Per fortuna Elettra ha portato con sé, oltre ai suoi medicinali salvavita, anche dell'Oki, un antinfiammatorio. Così mi siedo sul letto soffrendo come un cane e mi sento Zeno Cosini con il suo male alla gamba, identico, vedete figli, dico, anche io come Zeno ho una malattia. Si chiama corpo. Bevo il mio antinfiammatorio e provo, inutilmente a sdraiarmi e penso che adesso dovranno portarmi in ospedale, che potrò solo che peggiorare, che con il mio stupido essere malato rovinerò la vacanza di tutta la famiglia.

La colpa non è mia, ma di Svevo. Delle venti ore di audiolibro di Svevo. Evidentemente la sua malattia dell'anima è contagiosa. Passa. Dalla sua gamba è passata alla mia schiena, penso, sdraiato a fissare il soffitto obliquo del sottotetto. La mia figura distorta di padre di famiglia, di uomo alfa ha chiamato in soccorso subito il male, la malattia, per tornare a essere rapidamente un preadolescente, una persona non sufficiente, che ha bisogno di essere curata, accudita, che necessità di continue attenzioni. Ecco. Il latte, l'Oki, le copertine sulle spalle, il bacio della buona notte.

Casco male, ogni figlio pensa ai fatti suoi, cercano la rete, mettono le cose in carica, non si accorgono nemmeno che ogni tanto tento di rimettermi seduto e non ci riesco e mi ribalto indietro contro il materasso. Porca puttana, penso anche. Torno a fissare il soffitto. Lo tocco. Sospiro.

[bada-boom #x]

A Kassel arriviamo alla mattina. Documenta, la mostra d'arte è distribuita, in varie parti della città, un po' come una cuccia diffusa per cani. Appena riesco ad entrare in uno degli edifici capisco di aver sbagliato tutto. Cammino e mi rendo conto che non c'è niente di eclatante, non ci sono opere che mi sbalordiscono, ma è pieno di cose. A centinaia. Abbiamo previsto tre o quattro ore di visita alla mostra, ma quando sono dentro capisco che dovrei starci dei giorni, da solo, girando e cercando informazioni. Una persona su Facebook mi dirà poi che a Kassel troverò più artigianato che arte, ma in quel momento non me ne frega niente. Mi sento come quando, negli anni ottanta, andavo quattordicenne da Genova a Milano per lo SMAU, la fiera dell'elettronica e dell'informatica, e giravo frenetico per i padiglioni a cercare gli home e i microcomputer che stavano assaltando l'occidente con la novità del loro linguaggio. Sono sempre lo stesso ragazzino, vecchio, che gira e guarda tutto con uno sguardo disposto a farsi affascinare, solo che questa volta non dalla tecnologia: sono davanti a cose che nascono per non servire a niente.

Cammino e mi ritrovo in sale buie dove vedo proiettati dei ragazzi orientali, seduti a terra, che fanno qualcosa che non capisco, per lunghissimo tempo, video dove neonati occidentali gattonano all'interno di stanze chiuse, televisioni di cartone, a decine, disegnate a mano con l'immagine di Fidel Castro, elaboratissimi meccanismi in legno e metallo che non fanno nulla, ricostruzioni di cinema africani che mandano i blockbuster girati in Africa, negozi che espongono vasetti di Nutella di marmo bianco, banane Chichita in bronzo, frutta immangiabile che morfizza in arma, torri trasparenti, maschere con i volti stilizzati di desaparecidos, manifesti di rivolta e antagonismo scritti con caratteri che non posso nemmeno leggere, chiese cattoliche piene di cadaveri vodoo, stamperie, gente che scolpisce scritte con i chiodi su carcasse animali, mia figlia su uno skate all'interno di una pista, zone per disegnare, scritte sui muri, simboli, cartelli che volteggiano nell'aria, idee. Centinaia di idee e ognuna potrebbe prenderti e catturarti.

Non mi sento in un posto in esposizione, mi sembra invece di essere all'interno di un enorme laboratorio aperto, in cui sei quasi spinto a partecipare, a informarti, a fare anche tu qualche cosa. E con un forte messaggio politico, sociale. Siamo tutte queste parti di mondo non occidentale, questi frammenti di tradizioni, storie, civiltà diverse, le une sovrapposte alle altre, cancellando e nascondendo. E siamo il mondo, la terra concreta, l'energia dell'acqua e del vento, la massa di aria che ci avvolge, sottilissima. Penso che abbiano ragione tutti e due i gruppi dei miei amici, questa mostra è una merda ed è bellissima. Ogni tanto vedo Elettra che gira, uno dei miei figli che osserva le cose e non dice niente. Capisco che questa cosa che sento, questo entusiasmo irrazionale è incomunicabile. Sono affascinato dal fatto che un posto del genere esista, che attiri persone, che crei connessioni per il mondo.

E io sono lì, ci sono sempre stato. Questo interesse per la cosa che non gira, per l'esclusione, per la stranezza, per l'inconsueto fa parte di me. Non è uno standard che posso applicare a chi amo, alle persone con cui parlo. La letteratura, l'arte, la comunicazione sono da qualche parte dentro di noi. Sono nel nostro dna, o non ci sono. Sono legami simbolici che possiamo curare, far riconoscere a chi ci circonda, fare emergere o nascondere, ma sono parti animali di quello che siamo. Non si tratta di intelligenza o di un dono, è più uno scatto muscolare che prende atto. Una fame chimica che arriva o non arriva. La bellezza è la presenza di una forma nello spazio, quello spazio e solo per noi. Poi segue lo studio, la formalizzazione, le ore passate all'Università a guardare le diapositive delle nature morte, la frutta, le formiche, i violini e le viole abbandonate, gli uccelli uccisi e appesi ai ganci davanti a me. Ma se ero lì era perché qualcosa dentro di me rispondeva, un muscolo.

