La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

[back in time: 2006]

Mi telefona con la linea interna questo collega che amichevolmente chiamo scabbia perché è una di quelle persone che ti rimane dentro, ma non troppo, e il collega scabbia mi dice che gli sta succedendo una cosa stranissima! con il computer! una cosa incredibile! e devo dire che a lui succedono spesso cose spaventose, file che mutano forma, bande colorate che attraversano lo schermo, scanner che scannerizzano immagini non presenti dentro allo scanner e altro ancora, e poi io mi siedo vicino a lui che dice guarda, guarda e rifà tutte le operazioni e tutto funziona normalmente, io abbozzo un sorriso imbarazzato e allora il mio collega mi fulmina con lo sguardo e dice ecco, vedi, quando ci sei tu non lo fa. Prima ha fatto diverso.

Anche questa volta mi chiama e mi dice che il suo computer non gli vuole cancellare una pagina di Xpress, lui la cancella e Xpress la ricrea subito, davvero! “Scendo” sospiro e lui dice di no, che se scendo di sotto il computer inizia a funzionare e lui ci fa la figura del cretino. “Devi aggiustarmelo per telefono” aggiunge. “Facciamo così; perché non mi assumi con il compito di orsetto portafortuna?” “Orsetto...” “Io ci starei. Tu mi paghi millecinquecento euro al mese per stare seduto su uno sgabello nei pressi del tuo computer. Io mi porto un libro, leggo mi faccio una cultura che ne ho tanto bisogno dopo tre anni di vita da impiegato contabile e tu hai il computer che funziona sempre. Pensaci, il computer che funziona sempre”. Silenzio. Sta valutando davvero la cosa. “Nessuno qua ha un orsetto portafortuna” mi dice dopo un po' con voce dubbiosa, la cosa che lega assieme buona parte del mondo impiegatizio è un comando non scritto che recita: “se devi fare una cosa che non hai mai fatto prima, controlla se la fanno anche gli altri impiegati: se la fanno, allora falla anche tu, se invece saresti l'unico a farla non ci pensare nemmeno, ti gambizzano, muori a colpi di mobbing” tipo una volta un collega ha iniziato a usare la carta gialla per i fax in entrata in modo che poi distingui subito a colpo d'occhio i fax, era una bella idea adesso credo faccia lo shampista.

“Nessuno lo ammette” sussurro nella cornetta, “ma tutti hanno un orsetto portafortuna per far funzionare il computer. La tecnologia non basta!”. Dall'altra parte della cornetta il silenzio e poi sento che scabbia butta giù e io ridacchio. Mi giro verso il mac-mini strofinandomi le mani e poi inizio a inserire un po' di dati quando di colpo si apre la porta del mio ufficio e entra uno degli impiegati dell'ufficio di scabbia, entra e mi guarda con gli occhi rossi.

Di solito non lo fa.

“Come facevi a saperlo?” sibila chiudendo la porta dietro di sé e facendo un passo verso di me. Io inizio a fare mente locale di tutte le cose che non dovrei sapere, dalla non-esistenza di Dio alle fatture scomparse, e cerco di capire se qualcuna di queste cose possa riguardare il collega dell'economato che intanto si avvicina ancora e mi dice che comunque, anche se ero venuto a saperlo, proprio a scabbia dovevo andarlo a dire? Deglutisco. “Ma di cosa stiamo parlando precisamente?” Allora il collega dell'economato sospira e si mette una mano sotto la giacca, si guarda furtivo attorno e poi tira fuori un orsacchiottino. Sospira ancora e spiega che sta parlando dell'orsacchiotto portafortuna per far funzionare i computer. “Sono due anni che lo tengo nascosto nella giacca e nessuno lo ha mai visto, come facevi a saperlo?” sussurra avvicinando molto la sua faccia alla mia.

Mi aggiusto gli occhiali con un dito e poi dico intuito. “Quando passavi nel mio ufficio il mio computer funzionava meglio. Prima pensavo potesse essere un caso, poi due volte, tre volte, eccetera, alla fine ho capito che avevi con te un orsacchiottino portafortuna”.

Sto mentendo, lui lo capisce e si ritrae, rimette l'orsachiottino sotto la giacca, fa gli occhi a fessura e mi dice bada bene venerandi, e niente altro, bada bene venerandi e io annuisco, cerco di non pensare a niente, inespressivo, inespressivo.

Quando torno a casa vengo accolto dal tripudio di figli, la cosa bella di essere un padre è puoi essere una persona anche mediocre e nonostante questo c'è gente che ti aspetta e ti vuole confusamente bene, e io vengo accolto specialmente dal niccolotto primogenito cinquenne che abbracciandomi mi dice oh finalmente papà, prendi la carta di credito!

