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Pastore delle chiese metodiste di Udine e di Gorizia

Dell'assurdità dei 700 Miliardi da spendere in armi

disarmo

Per giustificare il non giustificabile, la Meloni ricorre a una citazione storpiata in latino che nella sua forma non è mai esistita, ma serve oggi per giustificare l’ingiustificabile, cioè di spendere cifre astronomiche in armi e lasciare sul lastrico sempre più persone. Già oggi Italia è il paese con tantissimi poveri assoluti, con poveri alimentari, persone che non ce la fanno a mangiare tre pasti al giorno, e con poveri di salute, persone che non fanno le analisi perché non in grado di pagare il ticket. Non sono poche, parliamo di povertà di milioni di persone che vivono in Italia. Se proprio vogliamo una citazione in latino, ecco, io preferirei citare Tacito che, nella sua opera Agricola fa dire al capo caledone (scozzese): “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, che vuol dire, “là dove fanno il deserto gli danno il nome di pace”.

E’ questa la pace di cui parla la Meloni, la pace che fa solo deserto, che distrugge, smonta, getta nella povertà milioni di cittadini e cittadine per riempire le tasche all’industria bellica dimenticando che ogni Euro speso in armi non ha ritorni positivi sull’economia, ma ogni Euro speso in welfare invece è un volano importante.

Alla Meloni e a tutti i politici, pochi esclusi come Sanchez e Conte, vorrei ricordare la parola pace nella tradizione ebraico-cristiana che è Shalom. Questa parola biblica nella lingua della Bibbia ebraica è un concetto ben diverso da quello di fare deserto. E’ un concetto di benessere globale, dove il povero (nella Bibbia la vedova, l’orfano e lo straniero) viene sostenuto, dove c’è prosperità e una giustizia, dove sono pochi poveri e ancora meno ricchi. Infatti, i profeti della Bibbia ebraica non si stancano di criticare la classe dirigente di allora quando manca proprio il welfare, il benessere. Dice infatti il profeta Isaia (Isaia 1, 23): I tuoi prìncipi sono ribelli e compagni di ladri; tutti amano i regali e corrono dietro alle ricompense; non fanno giustizia all'orfano, e la causa della vedova non giunge fino a loro.

La misura del ben governare e della pace è il welfare, il contrario di quello che vogliono gli amici e le amiche del deserto. Per questo concludo con le parole forti di un profeta recente, il teologo Juergen Moltmann che afferma, fedele al messaggio profetico di convertire le armi in strumenti di agricoltura, che “dobbiamo trasformare l'energia criminale in energia dell’amore, la guerra in pace, riscattare l’inimicizia in amicizia e le violenze mortali in forza di vita”.

Jens Hansen

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Sermone in occasione della giornata mondiale del rifugiato

Letture bibliche: Genesi 21:8-21 e Matteo 10, 24-39

Lettore: Ascoltate le parole di Claudette, una rifugiata ruandese: «Non dimenticherò mai il giorno del 12 aprile 1994, quando una granata colpì la mia casa a Kigali, in Ruanda, e quella fu la fine della vita come la conoscevo. All'epoca avevo sette anni e la mia famiglia fu costretta a disperdersi. Mia madre voleva assicurarsi che restassimo uniti come famiglia, quindi cercò ciascuno dei suoi figli per diversi giorni. Ad eccezione di una sorella, riuscì a trovarci tutti».

Care sorelle, cari fratelli,

Sono parole così concrete, così prive di sensazionalismo. Claudette aveva sette anni quando la sua casa fu bombardata – nessuna descrizione della paura o del caos. Sua madre trovò tutti i suoi figli tranne uno – nessuna parola di dolore per la perdita della sorella.

È straziante nella semplicità del racconto... nel modo in cui la tragedia viene semplicemente accettata.

In verità ci sono oltre 122 milioni di storie simili nel nostro mondo in questo momento, metà delle quali riguardano bambini.

È una realtà devastante... ma perché ne parliamo in chiesa?

Beh, per prima cosa, oggi è la Domenica mondiale dei rifugiati. È la domenica che segue il 20 giugno, Giornata mondiale dei rifugiati. La domenica in cui molte chiese e organizzazioni cristiane hanno riconosciuto l'importanza di parlare, come chiesa di Cristo, della dolorosa realtà dei rifugiati.

La Domenica dei rifugiati è rilevante per il nostro culto perché la nostra fede è rilevante per ciò che sta accadendo nel nostro mondo. E nel nostro mondo c'è una crisi dei rifugiati. Attualmente ci sono più persone sfollate a causa della guerra, della violenza e della persecuzione che in qualsiasi altro momento della storia documentata.

Ma questo non significa che il trauma vissuto dai rifugiati sia una crisi nuova e moderna. Infatti, il secondo motivo per parlare dei rifugiati in chiesa oggi è che la nostra prima lettura è, in realtà, la storia di due rifugiati: Agar e Ismaele.

È una storia difficile da predicare, perché è una storia problematica. Presenta diversi tipi di sfruttamento disumanizzante, senza molti commenti redentori:

• La schiavitù umana, per esempio;
• Il che non lascia dubbi sul fatto che Agar avesse alcuna scelta nel dare alla luce il figlio di Abramo;
• Questo prima ancora di arrivare alla profonda ingiustizia di Sara che condanna Agar e Ismaele a morte, per il semplice crimine della loro esistenza.
• E il fatto che sia Abramo, sia apparentemente anche DIO, approvano questo esilio ingiusto: la perdita della casa, dei mezzi di sussistenza e di ogni fonte di sicurezza (per quanto fossero sfruttatori).
• E, come se non bastasse, gli altri protagonisti di questo dramma si rifiutano persino di chiamare Agar con il suo nome, chiamandola invece “la schiava”, negandole essenzialmente la sua umanità individuale.

In questa storia, il padre e la madre del popolo eletto da Dio, che in precedenza avevano costretto la loro schiava a dare alla luce un figlio, decidono che questo non fa al caso loro, quindi la classificano come una non-persona verso la quale non hanno alcun obbligo e la cacciano via, mandando lei e suo figlio nel deserto con risorse del tutto inadeguate per sopravvivere. Agar e Ismaele sono rifugiati indifesi, costretti a lasciare la loro casa, trattati con totale disprezzo. È una storia brutta.

Ma è anche una storia che ci mostra il cuore di Dio per i rifugiati: un cuore che vuole sia salvare che confortare.

Il salvataggio è molto pratico, ed è importante riconoscerlo. Agar e Ismaele stanno morendo di sete e Dio mostra loro una fonte d'acqua rigenerante. Hanno un bisogno fisico disperato e Dio soddisfa quel bisogno.