La prima volta era successo al liceo Classico, il professore di Arte, non so bene perché, ci aveva portato in un'aula a vedere un film, in bianco e nero. Il professore d'Arte quando spiegava guardava sempre nel vuoto: uno dei due occhi non funzionava più, era sbrincio. Gli studenti lo sfottevano, di nascosto, vedendo che nel viso, dalla parte dell'occhio cieco, si vedevano i peli della rasatura sbagliata. È l'unica cosa che ricordo di tutte le sue lezioni di arte, la barba tagliata male e quella mattinata passata a vedere un film in bianco e nero. Entriamo nell'aula, lui fa partire il film. Il film, scoprirò poi, è “La dolce vita” di Fellini. Man mano che il film andava avanti io restavo a fissare lo schermo. Le immagini, le inquadrature, tutto mi entrava dentro e io restavo immobile, rapito, completamente rapito. Nell'aula vecchai, con le tende strappate, le sedie inadatte a stare seduti, io ero entrato dentro lo schermo. Ogni tanto mi voltavo per vedere i miei compagni e nessuno stava guardando il film, non come lo stavo guardando io. Chiacchieravano, guardavano fuori dalla finestra, si facevano scherzi, cazzeggiavano. Io tornavo dentro Fellini, quei bianchi e neri assoluti. Alla fine il professore spegne tutto, ci dice che dobbiamo tornare in classe e io mi alzo, come se mi fossi svegliato da un sogno profondissimo. Non torno in classe, vado da lui che sta ancora armeggiando per spegnere il proiettore e gli dico qualcosa del tipo, professore, ma questa cosa è bellissima. Ricordo ancora che lui si è tirato indietro, ha preso spazio per quello che gli stavo dicendo. Questa cosa è bellissima. Ha sorriso, mi ha detto qualcosa che non ricordo. È in quel momento che ho capito che tutte quelle due ore di cineforum erano servite forse solo a me, probabilmente solo a me. Che ogni tanto certe cose succedono per andare a toccare un muscolo, una resistenza mentale, una piccola parte umida dentro una singola persona, e che è uno sforzo immane quello della letteratura, dell'arte, del cinema, dei videogiochi. Della scuola.

Così, ora a Kassel mi sento protetto, ma anche un traditore. Ogni volta che lascio un padiglione, di corsa quasi per passare a quello successivo e vedere più cose possibile prima di andarmene, provo un senso di colpa e di paura. Come se stessi passando da turista all'interno di un mostro che in quel momento è vivo, con le sue viscere che pulsano, le sue contraddizioni, le sue poveracciate, ma che poi non ci sarà più. Sono un Achab dentro questo corpo e più avanzo più lo sto perdendo. Più passano le ore, più vengo espulso fuori, verso il resto del viaggio. E penso che anche questo sentimento di vuoto e di perdita devo conservarlo con cura, portarmelo dietro.

È dentro quel budello che penso alla cittadinanza. La mia generazione non è determinata dall'età, la mia patria non ha niente a che vedere con il luogo di nascita. Dentro a quell'organo animale, a Kassel, sono circondato da gente della mia generazione, esseri simili a me. Ragazzini tatuati, donne dai capelli grigi, gli occhiali delicati e lo sguardo acceso. Quella cuccia diffusa è un pezzo della mia patria, come si è andata formando per decenni, prendendo i pezzi per il mondo. La tradizione è lì, in quel continuo spostare le cose per distruggerla. Benvenuti in Europa, penso, mentre la bestia, il continente, si immerge nelle profondità della storia.

Poi – ecco – vedo uno dei figli grandi, gli chiedo, che ne pensi, ti piace? Quello alza le spalle, dice boh. Alzo le spalle anche io. Boh.

[bada-boom #8]

Per fortuna Elettra riesce a trovare un posto dove dormire, quattro notti. Non ci siamo mai fermati così tanto. Mentre io guido questa Volvo preistorica, lei allo smartphone zomma, cerca i dati della strada, mi dà delle indicazioni. Dobbiamo spostarci a Sandnes. Inizialmente avevo capito Sadness e avevo pensato ad una città che ci avrebbe liberato dalle nostre preoccupazioni. “Non è un appartamento” mi spiega poi Elettra, “è un Hotel”. Mi guarda.

In genere cerchiamo di andare a dormire in appartamenti, perché è più comodo e puoi usare la cucina. Avere la cucina è importante perché puoi fare colazione, mangiare un po' quando vuoi e non sei costretto ad andare ogni sera al ristorante o – peggio – mangiare cose prese nelle grandi catene del cibo d'asporto. In scandinavia fare colazione al mattino però non è semplice. Una volta, in un piccolo paese, sono uscito alle otto del mattino per andare a prendere un cappuccino o un caffè, anche di quelli loro lunghi, e portarne uno a Elettra. Mi sono ritrovato in una città fantasma. Tutto era chiuso. Andavo di insegna in insegna per scoprire che lì tutto apriva alle undici del mattino. Anche le caffetterie. Il tempo di vita è completamente diverso, devi cambiare anche tu. Avere una cucina ti permette di non cambiare, di restare turista, passare sopra la realtà che hai intorno. Viaggiamo ma ascoltiamo musica americana, italiana, siamo a scrivere messaggi sugli stessi social network che usavamo a Genova. La nostra bolla ci segue man mano che viaggiamo, si mette tra noi e la realtà fuori dal finestrino. Ogni gruppo di turisti è chiuso in una bolla invisibile con cui si protegge, cerca di rassicurarsi, di sentirsi come a casa. Il cappuccino, gli spaghetti al sugo, le foto su Facebook, i like.