Io resto gelato dall'abbraccio poi ricordo che avevo promesso di comprare un gioco per macintosh fatto da un cecoslovacco che narra di un cane che vive con il padrone su di un asteroide e alieni venuti a rubargli le mele rapiscono il cane, e il padrone che è un omino con un pigiama bianco li insegue con il suo razzo spaziale, non mi credete ma esiste davvero si chiama Samorost 2, e una volta io e niccolò ci abbiamo giocato e abbiamo finito il demo, così visto che costava poco abbiamo deciso di comperarlo, ma per fare in modo che niccolò crescesse con il terrore di perdere quello che reputa bello abbiamo fatto un foglio con cinque quadratini e ogni volta che niccolò faceva una cosa educativamente corretta si riempiva un quadratino e con cinque quadratini riempiti si poteva comperare il gioco, e niccolò si è adeguato e ci ha mostrato di saper essere collaborativo e quindi papà oggi devi usare la carta di credito! Il gioco del cane!

Insomma scarichiamo il gioco e andiamo avanti nella storia finché (spoiler) ci troviamo ad essere dentro ad un faro spaziale e in cima al faro c'è la fiamma per le astronavi che non vadano a sbattere e sotto c'è un uomo che dorme e che noi dobbiamo svegliare. Ci sono cinque bottiglie e una pentola con dell'acqua. “Ecco” dico a niccolò “per svegliare l'uomo dobbiamo capire cosa gli piace, metterlo nel pentolino e farglielo bere” e lui annuisce e dice mettici questa e indica una bottiglia a caso e io la verso nel pentolino, poi gliela ficco e in bocca e lui sempre dormendo la sputa. “No – dice niccolò – prova questa” e rifaccio tutto e l'omino la sputa di nuovo e andiamo avanti così per un tempo abbastanza lungo finché io non inizio a innervosirmi e dico, no guarda dobbiamo fare uno schema e mi metto giù e faccio uno schema, prima con le cinque bottiglie singole, poi con sedici combinazioni di coppie di bottiglie mescolate, poi con cinque combinazioni di quattro bottiglie mescolate, e poi con le combinazioni di tre bottiglie mescolate e più vado avanti più mi incazzo perché l'omino continua a sputare tutto e niccolò ogni tanto prende il mouse e fa due o tre cose anche lui, cose sbagliate che mi confondono i conti e allora gli dico niccolò lascia stare adesso siamo in un punto che può fare solo papà e in pratica niccolò sta zitto a guardare con la faccia triste mentre io seguo il mio schema per una mezz'ora buona finché nel mezzo dello schema delle tre bottiglie mescolate niccolò mi chiede posso fare una cosa io papà e io mi giro verso di lui e gli dico non vedi che sto cercando di passare questo maledetto punto difficile, se non vuoi più giocare basta dirlo e in quel momento vedo che si è fatto tardi e gli dico, è anche tardi continuiamo domani, e chiudo il portatile e niccolò ci resta malissimo e mi tiene il broncio per tutta la cena, e io mi sentirei anche in colpa un pochino, ma sono troppo incazzato perché il computer non fa quello che voglio io.

Alla sera metto il pigiama a niccolò e lui mi dice sai papà ho avuto una idea per il gioco, ho capito perché l'omino sputa la cosa da bere! “Ah sì” faccio io con un sorriso paterno. “Sì!” fa lui con l'entusiasmo negli occhi, gli brillano proprio. “Lui sputa perché è fredda! Dobbiamo scaldarla!” Io lo abbraccio perché mi piace quando è così fantasioso e con il tono di padre comprensivo di fronte alle follie del proprio figlio gli dico, eh bella idea ma nel gioco non c'è niente per scaldare il pentolino, e allora lui si divincola e mi spinge via per fissarmi negli occhi, e adesso sono spaventato perché sono occhi di bambino profondissimi. “Sì papà! Ci ho pensato: lo scaldiamo mettendolo sul fuoco del faro!” “Sul fuoco...” “Sì papà, sopra il faro c'è il fuoco che fa luce me lo ricordo!” e io rimango un attimo zitto e poi sento la mia voce che dice eh bravo una bella idea e resto con le mani congelate a tenere il pigiama, perché dentro di me ho capito che – cazzo – è vero, ecco il fottuto enigma, eccolo, mentre io ero come un coglione a fare schemi matematici mio figlio è entrato dentro il gioco e ci ha danzato dentro, era davvero in quel faro come io non ci potevo più entrare.

A passi silenziosi siamo tornati in sala, abbiamo aperto il powerbook che ha mandato la sua luce notturna, e niccolò ha messo il pentolino sulla fiamma e io da dietro sono rimasto immobile a vedere l'acqua che bolliva e ho pensato che non avevo più bisogno dell'orsacchiottino portafortuna, perché era lì davanti a me, era mio figlio.