Dio conforta anche, e questo è un altro punto fondamentale della storia, che la donna che era stata disumanizzata come “la schiava”, Dio la chiama per nome. Alla piccola famiglia che era stata cacciata per morire, Dio promette di farla diventare una grande nazione. Anche il nome Ismaele afferma il valore di questo bambino rifiutato ed esiliato; Ismaele significa “Dio ha ascoltato”.

Dio ha ascoltato, protetto e consolato coloro che il “popolo eletto di Dio” aveva trattato con disprezzo e crudeltà insensibile. Dio si è preso cura dei rifugiati, anche se erano al di fuori del popolo eletto.

Tuttavia, sono consapevole del pericolo insito nel riportare alla ribalta questa storia in relazione all'attuale crisi dei rifugiati. Coloro che vogliono evitare qualsiasi obbligo di risposta potrebbero scegliere di attribuire tale obbligo a Dio:

“Dio ha già agito miracolosamente in passato per salvare i rifugiati. Lasciamo che lo faccia di nuovo. Possiamo pregare affinché Dio intervenga, ma non è nostra responsabilità aiutare persone che si trovano dall'altra parte del mondo?”

Questa reazione non nasce sempre da un'indifferenza insensibile. A volte riflette il senso di impotenza che deriva dal ciclo di notizie 24 ore su 24 intriso di tragedie. Il mondo è a portata di mano, ma è così profondamente distrutto che sembra inutile cercare di apportare qualsiasi cambiamento. Cosa possiamo fare per oltre 122 milioni di sfollati?

E, cosa ancora più importante, potrebbero rappresentare una minaccia per noi. Una minaccia al nostro stile di vita, alla nostra economia o alle nostre stesse vite. Sicuramente Dio non ci chiede di metterci in pericolo...

In realtà, è proprio questo che Dio ci chiede.

«Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.» (Matteo 10,38-39).

Il messaggio del Vangelo, dalle labbra di Gesù, proibisce il nostro istinto di autoprotezione. «I discepoli non sono superiori al maestro» (Matteo 10,24)... e il nostro maestro è andato nella tomba per salvarci.

E il regno di pace definitivo di Dio non verrà senza la metaforica spada della divisione (Matteo 10,34)... e senza respingere le voci che negano il comando radicale di Cristo di amare il prossimo come noi stessi e di riconoscere che non ci sono limiti a chi dobbiamo abbracciare come prossimo.

Questo discorso sulla perdita della nostra vita, sulla spada della divisione e sulla pratica dell'amore senza limiti pratici fa paura. Lo so. Mi spaventa pensare di perdere anche solo una delle cose che amo della mia vita, figuriamoci tutta la mia vita. Non è un insegnamento facile.

Ma c'è anche un messaggio evangelico qui:

Un commentatore ha scritto su questo passo di Matteo:

“Morire a se stessi e perdere la propria vita ci porta oltre le ansie del momento per riposare al sicuro in Dio. Ciò che muore sono le abitudini dell'individualismo, dell'avidità e dell'interesse personale... Ciò che nasce è la compassione e la libertà”.

Gesù ci chiama a una vita veramente nuova. Una vita che NON è controllata dalla paura. C'è una frase che appare sia nella storia della Genesi che nell'insegnamento di Matteo: «Non abbiate paura». Ciò non sorprende, considerando quanto spesso questo comando appare nella Bibbia. Infatti, è il comando più frequente dalla bocca di Gesù.

Sentiamo questo comando in continuazione perché è così difficile obbedire... Ma questa assenza di paura è la chiave della nuova vita. Perché non temere significa avere fiducia in Dio. Significa avere fede. Significa lasciare andare ogni senso di diritto a una vita senza lotte e trovare la libertà di vivere come Dio ci chiama, indipendentemente dalle conseguenze.

Nella nostra liturgia di apertura abbiamo confessato che l'amore costante di Dio dura per sempre. Se ci crediamo davvero, allora siamo liber* di raggiungere le persone bisognose perché non dobbiamo temere.

Non dobbiamo temere ciò che potremmo perdere quando doniamo le nostre risorse per provvedere ai bisogni pratici e fisici di chi ha perso tutto.

Non dobbiamo temere la perdita del nostro status di privilegiati quando affermiamo l'uguale valore umano di persone che sono state svalutate dal potere.

Non dobbiamo temere nemmeno la perdita delle nostre vite se qualcuno entra nel nostro Paese e ci vuole male.

Non dobbiamo temere.

Non posso promettervi che fare tutto ciò che è in nostro potere per accogliere i rifugiati non avrà conseguenze nella nostra vita. Ma sono sicuro che vivere senza paura sarà una fonte di vita – per noi e per gli altri.

Concludo:

Claudette, la ragazza con cui ho esordito, è un esempio per noi a questo proposito. Ha trascorso 12 anni come rifugiata sfollata prima che lei e la sua famiglia venissero finalmente reinsediate nel Rhode Island, grazie al lavoro del Lutheran Immigrant and Refugee Services.

Ora sta frequentando l'università e contemporaneamente ha fondato e lavora per un programma di doposcuola senza scopo di lucro per altri bambini rifugiati, per aiutarli ad avere successo a scuola.

Per vedere cosa possiamo fare noi, ecco oggi abbiamo un ospite della CSD, che ci racconterà delle sue esperienze, Marta Pacor.

E se volete sostenere la vita dei rifugiati e chiedere a Dio di avere il coraggio di rispondere alla loro situazione, vi incoraggio a pregare il nostro Dio, il cui amore costante dura per sempre.

Preghiamo: Dio che ascolti ogni lamento nel deserto e ogni preghiera nella tempesta, ascolta le grida di ogni portatore della tua immagine sfollato a causa della guerra, della violenza e della persecuzione.

Accompagnali nei loro viaggi, fornisci loro cibo, acqua, riparo e medicine e portali in un luogo di sicurezza e accoglienza.

Stimola i cuori dei tuoi figli, compreso il mio, che gode di sicurezza e abbondanza, a raggiungere con cura i rifugiati vicini e lontani. Aiutaci a riconoscere le nostre benedizioni come risorse che ci hai dato per benedire gli altri, e non come beni da accaparrare o proteggere.

trasforma coloro che esercitano la violenza e l'oppressione, affinché usino il loro potere per guarire e risanare, anziché per dividere e distruggere. Che la Tua giustizia regni in tutta la terra e che tutti i popoli della terra riflettano la Tua gloria. La gloria che conosciamo attraverso l'amore di Gesù Cristo, per il quale preghiamo.

Jens Hansen

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Predicazione su Giovanni 14, 15-19.23-27

Quando una persona leader lascia il suo incarico, spesso ci si chiede come andrà avanti senza questa persona. Chi si congeda o viene trasferito in altra seda lascia innanzitutto uno spazio vuoto, uno spazio che sarà difficile da riempire dalla persona che segue e prende il posto.