L'Hotel ha il tipico aspetto dell'Hotel generico dell'occidente. Reception, check in, tessera magnetica come chiave, ascensore anche solo per andare al primo piano, la numerazione delle centinaia immaginarie. Moquette per terra e quadri anonimi alle pareti. Mentre camminiamo per i corridoi potremmo essere in qualunque parte del mondo. Poi entriamo ed esplodiamo: ognuno crolla nel suo letto, tutti i geniti si mettono a tappare i loro schermi, io ed Elettra cerchiamo le prese della stanza per mettere in carica tutto quello che possiamo caricare. Stacchiamo la televisione, tutto quello che non ci serve per tenere attiva la nostra parte di tecnologia. Tablet, smartphone, sigarette elettroniche, ebook reader, Nintendi, tutto emerge a galla per prendere boccate di energia, spasmodiche. Controlliamo il bagno, guardiamo dove sono gli asciugamani, le lenzuola, cerchiamo i dati per connetterci al wi-fi. L'essenziale.

A un certo punto esco, vado avanti e indietro dall'auto per portare le valigie e le sacche con i vestiti, i pigiami, le altre cose che ci servono per stare quattro giorni in quel posto. Devo anche spostare la Volvo più lontano, non c'è parcheggio lì attorno se non quello a pagamento.

Mentre vado avanti e indietro vedo questa porta sul nostro piano, un po' distante dalle altre. Non ha il numero, c'è una scritta sopra che inizialmente non riesco a leggere perché è troppo lontana, ma poi prendo e mi avvicino e vedo che c'è scritto “guest kitchen”. Rimango come elettrizzato. Cucina per gli ospiti. Finisco di portare le borse e annuncio ad Elettra la mia scoperta. “C'è una cucina degli ospiti” dico. Elettra alza la testa dal suo cellulare. “E noi siamo ospiti?” chiede. Alzo le spalle. Lo ignoro.

Esco e vado a parcheggiare la Volvo più lontano dall'Hotel. Giro senza navigatore in questa città che non ho mai visto prima, piccole casette bianche che digradano dalla collina e istintivamente salgo sempre più in ato fino ad arrivare ad una grossa costruzione sulla cima: un centro olimpico. Parcheggio di fronte al centro, scendo, chiudo la portiera mentre attorno a me tutto ruota. Si è alzato un vento fortissimo accompagnato da rapide scosse di pioggia e io a passo veloce mi dirigo dove – credo – possa essere l'Hotel. Nel centro olimpico ci sono dei ragazzi, in cerchio, che ridono e fanno qualche gioco mentre la tempesta sbatacchia i loro completi sportivi. Li guardo, cerco di farmi una idea di che tipo di società sia quella in cui mi trovo, che abitudini abbiano questi ragazzi.

Inizio a scendere verso il basso e le abitazioni sono quasi tutte unifamiliari. Fa impressione vedere le singole case, ognuna con il proprio giardino, il proprio posto auto. Tutto è regolare, pulito, nell'erba continuano a ronzare muti i robot tagliaerba. Pochissima gente per strada. Lo spazio tra le persone è incomparabile con quello a cui sono abituato a Genova dove le case sono costruite le une sulle altre, dighe di appartamenti fondate nel fango, auto incolonnate nelle strade troppo strette, espansione verso l'alto. Lo spazio e il tempo mi sembrano qua completamente diversi.

Arrivo all'Hotel e invece che salire di sopra vado alla reception per chiedere cosa sia la Guest Kitchen e la ragazza ascolta il mio terribile inglese e mi dice certo, la cucina è disponibile per tutti e lascia il bancone, mi segua, mi dice e mi precede al piano di sopra, arriva fino alla porta serrata e avvicina il suo polso alla maniglia che scatta elettronicamente: un braccialetto lasciapassare. Si apre allora la porta che rivela la cucina: fornelli, lavatrici, frigoriferi, pentole, lavandini, posate, piatti e bicchieri: sembra di entrare in una di quelle cucine che si vedono nei polizieschi americani quando uno dei personaggi scappa inseguito da un altro e nelle sue corse finisce nelle cucine dei ristoranti. La ragazza mi sorride e mi dice che posso usare tutto quello che voglio. Che sono felici se uso la loro cucina. In inglese chiedo se devo pagare qualcosa, e lei fa una faccia come se avessi detto un'assurdità. Si senta libero di usare quello che vuole, dice e mi sorride ancora e se ne va, lasciandomi lì, a guardarmi attorno.

Iniziamo a girare per i supermarket. Anche quelli hanno orari improbabili, ma con un po' di attenzione riusciamo a comprare i materiali per cucinare, carne per chi mangia la carne, verdure per chi mangia le verdure. Il Nescafé al cappuccino continua ad accompagnare il nostro viaggio. In cucina incontro diverse persone: un gruppo di lavoratori, forse russi, molto taciturni, vengono a lavare i loro vestiti nella lavatrici e a cucinare, alla sera tardi piatti che lasciano poi nel piano un odore acre e irrespirabile. Un ragazzo francese il giorno dopo mi chiede come funzioni la lavatrice e io rido e gli dico che è meglio che se lo faccia spiegare da qualcun altro.

In quella cucina, ad un certo punto, sono felice. Una cosa molto rapida, non più di cinque minuti. Sono seduto sul margine di una finestra da cui vedo lo skyline della città, è mattina, sto bevendo il mio cappuccino e guardo fuori. Ho parlato da poco con il ragazzo francese e per un attimo ho pensato a quella come la normalità: un posto non mio, che non mi appartiene, che posso usare per mangiare, in cui appaiono persone come me che vengono da nazioni diverse, che non parlano la mia lingua e io non parlo la loro, con abitudini e tradizioni che non conosco. La normalità di non dover difendere qualcosa, di dover pulire immediatamente quello che ho usato per farlo usare dagli altri, essere continuamente a contatto con gente completamente diversa. È una felicità ingenua che arriva dal passato, i residui di quando andavo negli ostelli, quando davvero pensavo al mondo come una comunità di gente ragionevole, capace di abbandonare il proprio interesse particolare per un nuovo modo di abitare il mondo. Come se fosse una cosa che si sarebbe dovuta creare da sé, per il semplice fatto che una nuova generazione di ragazzi stava prendendo spazio, portando nuove idee, nuovi modi di fare. È una sensazione che mi prende, non più di cinque minuti, una specie di speranza, una parte del mio essere adolescente, vecchio, che però ancora non si è irrigidita, che ancora crede nella mobilità delle cose.