Così stamattina ho tolto piggy dalla tasca della camicia prima di venire in ufficio, speriamo bene.

[pubblicato su Macword di giugno, circa 2006]

Terzogenita mi chiama, mi chiede se facciamo un gioco insieme, io sono stanco, davvero stanco dico, amore sei sicura? Che gioco?

Mi spiega che è un gioco che ha inventato lei, si prendono dei libri a caso, si aprono a caso, si scelgono delle parole a caso e si trascrivono. Un po' di parole per ogni libro.

E poi si mettono via i libri e bisogna scrivere una storia con le parole che sono state scelte.

Rimango così, ammirato, mentre lei va via e torna con un foglio, una matita colorata, un libro di Scooby Doo, uno scritto da sua madre su Genova, uno sulla vita dei ghepardi e uno che spiega come vivere con un cane isterico.

“Scrivi tu” mi comanda e mi dà carta e penna mentre lei prende il primo libro e inizia ad aprire le pagine a caso e mi detta le parole da scrivere.

“III Sommario lui cacciando giallo Gerody ghepardo arf...” dice lei saltando da una pagina all'altra e poi da un libro all'altro e intanto io scrivo tutto. Ogni tanto si ferma, ride tra sé e sé e poi riprende.

“Questo non posso scriverlo” mi dice ad un tratto. Guardo: è un'illustrazione: ma nella sua testa è comunque materiale che può essere scelto a caso.

Prima, a tavola, la guardavo mentre mangiava, nei suoi dieci anni, e la confrontavo con tutte le forme che aveva avuto prima, tutte le figlie che si sono succedute nel tempo, sedute davanti a me a mangiare con i loro volti mutanti. Informi, sono cambiamenti di stato che vorticano anno dopo anno e le tengo strette con un nome, un vettore della direzione che hanno preso.

Alla fine mette via i libri, prende il foglio in cui ho trascritto le parole random e si mette a scrivere una storia componendola a partire dalle parole. E ride mentre scrive, io sono lì sul divano, la sento parlottare, chiudo gli occhi e le dico che è bellissimo stare lì, seduto, ad ascoltarla.

Lei non mi sente nemmeno, è tutta presa nella sua furia creativa mentre lentamente la realtà inizia a frammentarsi, le cose si staccano, nel buio della mia testa si creano e si distruggono le figure che parlano e dicono cose che non hanno senso.

Così, vicino al suo gorgo, sprofondo con la nave carica di tutti i fabrizi che sono stato io, la mia zavorra mutante sempre più grave mentre — fuori — quella continua la sua ricerca della felicità, nella strada degli alfabeti.

Sono lì che sto andando in vespa a prendere terzogenita, guido lentamente nelle arterie principali di Genova. Supero – a fatica – lo stadio che oggi è presidiato da poliziotti in tenuta antisommossa, sembra uno spin off del g8 del 2001. I tifosi sono dappertutto attorno allo stadio, sembrano le formiche quando alzi le pietre, si muovono in branco, urlano, occupano la strada perché oggi quel pezzo di città è loro, la legge non riuscirebbe a fermarli.

Vado verso la periferia e – nella strada principale – vedo i manifesti per le prossime elezioni, una sacco di gente di centrodestra che mi sorride gentile indossando vestiti da ufficio. Mi fermo al semaforo. Sono decine e decine di manifesti con questi uomini e queste donne giganteschi con i simboli di Alleanza Nazionale, di Forza Italia, di Bucci e Toti, tutte mi sorridono enormi mentre scatta il verde e io parto.

Sopra alcuni di questi manifesti ci sono dei faretti per l'illuminazione notturna. Ora sono spenti. Li conto, sono sei faretti. Guardo la carta, la colla, lo spazio preso. Mi chiedo, in astratto, quanto impatti la pubblicità. Quanta energia venga consumata ogni giorno per convincere le persone ad acquistare un prodotto. Non a produrlo: a convincere le persone a sceglierlo.

Quanti server consumano energia per fare invii massivi di spam, per fare ricerche fuzzy e spostare i messaggi di spam nelle cartelle dell'indesiderata, quanti jpg, gif animate, stampe in quadricromia, ore e ore di brainstorming di copy, carta lucida tagliata piegata e messa nelle cassette, impilata in magazzini, luci puntate, video montati, caricati, infilati tra un video Youtube e l'altro.

Deve essere una quantità di energia enorme, un numero sproporzionato di risorse che ogni giorno vengono consumate per convincere la gente a scegliere un biscotto ai cereali, una banana bio, un candidato di Alleanza Nazionale, un detersivo sbiancante, un'automobile intelligente, l'abbonamento a qualcosa, per qualche tempo.