Così è nell’economia quando un imprenditore di successo lascia la guida della sua impresa, e tutti, anche i dipendenti si chiedono: che cosa sarà di noi? Ma succede anche nelle nostre chiese. Un pastore molto amato viene trasferito e lascia un vuoto. Non per caso nelle nostre chiese ben volentieri si pensa ai pastori che maggiormente hanno inciso sulla propria fede. In ogni chiesa forse esiste un Pastore con la P maiuscola, quello che più ha inciso sulla fede delle persone e sulla vita della chiesa.

Ma può anche essere nella vita privata quando muore la madre, il padre o quando si arriva a fine corsa per il matrimonio.

In tutte queste situazioni di congedo ci accorgiamo che noi non siamo facilmente sostituibili come lo sono le macchine, una si rompe, ecco, la si sostituisce con una nuova. Con noi persone, esseri umani, non funziona così, perché non se ne va solo un corpo, ma una persona con il suo carattere, con il suo modo di fare e amare.

“Come andare avanti?” è quindi una delle domande più frequenti in queste situazioni di cambio. E’ una domanda che vuole una risposta. Allora è molto importante fare in modo che le transizioni vengano organizzate in modo ordinato per aiutare a ridurre le incertezze e le paure, per dare continuità e la sensazione: si va avanti.

Anche Gesù se ne deve andare. Egli non vuole che i suoi non siano preparati a questa situazione. Si occupa del dopo. “Non vi lascerò orfani.” Già questo versetto rivela tutta la drammaticità di ciò che sta davanti a tutti: con Gesù, i discepoli e le discepole non perdono solo il loro maestro, ma la sua morte metterà in dubbio tutta la loro esistenza. Il vuoto che Gesù lascia toglierà loro il fiato. Hanno deciso di seguire Gesù, e ora lui se ne va. Perdono tutto.

Come orfani sono senza protezione, senza orientamento, senza amore. Vivranno o meglio sopravvivranno derubati di tutto ciò o meglio di colui che da un senso alla loro vita.

Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più. Significa: non sarò più con voi! Tutto ciò che si è costruito attorno a Gesù, i miracoli, le speranze, il futuro immaginato con il loro maestro, il nuovo orizzonte, tutto, veramente tutto rischia di crollare con queste parole.

E infatti, è crollato tutto. Basti immaginare i racconti che seguono la crocifissione. I discepoli maschi scappano e tornano alla loro vita di sempre. Le donne che vanno alla tomba si spaventano. Marco infatti fa finire il suo Vangelo con le parole: non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura.

I discepoli un gregge depresso, in pieno lutto, impreparato ad affrontare il dopo Gesù.

Gesù lo sa, e per questo si rivolge ai suoi facendo loro una promessa: coloro che lo hanno seguito avranno ora a loro volta uno che li seguirà e li accompagnerà. Non dice subito il nome, non dice chi è, ma che cosa farà: consolatore. I discepoli saranno consolati, consolati per aprirsi alla vita. Gli orfani non rimarranno orfani, perché anche dopo la dipartita del loro maestro rimane ciò che per Gesù di Nazaret è la base del suo parlare e agire: l’amore di Dio per le sue creature. Anzi, ciò che Gesù è stato per i suoi, adesso lo sperimenteranno per mezzo del consolatore: sarà lui a insegnare loro e a ricordare loro tutto ciò che hanno imparato dal loro maestro.

Questa consolazione ci viene raccontata già nelle apparizioni del risorto. Tommaso non dubita più, Maria Maddalena non piange più, i discepoli di Emmaus che prima camminano a passo pesante verso Emmaus, tornano pieni di gioia a Gerusalemme, correndo.

Lo Spirito fa veramente nuovo tutto. I discepoli diventano apostoli, predicatori con parole e azioni dell’amore di Dio.

Alla fine Gesù conclude il suo discorso nel brano: Vi lascio pace; vi do la mia pace.

Solo la pace può togliere l’incertezza, le preoccupazione per la propria vita, la paura del futuro, tutte cose che fanno della vita un combattimento e ci costringono a doverci sempre giustificare davanti a tutti. La pace cambia la prospettiva della vita.

Sapersi sostenuti dall’amore di Dio porta alla pace. Lo Shalom che è veramente più del semplice tacere delle armi. Per questo Gesù distingue la sua pace dalla pace del mondo. La sua pace è la pace di cui parlano i profeti, è una vita nel campo magnetico dell’amore di Dio che fa sì che cambio io e cambia il mondo. E’ la pace dei profeti che la descrivono in parole che sembrano utopia, ma infondo sono l’essenza dell’amore:

Isaia 65:25 “Il lupo e l'agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo”, dice il SIGNORE.

Isaia 2:4 Trasformeranno le loro spade in vomeri d'aratro, e le loro lance, in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra, e non impareranno più la guerra.

Ezechiele 34:25 Stabilirò con esse un patto di pace; farò sparire le bestie selvatiche dal paese; le mie pecore abiteranno al sicuro nel deserto e dormiranno nelle foreste.

La pace, lo shalom è talmente importante per i profeti che possiamo tradurla con benessere. La pace è la conseguenza della vita nell’amore di Dio. Non ci sono pochi stracchi e una moltitudine di poveri, non ci sono vedove, orfani e stranieri lasciati a se stessi, non ci sono avvoltoi che mangiano del tuo. Shalom, pace, vivere nell’amore, dell’amore e l’amore di Dio.

E’ questa pace che Gesù promette ai suoi discepoli. E’ la pace che ci ricorda che siamo a casa nell’amore di Dio. Sperimentarla e concretizzarla è un dono dello Spirito di Dio.

Lo spirito dona forza, coraggio, voglia di vivere anche contro ogni evidenza, contro ogni disperazione. E’ un consolatore proattivo che ci rende a nostra volta proattivi, perché chi vive nell’amore di Dio vuole essere un portatore e una portatrici del suo shalom e renderlo visibile nel mondo in cui spesso non c’è nemmeno quel poco di pace che Gesù ci lascia, quella pace del mondo. Lauren Daigle, la cantante degli USA di testi di fede lo dice così nel ritornello del suo canto “You say” (tu dici): Dici che sono amata quando non riesco a provare niente, dici che sono forte quando penso di essere debole, dici che c'è qualcuno che mi tiene quando sto per cadere quando non appartengo a niente, oh tu dici che sono tua. Cliccare qui per il video

Facciamoci dare questa forza, possa lo spirito abitare in noi e fare di noi dei testimoni dell’amore che sfocia nella pace e porta ad un mondo nuovo.

Jens Hansen

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Predicazione su 1 Re 8,22-24.26-28

Nota: per ragioni tecniche oggi non c'è la registrazione dell'audio.

Lontano ... lontano ... a volte Dio sembra tanto lontano, troppo lontano. Potremmo pensare che fossero i momenti difficili in cui Dio ci sembra lontano anni luce, tempi in cui Egli ci lascia soli.