[bada-boom #5]

Nel mio zainetto portatile ho messo il mio ebook reader, carico di romanzi, questa estate voglio leggere romanzi, e le medicine di Elettra. Sono i farmaci salvavita che deve prendere tutti i giorni, per anni, perché qualche anno fa le hanno asportato un tumore da un seno.

La prima volta che Elettra mi ha detto che aveva un tumore al seno, era distrutta e io la consolavo dicendo cose che – a posteriori – erano delle cazzate. Non avevo idea di cosa volesse dire avere un tumore. La consolavo con parole piene di una speranza che era tutta artificiale, dettata dalla mia ignoranza. Le dicevo che la avrebbero curata, che avrebbero tolto il tumore, che era piccolo, che anche il medico le aveva detto che – tra i tumori – non era uno dei tipi peggiori, che era controllabile. Che – insomma – era un momento duro ma lo avremmo superato.

Quello che ho imparato invece, nei mesi successivi, durante tutte le visite, durante tutte le rabbie, le paure che hanno accompagnato Elettra durante la preparazione all'operazione e poi dopo durante la chemioterapia e la radioterapia, è che un tumore ti cambia la vita. C'è una vita prima del tumore, dove hai dei sogni, degli obiettivi, che sai di poter contare su alcuni aspetti del tuo carattere e del tuo corpo, e c'è una vita dopo il tumore, dove i sogni, gli obiettivi, gli aspetti del suo carattere e del tuo corpo su cui puoi contare sono completamente cambiati.

Il tumore entra nella tua vita e inizia a prendere spazio, i tuoi pensieri, inizia a rivedere con te le prospettive che ti eri data, prende il futuro e ci si mette dentro. Anche quando viene rimosso, quando la carne viene presa e portata via, quando vengono tolti anche i tuoi linfonodi, quando ti cadono i capelli, quando ti senti debole e sola, quando le radiazioni ti bruciano la pelle e dentro per fare in modo che quel tumore sia eradicato da te, anche lì il tumore in realtà lascia il suo segno. Rimane nella paura costante della recidiva, nel suo sequel possibile. Resta nel cercare in rete le persone che sono come te, le microcomunità di donne che hanno vissuto o stanno vivendo quello che hai vissuto tu e che – di mese in mese – cambiano il loro assetto. Alcuni nuovi membri entrano nei gruppi, terrorizzati e in cerca di informazioni, altri escono, annunciano il ritorno del tumore, raccontano lo stadio finale, lasciano tutto.

Nel mio zaino ci sono le medicine che accompagnano Elettra da anni e ancora per anni l'accompagneranno, medicine che le alterano il corpo, l'umore, l'energia. Che le salvano la vita e le deformano la vita di tutti i giorni. La stancano. Quando le avevo detto che era un momento duro ma lo avremmo superato, mi facevo carico di una cosa su cui non avevo nessun potere, una cosa che che resta personale. Il tumore è tutto suo. Non è empatico, non è infettivo. Io posso solo mettermi lì, vicino a lei, e cercare di capire la cosa migliore da fare in un momento. Aspettare di capire cosa potrebbe essere utile per lei, in quella piccola ora che passiamo assieme, in quel frammento di vita. Frammento per frammento, momento per momento.

Non dare consigli. Non dare speranze. Non dire “dài, poi tornerà tutto come prima”. Non mettersi a organizzare la sua vita. Non scomparire. Non scomparire. Non sottovalutare il suo dolore, il suo fastidio, la sua stanchezza in tutti gli step dello stress della pre-operazione, il panico che – mese dopo mese – lui è lì nel tuo seno che cresce e l'ospedale non ti chiama. La routine meccanica delle infermiere e dei medici che ti trattano come uno dei tanti anelli della catena di montaggio e non si rendono conto che non è facile restare lì ad aspettare. Non trovare informazioni. Non trovare modo di comunicare il tuo essere irrazionale, il tuo diritto – cazzo – di essere irrazionale. Le ore passate ad attendere i preparati per la chemio senza sapere quanto manchi al tuo turno, perché non arrivino, perché uno sia passato prima di te. Andare a vedere le parrucche, i foulard per i tumorati che fanno chemio, scoprire i negozi specializzati anche in questo. Tornare a casa furenti perché la macchina per la radioterapia è guasta, piangere. Incazzarsi.

Volere soltanto il modo migliore per passare questo momento peggiore della vita. Dignità, civiltà, ascolto. Cose che si frantumano nei tagli, nei corridoi deserti, nelle code infinite, nello stress, nei banconi dove non c'è nessuno con cui parlare, gli uffici chiusi. Ogni piccola tagliola diventa un muro, un impedimento ad andare avanti. L'indifferenza.

È irraccontabile. Quando le persone vengono e parlano con Elettra, e si parla di queste cose, capisco che è irraccontabile. Non si percepisce la svolta, il cambiamento che prende la tua vita. Il fatto che la tua vita comunque continua, e puoi ancora fare cose incredibili, ma non è quella di prima, è un'altra cosa. Ed è un'altra cosa quello che dici tu che le stai parlando, è un'altra cosa avere dei figli, è un'altra cosa pensare a cosa farai tra cinque anni, tra dieci. È un'altra cosa il peso di quello che ti circonda, anche la merda, la sfiga, quando ti colpisce è un'altra cosa. Sei più debole, ma nello stesso tempo sei anche più resistente. Hai un tumore, hai vissuto cose che sono irraccontabili e sei ancora qua. In prospettiva, hai spianato montagne.