Rallento, scalo. Mi fermo. Vedo mia figlia, mi corre incontro. “Hai dell'acqua?” mi chiede immediatamente e senza dire altro prende la borraccia di metallo dal mio zaino e inizia a bere senza nemmeno prendere pausa per respirare. Sembra che stia suonando la tromba. Quando ha finito inspira; espira. Mi rende la borraccia. “Buttala pure via – le dico – ormai è vuota”.

Lei ride, la mette a posto, e poi dice che oggi hanno parlato proprio di quello. “Uh, di cosa?”. Lei si mette il casco e non mi guarda nemmeno. “Di come dobbiamo salvare il mondo, ecologia, cose così” mi spiega. “Ci pensate voi quindi?” chiedo mettendo il mio. “A cosa?” chiede lei. “A salvare il mondo” dico e lei fa un sorrisino, non mi risponde.

Tornando indietro sterzo, mi fermo. “Che fai?” chiede lei. “Che ne dici di andare in spiaggia a cuocerci un po' al sole?” le propongo e lei salta giù dalla moto e dopo due minuti è con i pantaloni alzati a correre nell'acqua. Osserva la linea dell'orizzonte, segue i suoi pensieri, corre. Io la guardo da distante, vedo la spiaggia, vedo i colori, le pietre, la spazzatura portata dal mare, gli altri genovesi messi qua e là.

Tutti voltati verso il sole che scende, il mare, la terra: questo prodotto che è incomunicabile, che non c'è in nessuna reclame e permane, nonostante tutto. Da quando? Miliardi di anni. Masse di acqua e terra e aria che premono verso il basso questo delirio che siamo.

Intanto terzogenita mi chiede se può buttarsi in acqua, che è tutto bellissimo.

Arrivo dai miei genitori per prendere i miei figli che hanno passato da loro la pasqua e al parcheggio c'è terzogenita. Posteggio, scendo dall'auto. Terzogenita è in piedi sul bordo di un enorme trogolo, tiene in mano un retino da pesca. Accanto a lei c'è una ragazzina che sembra la sua copia, ma con i capelli castani. Un padre diverso da me correrebbe da lei per farla scendere, urlandole che è pericoloso stare lì, che se casca dentro potrebbe farsi del male, una congestione. Io invece cerco di ricordare con cosa hanno sostituito il 118, so che hanno cambiato il numero. “Ciao terzogenita” dico. Lei non mi risponde, parlotta con la sua amica e con forza gettano i loro retini dentro al trogolo per tirarne fuori liquame nero che – in parte – buttano fuori dal trogolo, in parte sui loro vestiti post pasquali. “Lei è Elena – mi spiega – stiamo lavorando per pulire i trogoli”. Annuisco. “Capisco” dico. Guardo il liquame nero che circonda il trogolo, guardo mia figlia, la vedo semibagnata e fangosa che getta le reti nelle profondità delle acque gelide e ne tira fuori limo che poi scaglia fuori e riprende ancora.

A modo suo sta migliorando l'umanità. Sua madre apprezzerà.

Arrivo alla casa dei miei genitori. Primogenito è sulla sdraio con il cellulare. “Ciao primogenito” dico. Lui non mi risponde. Mette in buffer. Passano almeno dieci secondi. “Ciao” dice alla fine. “Tutto bene?” gli chiedo. Altri dieci secondi di delay. Mio figlio sta laggando. “Sì” dice poi. Alza la testa, impercettibilmente. “Scusa – dice – sono concentrato. Sto facendo un torneo di scacchi”. Riabbassa la testa, torna nel suo mondo.

Vado nel giardino dei miei. Nel centro c'è secondogenito. È solo. Si muove lentamente, fa gesti ampi e coordinati nello spazio, tipo zazen. Per un attimo mi sembra un giovane praticante di Tai-chi. Poi vedo che in realtà ha l'Oculus Quest. “Ciao secondogenito” dico. Lui non si gira verso di me, continua a fare i suoi movimenti nello spazio della realtà virtuale. “Ciao” mi dice, come se mi avesse visto. “Sto sperimentando l'Oculus in spazi esterni” mi spiega. “Capisco” dico e – niente – penso che la vita in famiglia sia bellissima.

— papà — dimmi primogenito — come si chiama quella cosa da boomer dove uno vuole far vedere delle foto allora usa una macchina scomodissima che le proietta e si preme un pulsante e si sente un suono e si passa alla foto dopo? — ... — ... — diapositive — ecco, diapositive, grazie, era la parola che mi serviva — ...

Terzogenita scende da uno di quei così che roteano furiosamente nei parchi giochi finché non si inizia a vomitare o si recide qualche arto bambino.

Lei ondeggia, ride, mi abbraccia. “Tutto bene?” le chiedo. Chiude gli occhi, li riapre. “Amo le velocità estreme” dice e fa un sorriso tutto rivolto al suo futuro.

E io mi affascino e ho paura per lei – contemporaneamente.