Infatti, i salmi sono pieni anche dell’accusa che Dio ci lascia soli quando ci troviamo nei guai. Il Salmo 22 con il suo “Dio mio perché mi hai abbandonato?” è solo l’esempio più evidente e noto.

Ma è davvero così che sia proprio la sofferenza, la malattia, il fatto che la vita vada storta ci allontani da Dio, o meglio, ci faccia pensare che Dio fosse lontano?

A me piace pensare che non è così. Basti pensare al famoso e commovente racconto delle impronte nella sabbia dove la persona chiede a Dio: perché mi hai lasciato solo? Per farsi rispondere: non ti ho lasciato solo, ti ho portato sulle mie spalle.

Penso che il rischio di sentire Dio lontano, non lo corriamo tanto nei momenti difficili in cui sembriamo abbandonati da Dio, ma che, al contrario, lo corriamo proprio quando stiamo bene.

Non è raro che Dio per me non conta, non è presente nella vita normale di tutti i giorni, quando tutto va per il verso giusto. La sua presenza in tutto il tram tram della vita quotidiana sembra stranamente svanire, e la sua parola nelle mie orecchie, che ho sentito ancora domenica durante il culto, è a malapena nella mia memoria.

Non sono le situazioni insolite che fanno dimenticare Dio, ma l'attività quotidiana che lo fa passare in secondo piano, non perché Dio non ci sia ma perché pensiamo di non aver bisogno di lui, come se Dio servisse solo quando stiamo male.

Povera immagine del Dio, che deve intervenire solo quando sto male e la cui presenza non è percepita quando sto bene. Dio degradato a un essere supremo confezionato a mio bisogno, anziché essere Colui con cui mi relaziono e da cui mi faccio ispirare per concretizzare la sua volontà in tutti gli ambiti della vita.

Il problema è che, allontanandoci da Dio, comunque rimane in noi una sensazione strana: sembra mancare qualcosa nella vita.

Non possiamo liberarci dal nostro essere immagine e somiglianza di Dio. Dio ci ha creati così, a immagine e somiglianza. Dio ci ha creati per una relazione intima e stretta, per fare di noi i suoi vicari sulla terra. Vuole relazione, non qualche preghierina ogni tanto. Vuole esserci nella mia vita e perciò la Bibbia è un libro pieno di un Dio che per amore ci dice: “mi manchi”.

Noi, lasciando Dio nell’angolo del pompiere che deve solo intervenire quando serve, abbiamo quindi comunque questa sensazione vaga di qualcosa o qualcuno che ci manchi. E cerchiamo dappertutto per riempire in qualche modo questa sensazione, questa mancanza.

Ciò ci spinge in tutte le direzioni. Cerchiamo Dio ovunque.

Il sociologo tedesco Christoph Deutschmann per esempio lo dice chiaramente: il capitalismo è diventato una religione, perché utilizza un linguaggio di fede.

La dichiarazione di Accra del 2004 in cui le nostre chiese a livello mondiale hanno preso posizione contro il neoliberismo che schiaccia i deboli dice: “Si tratta di un’ideologia che pretende di non avere alternative (verità!), che esige un flusso senza fine di sacrifici da parte dei poveri e del creato. Avanza la falsa promessa di essere in grado di salvare il mondo per mezzo della creazione di ricchezza e prosperità, pretendendo di avere signoria sulla vita e esigendo una devozione totale, il che equivale ad una idolatria.”

Allora, come rendere presente e visibile Dio nella società?

Il Re Davide, padre del Re Salomone, si è posto questa domanda rispondendo ad essa con la costruzione del Tempio di Gerusalemme, che suo figlio Salomone è finalmente in grado di inaugurare.

Crea così un santuario centrale, che non solo diventa un luogo di pellegrinaggio, ma si ancora anche, per la sua architettura e per la sua posizione centrale, nella coscienza del popolo.

L'edificio è luogo della presenza Dio stesso, questo Dio invisibile, in mezzo alla sua gente, il Dio che non può e non vuole essere raffigurato, ecco riceve una casa che lo rende toccabile nel vero senso della parola.

Dove, se non qui, a casa sua, si può essere sicuri di incontrarlo?! Questo è anche il motivo per cui gli ebrei in esilio hanno avuto grossi problemi a mantenere la loro fede. Il Tempio distrutto ha lasciato delle ferite profonde. Si sono sentiti come se Dio si fosse ritirato e non più presente.

Anche il cristianesimo dopo i primi tempi in cui si incontrava nelle case, ha cercato di ancorare Dio ai monumenti e, di conseguenza, anche la fede cristiana. Sono state create grandi cattedrali. In realtà, ogni singolo campanile di una chiesa, per quanto piccolo, è un segno tangibile che ci fa alzare lo sguardo verso il cielo e ci ricorda che Dio ha preso casa in mezzo a noi. Ma può anche illuderci come se dovessimo cercare Dio lassù in un non meglio definito cielo e non qui sulla terra in mezzo a noi dove Dio ama stare.

Ora viviamo in un momento in cui questi stessi segni hanno perso il loro ruolo. Sempre più chiese vengono abbandonate, anzi talvolta anche abbattute. Molti dicono che così Dio stesso si allontana da noi, ma penso che ciò non sia vero. Perché Dio non lega la sua presenza ad un luogo. Allo stesso modo anche la festa dell'Ascensione può essere una metafora fraintesa: Dio è andato altrove e questo mondo è lasciato a se stesso. Dio è sopra ogni cosa e non è più raggiungibile.

Come Salomone, molti oggi chiedono: ma è proprio vero che Dio abiterà sulla terra?

In un momento in cui non siamo più disposti a costruire monumenti a Dio come Davide, dobbiamo trovare altre risposte alle domande e ai bisogni della gente. Forse non sono cosi visibili come tutte le cattedrali e le chiese, ma potrebbero essere un'opportunità per mantenere viva la fede.

In realtà, Salomone è consapevole di questa possibilità quando inaugura il Tempio di Gerusalemme. Perché sa che Dio non ha bisogno di un edificio per stare vicino all'uomo. Più delle pietre valgono le parole che Salomone esprime: Dio mio, abbi riguardo alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, ascolta il grido e la preghiera che oggi il tuo servo ti rivolge.

Forse non è un caso che L'Ascensione segua la domenica Rogate, pregate. Dove vive Dio? Una possibile risposta sarebbe: né in cielo né in terra. Vive nelle conversazioni che ho con lui.

Ed ecco, la via per rendere visibile Dio nel mondo, è renderlo visibile dagli effetti che la sua presenza fa. E’ questa la “ricetta” di successo della fede cristiana sin dagli inizi. I discepoli non hanno mai detto di aver visto la risurrezione o di credere nella risurrezione. Loro hanno apertamente parlato e concretizzato nella vita quanto il risorto ha cambiato in loro.