Anche lì in auto, tra me e Elettra che ora dorme, c'è il tumore, nei medicinali, nei pensieri, anche lui sta facendo con noi le vacanze, zitto, eradicato, decorticato, ci segue in Germania, in Svezia, in Norvegia. Il viaggio di Elettra è un viaggio più profondo del mio e dei nostri figli, sta viaggiando in un pezzo di Europa che è fatta anche dal suo corpo, dal suo odore, dal suo esserci e dal suo volerci essere. Se il mio viaggio è solo un viaggio il suo è una presenza. La guardo, di tanto in tanto, quando non mi vede poi di colpo si risveglia. Si guarda attorno, mi vede. “Vuoi il cambio?” mi chiede e io dico, grazie, alla prossima pausa, grazie.

[bada-boom #4]

Camminiamo chilometro dopo chilometro in un'Europa che ci appare dai finestrini come danneggiata, ferita dalle notizie che Elettra mi legge dal cellulare mentre guido. È un'Europa in cui si gode, ma male. Un'Europa che non riesce a nascondere una guerra che non si vede, lontana, non così tanto però da non emergere nei post sui social network. E più andiamo avanti, città dopo città, più consumiamo una parte di questa Europa: la benzina, il gasolio, l'elettricità. Ogni pieno calcoliamo i soldi che stiamo spendendo per muoverci e le risorse che stiamo bruciando. La nostra curiosità di viaggiatori consuma, continuamente. I prezzi del carburante sono spinti in alto da questa guerra che non si vede e questo ci fa sentire di più la fragilità delle risorse che abbiamo attorno. Non mi sento di attraversare una nazione forte e compatta, ma di essere in un debole territorio in guerra, diviso, incerto, con le infiltrazioni di una guerra che sembra omeopatica ma invece ha il suo sangue, il suo carico di morti.

Nel nord della Germania, in Danimarca, in Svezia e Norvegia emergono questi colossi a pale eoliche che girano al vento, silenziosi, lenti. Appaiono a decine sul profilo del mare, bellissimi e lontani. Mentre attraversiamo il ponte che dalla Danimarca ci porta in Svezia li vedo dal finestrino che si allineano e poi si disperdono, vorticando sulla linea dell'orizzonte. E poi le piastre scure, i tetti delle case coperti di pannelli solari, li guardiamo dai finestrini e intanto cerchiamo in rete quanto impattino sull'economia del paese che stiamo attraversando. Quanta cosmesi, quanta energia effettiva. Sembra di essere in un altro paese.

A Stavenger, in Norvegia, troviamo uno dei nodi di questa domanda, dentro al Norsk Oljemuseum, il museo del petrolio norvegese. Ci siamo andati con Elettra e terzogenita, che guarda, cammina con noi, ascolta le spiegazioni della madre e gioca con i dinosauri meccanici. I dinosauri, spiega il museo, sono i primi fornitori di petrolio. Ecco cosa alimenta la nostra tecnologia: carogne vecchie milioni e milioni di anni. Il museo è impietoso, mostra la conquista del mare, la scoperta del petrolio e del gas al largo delle coste norvegesi, elencando le centinaia di lavoratori morti in questa progressiva assimilazione.

La Norvegia, scopriamo, è completamente verde: vive grazie all'eolico, al solare, alle centrali idroelettriche. Ma il benessere della Norvegia è costruito sui suoi giacimenti di petrolio e gas. Sporco, tossico. Non li consuma la Norvegia: li vende all'estero. E lì, nel museo, la domanda è scritta nero su bianco, sul muro: quanto è etico per una nazione verde, completamente priva di consumo nucleare, di petrolio, gas e carbone, prosperare e vivere grazie alla vendita di risorse che invece inquinano all'estero la parte di mondo dove sono bruciate, lavorate, stoccate? Io e Elettra leggiamo la domanda e poi continuiamo a leggere i pannelli informativi successivi, per vedere la risposta, ma la risposta il museo non la dà.

Per la prima volta, viaggiando di nazione in nazione, sento che sto bruciando risorse ad ogni tappa. Che sto inquinando, bruciando olio, gas, per ogni singola cosa che faccio. Sono così pieno di novecento. E questa roba che brucio e consumo non è eterna, non lo sono io, non lo è lei. L'uomo cerca sempre nuovi stratagemmi perché la sua razza non scompaia dalla terra, ma per farlo deve fare una violenza continua. Sociale, economica, culturale. E io, mentre guido e penso queste cose, mi sento come un piccolo povero stronzo. Di notte, mentre gli altri dormono, penso che sono solo un piccolo povero stronzo che viaggia per la Germania, verso l'alto, verso il basso, con idee approssimative e confuse del mondo. Sono qua, a tenere la quinta, a non chiudere gli occhi, a seguire i dati che Google processa per dirmi dove andare, mangiandosi in cambio le informazioni sulla mia vita, dove sono, cosa consumo, a che velocità guido.

Mi sento un piccolo povero stronzo, ecco, con idee approssimative e confuse del mondo, capace di scrivere grandi ragionamenti etici, ma che non ha idea e voglia di uscire dall'arcobaleno unicorno del consumo. Mi aggrappo a quelle piccole idee approssimative e confuse. Mi servono soprattutto quelle, lo so. Servono tanti con idee approssimative e confuse, ma idee di un certo tipo e non di un altro. Idee che si nutrono di certe cose e non di altre che invece sono tossiche. Più delle mie. Anche il mio essere piccolo povero stronzo è utile per il mondo, per i miei figli, per le scelte che persone che non ho mai visto e non vedrò mai prenderanno prima o dopo. Tutto quello che penso di me, della mia vita, di questo viaggio e di quello che succederà dopo di me, che non è molto visto in prospettiva, lo devo comunque difendere con i denti, con i modi che ho di farlo, con le strategie che sono in grado di mettere in campo. Anche essere piccoli poveri stronzi costa una fatica non da poco.

Ad un certo punto, non so più quando, sono le quattro e mezza di notte. Metto la freccia, entro in uno spiazzo, un punto ristoro, non so cosa sia, mi fermo. Appoggio la fronte contro il volante, chiudo gli occhi. Non penso più a niente.

[bada-boom #3]

Più ci allontaniamo dall'Italia, più il caffè fa schifo. È una progressione lineare. Autogrill dopo autogrill quello che ti danno quando chiedi un caffè aumenta di prezzo e perde di gusto. Diventa una broda americana, l'ennesima, bollente e disgustosa. Dalla Svizzera alla Germania è un crollo del gusto moka, mentre nei paesi nordici non ci provano nemmeno: tutti i negozi hanno una macchinetta, come quelle che in Italia si tengono negli uffici o negli Hotel da poco. C'è il pulsante per il caffè americano, per il cappuccino, per il caffè con latte, quello per l'espresso (da non premere mai) e per altre varianti che vengono servite in un grosso bicchiere di cartoncino, delle dimensioni adatte a una Coca Cola del Mc Donald. Ai figli non interessa, a me ed Elettra sì, specie al mattino.

Il risveglio per noi due non inizia quando si aprono gli occhi, ma quando il caffè o il cappuccino caldi entrano dentro al nostro corpo. Prima non siamo svegli, siamo come esseri primitivi che si muovono in un mondo desolato e freddo. Mandiamo grugniti, ci guardiamo in cagnesco. Dopo il caffè o il cappuccino inizia la civiltà. Per una incomprensione familiare non abbiamo portato la moka con noi e quindi siamo persi. Desolati. Alla fine optiamo per il meno peggio: delle bustine Nescafé al cappuccino da sciogliere nell'acqua calda ma non bollente, spiegano le istruzioni in tedesco. Il Nescafé al cappuccino è disgustoso, ma cosa non lo è? Dolciastro, sa di finto, ma diventa la prima cosa che beviamo durante tutto il tragitto dall'Italia alla Norvegia e ritorno. Giorno dopo giorno entro in confidenza con questa polverina ambrata con dei pallini neri dentro, imparo che va messa l'acqua calda, rimescolato, bisogna attendere venti secondi e poi rimescolare ancora. Il Nescafé al cappuccino fa anche una schiumetta in cima. Se mescolo male ogni tanto inghiotto dei grumi che mi si aprono in bocca e rivelano la polvere acre con cui il cappuccino è fatto. Eppure, dopo due settimane, al cappuccino Nescafé gli voglio bene. Spero che finisca presto tutto, ma per ora gli voglio bene.

A Kassel entriamo in un franchising di cose da bere e mangiare, non ricordo quale. Stiamo andando verso documenta e abbiamo deciso di fare prima una breve colazione. Ci sono cose dolci da mangiare, le brioches man mano che si sale verso l'alto cambiano anche loro aspetto, si ingrandiscono, cambiano gusto. L'Europa è un guazzabuglio. Anche all'interno di un franchising non provi la serenità tranquilla di quando sei al Mc Donald e riconosci il prodotto. In Europa c'è ancora una varietà che confonde, che ti fa sentire straniero. Tutto intorno a te vedi una macchina occidentale che lavora, che uniforma, che compatta tutto in forme ed estetiche riconoscibili, che rimuove ed umilia quello che occidentale non è, ma ci sono ancora degli interstizi. Nel franchising per bere c'è la solita macchinetta, metto sotto il bicchiere di cartone e premo caffè ed esce la solita broda nera. Mi siedo con i miei figli e inizio a sorseggiare. Siamo tutti stanchi per il viaggio.

Per andare nei bagni di questo franchising bisogna chiedere alle casse, premono un pulsante e io e primogenito possiamo scendere ai bagni, che sono occupati. Non c'è nessuno in realtà, tranne le due persone che sono chiuse dentro e io e mio figlio nell'antibagno che aspettiamo. Primogenito ha in mano il suo smartphone: è lì con me, ma in realtà sta chattando con decine di persone nel mondo. Vedo le frasi in inglese che scorrono, il suo sorriso apparire e sparire dal volto, le sue dita che velocemente scrivono cose. È connesso, ed è lì con me. È mio figlio e tra un po' non lo vedrò più. Lo guardo mentre lui non mi vede, guarda il piccolo schermo che tiene in mano e rimango così a constatare la sua presenza, il suo prendere spazio, il suo essere lì con me, in un piccolo antibagno a Kassel. Devo affezionarmi anche a queste cose, questi brandelli temporali.

Poi mi cade l'occhio sulla spazzatura del bagno. Il bagno del franchising è tutto pulito, è ancora mattino, ma tutto è in ordine e lindo. Solo nella spazzatura c'è una piccola scatola di cartone, colorata. Abbasso la testa finché non vedo il disegno di una specie di termometro. Non capisco bene. Mi inginocchio davanti alla spazzatura e vedo che non è un termometro, è uno di quei test, quelli che devi farci la pipì sopra e possono venire una o due righe. Non capisco, dalle scritte in tedesche se sia un test per la gravidanza o uno per il covid. Infilo le mani nella spazzatura e giro la scatola, dalla parte del nome del prodotto, ma è in tedesco, non riesco a capire. Chiamo primogenito, gli chiedo se può inquadrare la scritta e tradurla. Lui alza la testa dai suoi amici, si avvicina, fa una foto alla scatola e la sottopone a Google Lens che traduce tutte le scritte.