La loro testimonianza non era vuota, ma invitava: vedi come può cambiare la tua vita se segui il risorto come lo faccio io. Il mondo può diventare un luogo migliore.

Ascensione significa che Dio lega la sua presenza alla nostra testimonianza, a noi e a come lo rendiamo visibile. Se siamo nel mondo e del mondo Dio non si vede in noi, se siamo mondo e una spina profetica nel fianco in parole e azione, allora la gente vede Dio che opera in noi e per mezzo di noi, la gente vede la nostra relazione con Dio e vede che Dio non è relegato ai margini della nostra vita.

Jens Hansen

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Predicazione su Atti 16,11-40

Oggi immaginiamo di essere con un gruppo di discepoli nel 51 dopo Cristo a Filippi, città a metà strada fra Gerusalemme e Roma:

da ormai vent'anni la nuova via, la della Vita in Cristo si è diffusa. Ricordiamo ancora le parole di Gesù di seminare il buon seme e vederlo crescere. Ci viene in mente anche la parola di essere il lievito della società. Osiamo credere che attraverso dei piccoli semi come noi, attraverso il lievito del nostro piccolo movimento, attraverso i rami diffusi di questo movimento in espansione, il mondo cominci a cambiare. Nessuno sa esattamente quanti discepoli ci sono, ma ogni giorno sembra che siano aggiunti altri.

Abbiamo già visto insurrezioni di giustizia, di pace e di gioia, diffuse in tutta la Giudea e Samaria, e ora, Paolo, Timoteo, Luca, Sila, Priscilla, Aquila e molti altri sono in viaggio in tutto l'impero, facendo nascere delle comunità nelle grandi città. Siamo stati invitati ad unirci a loro a Filippi.

Filippi è famosa perché, come colonia romana, è un piccolo avamposto di Roma. I cittadini di Filippi sono Romani fedeli. Gli schiavi qui, proprio come ovunque nell'impero, non sono così felici con la Pax Romana. Essi lavorano in modo sproporzionato e hanno pochissimo da godere questa pax romana. Lo stesso vale per le donne dell'impero.

Se gli schiavi e le donne sono le persone meno considerate dell'impero, le giovani schiave femminili sono di gran lunga le più vulnerabili.

Ed è una ragazza schiava che in seguito ha attirato la nostra attenzione. Ha fatto un sacco di soldi per i suoi proprietari entrando in una trance e raccontando il futuro delle persone. Ogni volta che siamo passati da lei sulla strada verso il fiume, lei ha iniziato a gridare: «Questi uomini sono servi del Dio altissimo e vi annunciano la via della liberazione».

Potete immaginare come i proprietari degli schiavi si sentano quando gli schiavi gridano la parola liberazione. E potete immaginare come i credenti degli dèi greci e romani si sentano quando qualcuno parla del “Dio più alto di tutti”. E’ una minaccia alla loro economia e alla loro religione, a tutta la loro vita romana. Queste cose sono andate avanti per un paio di giorni finché, ieri, Paolo si è sentito disturbato dalla donna. Non sappiamo esattamente il perché. Può essere stato irritato dal modo in cui la ragazza stesse attirando l'attenzione su di noi. Potrebbe essere stato imbarazzato che una veggente parlasse di noi. O forse la ragione sta nel semplice fatto che a Paolo sia dispiaciuto di vedere la ragazza con tanta energia, intelligenza e coraggio ridotta in schiavitù.

Infatti, Paolo ci ricorda costantemente che tutte le persone hanno uguali dignità in Cristo, maschio o femmina, schiavo o libero, ebreo, greco, romano o straniero. Comunque, per qualunque ragione, ieri Paolo ha avuto abbastanza. Nel nome di Gesù Cristo, Paolo si è rivolto alla ragazza e ha comandato allo spirito veggente di uscire da lei. E da quel momento, la ragazza non dice più niente. Niente più visioni, niente più trance. E niente più soldi per gli uomini che l'hanno sfruttata!

Allora la situazione è rapidamente precipitata. I furbetti schiavisti hanno fatto arrestare Paolo e un altro membro del nostro gruppo, Sila, e li hanno trascinati nella piazza centrale della città dove si trovano tutti i mercati dicendo ai funzionari della città che Paolo e Sila fossero dei rivoluzionari ebrei.

La parola “ebrei” è la parola chiave per la reazione delle autorità. Noi ebrei, dopo tutto, prendiamo la nostra identità fondamentale dalla storia di Dio che ci libera dalla schiavitù in Egitto. Per questo noi ebrei siamo considerati più resistenti al dominio romano.

Alla fine gli schiavisti sono riusciti a organizzare in breve tempo un bel tumulto. Presto, per ordine dei funzionari della città, Paolo e Sila sono stati spogliati, duramente picchiati con le verghe e trascinati in prigione, dove sono stati messi in catene nella cella più interna del carcere.

La notte scorsa Paolo e Sila hanno cantato lodi a Dio. E’ stato come dire: “Puoi chiuderci nel carcere, ma non puoi fermarci!” Le loro canzoni di lode hanno fatto vedere che non temevano né l'intero sistema romano di schiavitù, dominio e intimidazione, né i piccoli dèi che lo tiene in piedi. Gli altri prigionieri, come si può immaginare, erano abbastanza colpiti dal loro coraggio, se non dalle loro voci di canto.

Improvvisamente, verso mezzanotte, così, poi ci racconterà Paolo, c'era un terremoto, ma solo nel carcere, perché noi non ne abbiamo sentito niente. Infatti, questo tipo di terremoto è stato completamente senza precedenti. Non ha ridotto il carcere in un mucchio di macerie. Non ha prodotto vittime. Ha semplicemente aperto i cancelli e le catene! E’ stato un terremoto di liberazione, non di distruzione. O semplicemente una liberazione senza badare troppo sul fatto del terremoto.

Quando il carceriere si è precipitato per controllare i suoi prigionieri, era terrorizzato. Sapeva che, se fossero fuggiti, egli sarebbe stato messo in prigione, forse anche torturato. Così ha tirato fuori la sua spada, perché riteneva meglio il suicidio della prigione. Paolo gli ha gridato: “Non farlo, uomo! Siamo tutti qui!”

A questo punto, il povero carceriere era ancora più sconvolto. Qui i suoi prigionieri erano preoccupati per il suo benessere! Hanno scelto di rimanere in prigione volontariamente per impedirgli di farsi male per la loro fuga! Ha portato fuori dalla prigione i prigionieri ed è caduto in ginocchio davanti a loro, tremando di emozione. “Signori, cosa devo fare per sperimentare la liberazione che voi vivete?” Ed ecco, di nuovo la parola “liberazione”, usata già dalla ragazza schiava veggente.