“No, papà, non è un test di gravidanza, e nemmeno per il covid” mi dice poi, dopo aver letto. “È un test per la rilevazione di cocaina nelle urine” aggiunge alzandosi. Mi alzo anche io. “Ah” dico. Così, di prima mattina, prima o dopo il cappuccino, qualcuno è sceso nei bagni del franchising per controllare di non avere troppa cocaina in corpo. Quanta voglia di vivere, tutti questi adolescenti, come me. Ormai siamo senza adulti, è caduta la farsa della maturità. La vita è un'eterna adolescenza, solo che dopo un po' gli adolescenti invecchiano, diventano vecchi adolescenti, come me. Branchi di vecchi adolescenti che presidiano il loro diritto a godere, a ballare, a innamorarsi, ad essere cullati prima di dormire.

Mi tornerà in mente quel bagno quando mi ritroverò, una decina di giorni dopo, a St. Pauli, ad Amburgo. Il giorno prima ero nella civile Norvegia, nell'algida Svezia, immerso tra servizi sociali e parchi giochi per bambini, casette con i prati perfettamente tagliati e il giorno dopo mi ritrovo, di notte, nel casino della città tedesca, in un Hotel incastonato tra un sexy shop e un locale a luci rosse, circondato di gente che si guarda attorno con lo sguardo acceso e allucinato, come se cercasse qualcosa che non esiste, con ragazzini che mi chiedono se voglio fare sesso con loro e locali che pompano musica straniera per tutta la strada. Odore di urina per la strada, gente abbandonata per terra avvolta nei cartoni. Un solo giorno di viaggio e mi sembra di essere finito dall'altra parte del mondo.

E infatti ci sono: quella via, man mano che cammino la riconosco, l'ho già vista. È la copia di tanti film e serie americane. Non è un pezzo di Europa quello in cui sono, ma un pezzo di occidente, un frammento copincollato dall'immaginario della grande potenza americana. Eppure, quel frastuono, quel casino, quella sporcizia e quel degrado, anni luce dalla protezione dei paesi del nord, a me piace. Sono affascinato da quella vitalità, da quella voglia di divertirsi, di ferire, di fare del male, di fare quello che cazzo mi pare. In mezzo a quel casino mi sento protetto.

Quando arrivo a Genova, una delle prime cose che faccio è mettere su la moca e farmi un caffè, un vero caffè italiano. È lì che succede. Preparo tutto il caffè, con la voglia di berlo tenuta dentro per più di venti giorni. Sento il rumore del caffè che viene su, lo verso nella tazzina per me e in quella per Elettra con un dito di latte freddo, come piace a lei. Glielo porto che ancora dorme e intanto vado a bere il mio. Finalmente bevo un sorso, caldo e pieno.

E mi fa schifo.

Resto come fulminato. Ne bevo un secondo sorso e fa schifo come il primo. Lavo la macchinetta, cambio il caffè, arriverò nei giorni dopo a cambiare tutti i pezzi interni della caffettiera, ma il mio caffè continua a fare schifo. Finché non capisco: il mio caffè fa schifo come tutti gli altri caffè d'Europa. Ha sempre fatto schifo. Ma – negli anni – mi sono abituato. Mi sono assuefatto a pensarlo come il gusto buono del caffè. Sono bastati venti giorni per uscire dagli stereotipi del gusto e ora mi trovo estraneo anche a me stesso. E mi fa piacere.

Vado a fare la spesa con secondogenito, lui deve prendere delle cose per il pranzo, io altre per una torta che terzogenita ed Elettra vogliono fare. Posteggio davanti al supermarket. Scendiamo. “Guarda – dico – passo un attimo al bancomat a prendere i soldi per la spesa”.

Secondogenito mi guarda, mi dice no. “No?” “No, ho io i soldi” “Ah. Ma quanti ne hai?”

A questa domanda secondogenito alza la testa, chiude le palpebre in una piccola fessura, con una leggera aria di superiorità e dice “abbastanza”. Sembra uscito da un manga. Me ne sto. “Ok” faccio e entriamo nel supermercato.

Facciamo la spesa.

Alla fine andiamo alla cassa, la cassiera passa tutte le cose agli infrarossi e intanto io e secondogenito mettiamo le cose nel sacchetto della spesa. Lo facciamo sempre con la fretta ansiogena di chi sa che un eventuale ritardo bloccherebbe la catena di montaggio del consumo, infatti dietro di noi c'è già coda. Tutti hanno fretta di pagare.

“Ottantasei euro” dice la commessa e io non alzo nemmeno la testa, continuo a mettere le cose nel sacchetto e dico “secondogenito, tu intanto paga mentre io finisco di mettere via le cose”.

Seguono cinque secondi pieni di silenzio assoluto e poi sento la sua voce: “ma io non li ho mica”.

Alzo la testa, incrocio gli occhi di secondogenito che ora hanno un leggero sguardo panico. “Tu mi hai detto che avevi abbastanza soldi per la spesa!” dico. “Abbastanza fino a quel momento” protesta lui. “Cosa vuoi dire?” “Abbastanza per quando te l'ho detto” “Quanto hai?” “Cinquanta euro” “Non sono abbastanza!” “Erano abbastanza prima che facessimo la spesa!”

La cassiera sembra innervosirsi. Sospiro, tiro fuori il mio portafoglio, ci metto le banconote che ho, chiediamo alla commessa di togliere alcune cose, chiediamo scusa, ormai la coda è infinita dietro di noi, abbiamo bloccato il flusso dinamico del capitalismo.

Usciamo.

Entriamo in auto, io rido. “Abbastanza” ripeto e rido indicandolo. Ripeto tutta la scena: “— quanto hai? — abbastanza” e rido mentre inizio a guidare. Secondogenito protesta e ridacchia. Guido.

Dopo un po' secondogenito, tra sé e sé, dice: “forse non avrei dovuto prendere sedici euro di sacchetti di cacca per il cane”. Inchiodo. “Hai comprato cosa?” “Sedici euro di sacchetti di cacca per il cane. Erano finiti. Ho pensato di farne una scorta in modo da averli sempre pronti” “Sedici euro di sacchetti di cacca per il cane, sono un'enormità, fa prima a morire prima il cane” “Non dirlo nemmeno per scherzo” “Ma poi scusa: se sai che hai un budget di cinquanta euro, ne spendi sedici solo per i sacchetti di cacca per il cane?” e mi metto a ridere ancora. “Spendi il trenta per cento del tuo 'abbastanza' solo per i sacchetti per la cacca del cane?” rido mentre sterzo e lui non dice niente. Sorride. Affina la vista.

Solo, dopo una decina di minuti, aggiunge nel silenzio della macchina: “è più del trenta per cento” e si gira verso di me e mi sorride con uno sguardo incomprensibile.

[bada-boom #1]

E così siamo partiti ragazzi, io, adolescente di cinquanta e passa anni e mio figlio adolescente e mia moglie adolescente anche lei, mia figlia, altra adolescente e l'altro ancora, adolescente di mezzo, tutti e cinque seduti nella Citroen Nemo che brilla chilometro dopo chilometro, tutti con il proprio bagaglio personale, sacchi di roba, zaini, vestiti, cibo, tutti pronti per partire da Genova e diretti a Jorpeland, il nome è di fantasia, migliaia di chilometri di Europa da superare, tutti un fascio di nervi, nervosi, irosi, tranquilli, felici, pronti a tutto, stanchissimi, e appena partiamo mettiamo l'autoradio e si sente la voce di Massimo De Francovich che inizia anche lui a leggerci le venti e passa ore di La coscienza di Zeno di Svevo e restiamo a guardare il paesaggio Ligure che sprofonda rapido nei meandri degli svincoli autostradali mentre Zeno dice che sta male, che ha una malattia, che sta benissimo ora, che va tutto alla grande.

Assieme a Svevo ci sono le voci dei fantasmi della nostra adolescenza, De Andre, Vecchioni, Bowie, Prince mescolate con le voci di altre adolescenze decenni dei sedili dietro, Madame, Sangiovanni, Rkomi un flusso ininterrotto di ricordi che si sovrappongono e si creano in questo momento per la prima volta, suoni e voci che rimbalzano per il vuoto stretto dell'abitacolo, prendono spazio nella nostra testa e noi – ascolto dopo ascolto – iniziamo a cantarle e ripeterle, allunghiamo il nostro abbecedario, confrontiamo e facciamo analogie e differenze tra quello che eravamo stati noi e quelli che sono loro, sentiamo tutto il peso delle generazioni e tutti i canali che il commercio ci lascia aperti.

I golem della comunicazione di massa che ci ripetono per centinaia di volte gli stessi jingle, le canzoni della buona notte, quelle per ballare, quelle per fare l'amore e noi lì, seduti immobili per ore dentro l'abitacolo della nostra astronave europea, le facciamo nostre, le mastichiamo e le ingoiamo finché quelle melodie, quei ritmi, quelle timbriche, faranno parte di noi, come cookies salvati selvaggiamente in uno spazio virtuale della nostra memoria.

Nessuno di noi lì, nella tangenziale, nella corsia di ingresso o di uscita, nella corsia di sorpasso o in quella di emergenza sta ballando, nessuno sta facendo l'amore, nessuno è cullato nelle braccia per addormentarsi, ma fingiamo, seguiamo le parole e fingiamo di innamorarci, di ballare, di dormire, mentre l'asfalto scorre sotto di noi.

Chilometro dopo chilometro, anno dopo anno. Le vacanze sono l'omeopatia del viaggiare, pensi di muoverti, ma stai solo esercitandoti, hai legato in vita un elastico e per quanto ti allontani dalla tua casa, ad un certo punto l'elastico ti tirerà indietro, alla tua strada, alla tua rete locale, alla tua routine, ai tuoi desideri normali, sponsorizzati, standard.

Gli anni invece passano, non sanno fingere, passano sopra l'adolescenza come nuvole in viaggio, a tratti il sole fa brillare il verde dei prati visti al finestrino, a tratti sparisce, banchi di freddo attraversano lo spazio e io mi stringo a me, nel sedile, nel caldo animale dell'abitacolo. Devo accendere l'aria condizionata per fare sparire dai vetri il vapore che i nostri corpi mandano, la nostra impronta. In me, nel corso del viaggio, albergheranno assieme la paura, l'ansia e il sentimento di essere solo un ombra. Quando, dopo essere scesi dal Preikestolen succederà quella cosa, sentiremo tutti quel rumore, e dentro di me la turbina dell'ansia inizierà a girare a mille e la consapevolezza di essere un adolescente vecchio, da abbattere. L'ombra di un adolescente passata sul mondo, come una nuvola in una delle sue piccole fasi di trasformazione, un'ombra che si aggrappa ai miti, ai leader, alla bellezza, alla tecnologia, per credere in una mia permanenza che non vedrò mai.

Dentro 'documenta', a Kassel, ci disperdiamo, ognuno segue un percorso diverso. Ad un certo punto sono appoggiato a una balaustra che guardo nel vuoto. Sotto di me ci sono gli altri visitatori, di fronte delle bandiere appese nel vuoto con delle frasi in inglese, una mi colpisce, prendo la macchina fotografica, la fermo.

“As an art student, I felt somehow like an outsider. As a mentor now, I want to do it differently from what I received and I am trying to bring the “lacks” in the contents of my teaching”.

Quanti pezzi di me ci sono in giro. Un pezzo di me che non conosco ha scritto quella bandiera. Un pezzo di me è Zeno Cosini, un pezzo di me è Arturo Bandini, che sto leggendo in viaggio, un pezzo di me è Marlow che racconta del suo.

つづく

— secondogenito — mh — hai mica una gomma da cancellare? — perché mai dovrei cancellare una gomma? — ...