“Abbi fiducia nel Signore Gesù e tu sarai liberato, e così sarà liberata tutta la tua famiglia”, dice Paolo. Il carceriere comprende queste parole “Signore Gesù” come contrario al titolo dell'imperatore, “Signore Cesare”. Si rende conto che Paolo gli ha invitato a smettere di farsi intimidire dal sistema di minacce, fruste, spade, catene, serrature e prigioni di Cesare. Ha capito le parole di Paolo come invito a vivere sotto un diverso signore o un altro leader supremo, in un sistema diverso, un altro impero, un regno diverso – quello che Gesù porta, caratterizzato da una vera libertà, una vera grazia e una vera pace.

Il carceriere li porta quindi a casa sua, lava le loro ferite e da loro un buon pasto. E’ già stato trasformato da un carceriere a un ospite premuroso! E quando Paolo e Sila annunciano all'uomo, alla sua famiglia e ai suoi schiavi la risurrezione che porta all’insurrezione della vita, tutti si fanno battezzare.

All'inizio di questa mattina, i funzionari della città hanno capito di aver violato i protocolli legali seguendo le richieste degli uomini d'affari ricchi. Così mandano la polizia alla prigione con l’ordine di far uscire Paolo e Sila dal carcere. Ma Paolo rifiuta di uscire dalla prigione dicendo: «Avete fatto un’ingiustizia umiliando, battendo e imprigionando pubblicamente due cittadini romani senza un processo, e ora volete che noi copriamo la vostra ingiustizia andandocene in silenzio? Non se ne parla nemmeno! Se volete che ce ne andiamo dal carcere, venite qui e chiedete pubblicamente scusa.”

Quando la polizia torna con la notizia che i due prigionieri sono in realtà cittadini romani, i funzionari della città si spaventano assai. Così rispettano le richieste di Paolo, vengono di persona e gentilmente chiedono che Paolo e Sila di uscire dal carcere e di partire immediatamente dalla città.

Paolo non ha fretta. Decide di fermarsi e passare un po' di tempo qui a casa di Lidia, dove il resto di noi è stato in attesa. Paolo e Sila ci raccontano quanto vi ho appena raccontato io.

Siamo pieni di gioia. Siamo partecipi di una di liberazione e soprattutto della crescita del nostro movimento!

Quando alla fine lasciamo Filippi continua la nostra avventura di una chiesa che cresce, una missione per la pace e la liberazione, una missione contro le ingiustizie a tutti i livelli della società, una missione di liberazione per tutte e tutti.

Jens Hansen

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Predicazione su Proverbi 8, 22-36

Oggi non ho lo scritto. Per questo pubblico qui la versione audio registrata nella chiesa valdese di Tramonti di sopra.

Jens Hansen

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L’elezione del nuovo Papa non è solo un evento interno alla Chiesa cattolica. È un momento che parla anche a noi cristiani di altre confessioni, che viviamo il nostro discepolato in comunione con l’unico Signore e in apertura al cammino dell’unità.

Come pastore di una Chiesa protestante storica, impegnata nel dialogo ecumenico, sento il desiderio di condividere alcuni pensieri e una parola di vicinanza ai fratelli e alle sorelle cattolici. Questo nuovo inizio è per tutti un’occasione per rinnovare la preghiera, l’ascolto reciproco e la speranza, per essere testimoni della giustizia e della pace di Dio.

Un motto che impegna tutte e tutti

Il motto scelto dal nuovo Pontefice, In Illo uno unum – “Nell’unico, uno solo” – è tratto da sant’Agostino, che nel commento al Salmo 127 scrive:

“Sebbene noi cristiani siamo molti, nell'unico Cristo siamo uno.”

Parole semplici e profonde, che racchiudono la visione di un’unità non costruita dalle nostre mani, ma ricevuta come dono in Cristo. Come protestanti, sentiamo risuonare in esse un richiamo alla nostra comune appartenenza al Corpo di Cristo, oltre ogni divisione storica.

La forza di una pace disarmante

Tra le prime parole del nuovo Papa, una in particolare mi ha dato speranza: ha parlato del bisogno di una “pace disarmante”. Una pace che non si impone con la forza, ma che nasce dal Vangelo, dal perdono, dalla riconciliazione. È la pace di Cristo, quella che spiazza e converte, che costruisce ponti e non barriere.

Nel nostro tempo lacerato da guerre, violenze e polarizzazioni anche all’interno delle comunità cristiane, questa visione evangelica della pace ci chiama tutte e tutti. E' tempo di camminare insieme, nel rispetto e nella verità, testimoniando il Cristo che continua a liberare e a trasformare.

Camminare insieme

Auguro al nuovo Papa un ministero segnato dalla luce del Vangelo e dalla libertà dello Spirito. E a tutti noi, credenti in Cristo, auguro di cogliere questo momento come un’occasione per rinnovare il nostro impegno a cercare ciò che ci unisce, a costruire comunione, a custodire insieme la speranza per esserne testimoni.

Jens Hansen

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Predicazione su Giovanni 10,11-16

Chi non la conosce, l'arte pia che ha come soggetto il buon pastore. Viene dipinto un Gesù vestito di bianco, il vestito senza macchia, senza strappi. Gesù stesso con uno sguardo dolce, un viso che sembra appena uscito da un centro benessere, le mani con unghie ben curate, mani che fanno intravedere che questo Gesù non è capace di lavorare duro, pena vesciche che si formerebbero nemmeno dieci minuti di lavoro duro. Talvolta questo buon pastore porta sulle sue spalle una pecora o un agnellino ed è circondato da una mandria di belle pecore ponchie. E, siamo sinceri, molti degli inni del nostro innario hanno lo stesso sfondo idilliaco non solo con le melodie, talvolta anche con i testi.

Un tale dipinto, una tale melodia, un inno che descrive il buon pastore in colori rosei sono lontani anni luce dalla realtà della vita di un pastore. I pastori di tutti i tempi sono persone ai margini della società, sempre fuori, con un lavoro duro che non da loro un'aspettativa di vita elevata, anzi invecchiano velocemente essendo loro esposti a tutte le intemperie del tempo. Il conflitto dei pastori con i contadini sedentari ha una lunga cultura e la Bibbia ne è testimone, già al suo inizio – Caino e Abele.

Se poi vediamo come si chiamano i pastori della storia recente – Cowboy, Gaucho – il quadro di persone ruvide, talvolta violente e fuori legge, veloci con il revolver (Cowboy) si completa, un quadro in forte contrasto con il nostro immaginario del pastore.

E' ovvio che Gesù non vuole esaltare la professione del pastore, o meglio, non la vuole idealizzare. Se sceglie la figura del pastore per spiegare com'è lui e per farci capire come dovremmo essere noi, lo fa per la sua abitudine di prendere degli esempi dall'orizzonte e dall'immaginario collettivi della sua gente. Il pastore è solo lo sfondo, il messaggio non è direttamente collegato a queste figure ruvide ma al modo di esercitare questa professione.

Abbiamo da un lato il buon pastore, il buon pastore riceve le sue pecore dal padre, è quindi l'erede, il successore. Le pecore sono del padre, ma il futuro del buon pastore è strettamente legato al futuro della mandria. Ci vogliono impegno e cura. Il buon pastore diventa uno con le sue pecore, le chiama con nome, le cura e fa di tutto per farle crescere bene, perché dalla salute della mandria dipende il suo futuro, la sua vita. Se perde la mandria, perde se stesso, va in bancarotta. Il buon pastore è perciò strettamente legato alle sue pecore, dipende da loro e loro dipendono da lui.

Dall'altro lato c'è il mercenario, l'operaio talvolta solo a giornata, che oggi lavora e forse domani non trova lavoro. Le pecore non sono sue. Fa il lavoro per un altro e con esso a malapena si guadagna solo il suo pane quotidiano. Il mercenario non ha bisogno di entrare in simbiosi che le pecore, tanto non sono le sue. Il mercenario vuole solo arrivare a sera, al pagamento per mettersi qualcosa fra i denti.

Ora il Gesù dell'Evangelo di Giovanni si identifica con il buon pastore per dire alla chiesa di Giovanni: non sono un mercenario, non vi lascio orfani in nessuna situazione, sia essa anche difficile.

E ora? Che si fa con quest'affermazione del Risorto di essere il buon pastore? Arte pia che relega Gesù nei quadri appesi in camera da letto? Una confessione di fede cantata con fervore prendendo uno degli inni? Se ci limitassimo a ciò saremmo poveri testimoni del Risorto che invece non lascia occasione per rinnovare l'invito a seguirlo. Il Risorto non vuole essere relegato in camera da letto, non vuole essere adorato, infatti, non lo chiede mai a nessuno. Il suo invito costante è: seguimi.

Ed è qui che la questione del contrasto fra il buon pastore e il mercenario ci coinvolge in prima persona. Seguitemi, voi siete figlie e figli di Dio, Dio vi affida questo mondo: uomini e donne, animali, piante. Se stanno bene, state bene anche voi, se li trattate male, tutto ciò si ripercuoterà anche su di voi.

Non siate mercenari! Ma quante volte lo siamo! Quante volte ci comportiamo come mercenari che agiscono senza una prospettiva positiva da buon pastore, anche all'interno delle nostre chiese nella prospettiva di un mondo da custodire.

Se andiamo dalla chiesa alla vita quotidiana, l'orizzonte da mercenario si allarga a dismisura: il cambiamento verso energie rinnovabili? Troppo caro. Meno rifiuti elettronici? Guasta la festa. Merce sfusa invece di confezionata in tanto materiale che poi va in spazzatura? Troppo complicato. Usare meno la macchina? I mezzi pubblici non funzionano, in bici troppo pericoloso, a piedi vanno solo i matti.

Viviamo in un mondo di mercenari, stiamo perdendo la sensazione di essere fatti gli uni per le altre. Siamo sulla buona strada di distruggere noi e il pianeta con questa mentalità.

Abbiamo solo questo pianeta. Non possiamo lasciarlo e poi abitare un altro. C'è solo questa umanità, non possiamo separarci da essa. C'è una sola comunione fra le creature di Dio, non viviamo se ci autoscomunichiamo da essa. Non abbiamo niente e nessuno oltre al mondo in cui viviamo, il mondo ci è stato affidato da Dio affinché siamo dei buon pastori e delle buone pastore seguendo l'esempio di Gesù.

Già il profeta conosce i “suoi” mercenari, gente che sfascia invece di fasciare, che uccide invece di guarire, che sfrutta invece di condividere.

E' per questo che il Risorto si identifica con la figura del buon pastore e vuole che lo seguiamo. Il Risorto ha in mente una chiesa in cui la mentalità mercenaria lasci lo spazio alla mentalità del buon pastore, dove la testimonianza della Vita che riecheggia domenica dopo domenica nei culti, prenda forma in un impegno di comunione e di condivisione a livello globale.

La mentalità mercenaria porta alla morte del Creato e di un numero infinito di persone, l'impegno del buon pastore è in grado di fasciare le ferite e di incamminarsi così verso un altro mondo che vuole rendere possibile e vivibile qui ed oggi affinché la Risurrezione non diventi un dogma vuoto ma forza della mia vita e del mio impegno.

Rimane quindi un chiaro incarico: abbiate cura di voi, del prossimo, del pianeta. Essere il buon pastore alla fine non vuol dire altro che vivere in una relazione sana rispecchiata dal comandamento che Gesù stesso ci insegna: amare Dio e il prossimo come se stessi, il triangolo dell'amore. Dentro c'è tutto il mondo, tutto il creato, ma in una visione in cui noi non siamo la corona del tutto ma in rete chiamate e chiamati a vivere in armonia.

Jens Hansen

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predicazione su 1 Pietro 1,3-9

Rinascere, non un giorno in un futuro nebuloso, ma qui ed oggi, chi di noi non lo vorrebbe? E' affascinante poter azzerare tutto e iniziare da capo, senza ripetere gli errori del passato, sì, affrontare la vita in un modo completamente diverso:

non dare più ascolto alle persone sbagliate, le persone sui quali non ho potuto contare nel passato, fare un mestiere diverso, togliersi i vizi e forse fare delle cose finora ritenute pazze e inutili: guardare dei bei tramonti, uscire di più dalle mura domestiche invece di stare davanti alla tv, giocare di più con i bambini e non lasciarli soli davanti a qualche pezzo di tecnologia moderna, preparare dei dolci con loro, andare in piscina, giocare, ridere.

Sarebbe bello poter rinascere vero? Penso che sia bello perché nella vita spesso facciamo delle esperienze opposte: le cose non cambiano mai, rimane tutto nei binari consueti, talvolta ci sentiamo come se il carro della nostra vita si fosse inceppato nel fango del malessere.

Nonostante le crisi tutto rimane come sempre, nemmeno le elezioni portano il cambiamento tanto necessario. Ogni tanto ci potrebbe venire la sensazione di impotenza di fronte allo scenario poco rasserenante che si prospetta davanti a noi.

Tutto ciò non vale solo nella società e nel mondo, anche nella propria vita ci vengono dei pensieri: quante cose ho sognato, desiderato, sperato, ma alla fine mi sono rassegnato e ho fatto come fanno tutti. Non mi sono accorto del passare degli anni, sono diventato un uomo che svolge la routine nel grigiore della quotidianità.

Per tutti coloro che non si vogliono rassegnare, che non intendono accettare che le cose debbano rimanere come sono, l'autore del nostro brano dice: sì invece, è possibile, ti puoi sentire come rinato. C'è un perché: la risurrezione di Gesù dai morti.

La Pasqua, celebrata una settimana fa, te lo ricorda: puoi sentirti rinato, anzi puoi essere come un bambino appena nato, perché la Pasqua ti dà una speranza viva che non può essere distrutta o annientata da niente e da nessuno.

Com'è possibile tutto ciò? I testimoni biblici della risurrezione hanno sperimentato di essere rinati, perché hanno visto che dopo la risurrezione la vita si svolge in coordinate completamente diverse. Prima della risurrezione, dopo la morte di Gesù i discepoli erano depressi, giù, senza speranza, fuggiti nelle loro città e nei loro paesi, quando invece il Risorto è apparso a loro, hanno sperimentato una svolta nella vita, la strada che sembrava senza uscita ora è diventata la nuova via, la via della vita, la via di una nuova speranza, l'inizio di qualcosa mai sperimentato prima.

Questo per l'autore della nostra lettera significa rinascere. E non è un evento legato solo alla prima generazione, a coloro che hanno visto il Risorto. La rinascita è possibile anche per noi, possiamo vivere con degli orizzonti nuovi, orizzonti di un futuro e di speranza.

Quando sei ad un punto in cui delle cose sono irrimediabilmente arrivate ad una fine, quando vivi nel nonsenso perché hai dovuto congedarti da una persona che ora non c'è più nella tua vita, quando hai perso definitivamente un'opportunità, puoi rinascere.

Certo, la Pasqua, la risurrezione, la rinascita non significano che possiamo manipolare il nostro orologio biologico, non possiamo desiderare di tornare ad un certo punto della nostra vita per ricominciare da capo, la rinascita del nostro brano significa invece: in mezzo alla mia vita in cui molte cose sembrano un groviglio complicato, nella mia quotidianità, posso affrontare le cose in modo diverso, con speranza, aperto verso il futuro, quello mio, quello degli altri e quello del mondo.

Alcune persone dicono di sé stesse di essere rinate, di avere una nuova qualità di vita, di sperimentare solo gioia, gioia e di nuovo gioia, frutto di una conversione.

L'autore non scrive però di certi entusiasmi spirituali, di esperienze trionfalistiche che fanno perdere il contatto con la realtà, egli invece sa che la fede è sempre una pianta debole e in pericolo, perché ci sono momenti nella vita in cui i problemi non si risolvono, e talvolta la sensazione della rinascita non c'è.

Perciò egli scrive: dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi. E ci dice: Dio stesso si prende cura di noi, perciò la nostra speranza è viva, apre nuovi orizzonti e cambia le coordinate della nostra vita. Il nuovo orizzonte che Dio ci dona fa sì che camminiamo in un ampio spazio, che siamo liberi.

Per i primi lettori della nostra lettera è stato molto importante conoscere il fondamento della propria vita. Loro sono una minoranza in mezzo ad un mondo pagano. Anche se non ci sono ancora le persecuzioni, possiamo dare per certo che comunque i cristiani del tempo dell'epistola sono degli outsider, persone ai margini. Perciò desiderano una base certa per la loro vita.

Una base solida, la desideriamo anche noi. Certo, le coordinate del mondo sono cambiate, ma anche noi viviamo delle incertezze: può essere la salute che cambia da un giorno all'altro, il posto di lavoro oggi non è più certo come una volta, le relazioni sono più fragili e il futuro del mondo e più che incerto.

L'autore conosce le delusioni e le incertezze, perciò scrive: per una eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile.

Una persona importante del recente passato, un uomo diventato testimone della rinascita è stato il teologo e pastore Dietrich Bonhoeffer. La prima domenica dopo Pasqua del 1945, era l'8 aprile, egli ha interpretato proprio il nostro brano.

Era in viaggio con altri detenuti da Buchenwald a Flossenbuerg. Il trasporto detenuti si ferma a una scuola e Bonhoeffer chiede di poter fare una meditazione sul versetto Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti.

Prima che egli avesse potuto fare una meditazione anche a dei detenuti che aspettavano in una seconda aula, Bonhoeffer venne trasportato via. Bonhoeffer si congeda in una nota dall'amico vescovo di Chichester, George Bell: questo per me è la fine, ma anche l'inizio. Un giorno dopo, Bonhoeffer venne giustiziato poco prima dell'arrivo dei liberatori. Anni dopo un detenuto sopravvissuto dice di lui: aveva una speranza salda.

Sulla speranza Bonhoeffer scrive: se già le illusioni umane hanno un potere forte, in modo da poter far girare il mondo, quanto più grande è un potere di una speranza salda, perciò non è una vergogna sperare, sperare senza limiti.

E' questo il messaggio centrale della prima domenica dopo la Pasqua. Vivere nella speranza, avere un orizzonte aperto per agire concretamente nel mondo e non farsi sopraffare dalle avversità, perché il Signore è risorto.

Or il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.

Jens Hansen

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Apprendo con tristezza la notizia della morte di Papa Francesco.

Sono triste perché con nessun altro Papa ho avuto il privilegio di avere contatti diretti: ero presente quando ha fatto visita alla chiesa Valdese di Torino il 22 giugno 2015, pochissimi giorni dopo la pubblicazione della sua Enciclica “Laudato Sì”, ed ero presente quando il nostro esecutivo nazionale, la Tavola valdese, è stato ricevuto in udienza privata il 5 marzo 2016. Due incontri che mi hanno fatto conoscere l’uomo di fede e di umiltà e mi hanno in certo senso aperto anche un orizzonte nuovo di lettura dei suoi documenti.

La “Laudato Sì”, la vedo come programma di un Papa che non ha mai nascosto il lato veramente evangelico del suo ministero, cioè la sua vicinanza agli ultimi e alle ultime della terra insieme alla grande sensibilità per il Creato. La spiritualità ecologica e il mettere insieme ecologia ed economia, perché entrambe chiamate a gestire la casa comune, sono pensieri su cui l’umanità dovrà riflettere e agire per non perdersi.

L’esortazione apostolica “Laudate Deum” ha dimostrato con quanta urgenza Papa Francesco vedeva la necessità di agire e di contrapporsi con il coraggio della fede alle correnti negazionisti e quanti frenano una politica per gli ultimi e il Creato.

Dalla Enciclica “Fratelli tutti” mi ricordo la lucida analisi profetica in merito alle piattaforme di rete, il cui “funzionamento ... finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio.” (Fratelli tutti, 45)

L’impegno per la pace, seguito con insistenza dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e il genocidio in atto in Palestina, da una direzione in cui il mondo di oggi si deve muovere, direzione opposta, contro corrente a quanto oggi vogliono farci credere “normale”.

Jens Hansen

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