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Pastore delle chiese metodiste di Udine e di Gorizia

Predicazione su 1 Corinzi 11,23-26

Quando il Papa è stato a Torino in chiesa valdese qualche anno fa, nel suo discorso diventato famoso per il perdono chiesto, ha anche affrontato la questione della Santa cena e della cosiddetta ospitalità eucaristica.

Cito direttamente il Papa: “Tra i molti contatti cordiali in diversi contesti locali, dove si condividono la preghiera e lo studio delle Scritture, vorrei ricordare lo scambio ecumenico di doni compiuto, in occasione della Pasqua, a Pinerolo, dalla Chiesa valdese di Pinerolo e dalla Diocesi. La Chiesa valdese ha offerto ai cattolici il vino per la celebrazione della Veglia di Pasqua e la Diocesi cattolica ha offerto ai fratelli valdesi il pane per la Santa Cena della Domenica di Pasqua. Si tratta di un gesto fra le due Chiese che va ben oltre la semplice cortesia e che fa pregustare, per certi versi – pregustare, per certi versi – quell’unità della mensa eucaristica alla quale aneliamo.”

Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti. L’usanza di scambiarsi il pane e il vino ha preso piede anche in molte altre chiese. Inoltre esiste un gruppo nazionale sulla ospitalità eucaristica che sperimenta forme e le pubblica in una rivista mensile.

Grandi passi. Che però non possono nascondere che il percorso sarà lungo e lento. Tutti i passi però fanno pregustare, come diceva il Papa, l’unità alla mensa eucaristica.

Abbiamo quindi degli sviluppi. Non è più così radicale e netta la divisione come era una volta: noi invitiamo tutte e tutti, ma quando andiamo in chiesa cattolica, non possiamo prendere l’eucarestia. Oggi ciò in alcune chiese è già possibile.

La cena del Signore fino a pochi anni fa era un pomo della discordia, anche fra protestanti. Immaginate, le chiese protestanti si dividono fin dall’inizio sulla cena del Signore.

Nel 1529 a Marburgo si incontrano Martino Lutero, Ulrico Zwingli e probabilmente anche Giovanni Calvino.

Riescono a superare molte differenze teologiche, ma, arrivati alla Santa Cena, le idee sono troppo diverse e la Cena è troppo importante per scendere a compromessi.

Ecco cosa succede lì a Marburgo: sono tutti insieme attorno a un grande tavolo: Martino, Ulrico, Giovanni e tutti i loro amici e conoscenti. Parlano della Santa Cena, almeno all'inizio, perché dopo poco tempo scoppia una bella lite fra loro. Non si trovano affatto d'accordo sulle parole dette da Gesù durante la sua ultima cena.

Soprattutto fra Martino e Ulrico la lite fa delle scintille. Giovanni invece ha lasciato i suoi amici dopo l'inizio della discussione, non sa cosa pensare di tutto ciò.

“Questo è il mio corpo, è scritto qui!” grida Martino con la testa rossa che gli sembra voler scoppiare. “E se qui è scritto 'questo è il mio corpo' vuol dire che è il suo corpo. Basta!” Per sottolineare ciò che dice, Martino scrive la parola greca “è” sul tavolo e la sottolinea ben tre volte. Ulrico non ce la fa più. “Ma quanto è di testa dura Martino”, pensa, respira profondamente e spiega: “Te l'ho detto 1000 volte, Martino, e, chinandosi verso Martino come se volesse far arrivare parola per parola alle orecchie di suo amico, scandisce: “Gesù con queste parole non voleva dire che ogni volta che mangiamo il pane e beviamo un sorso del vino essi diventassero il suo corpo e il suo sangue. Gesù parla in modo simbolico: ogni volta che mangiate e bevete io vi sono così vicino come lo è il cibo che prendete e che poi si unisce inseparabilmente con il vostro corpo. La cosa importante è che in quel momento ci ricordiamo di lui e di ciò che egli ha fatto per noi ...”

Ulrico viene interrotto. Martino si alza di scatto, prende le sue cose ed esce dalla stanza. Prima di chiudere la porta si gira un'ultima volta dicendo: “Così non troviamo mai un accordo!” Guarda tutti i suoi amici, con un misto di rabbia, compassione e tristezza, chiude la porta, la discussione è finita.

Solo nel 1973 con la Concordia di Leuenberg, quindi 444 anni dopo questa bella lite, le Chiese Luterane e Riformate aprono reciprocamente la mensa del Signore all'altra chiesa. Di fronte a questi 444 anni la discussione della intercomunione con la Chiesa Cattolica è giovane. Facciamo frutta l’arte che ha portato alla comunione di Leuenberg: non lasciare che le diversità portino alla divisione. Trovare una comunione nonostante o forse proprio nelle differenze senza escludere nessuno. A Paolo di cui sono le righe che abbiamo letto, piacerebbe sicuramente trovarsi insieme attorno alla tavola della santa cena. Per l’Apostolo era importante, nella Cena del Signore, superare le divisioni e unire le persone.

Tuttavia, a Corinto non erano problemi teologici a monte delle divisioni. Ai tempi di Paolo si trattava di differenze sociali. Le differenze sociali non dovevano impedire la comunione, la Santa cena doveva costruire ponti, perché in Cristo non contano le differenze.

Non si trattava di un egualitarismo estatico, ma di colmare le barriere esistenti nella realizzazione di ciò che Gesù con la sua vita e morte ha lasciato ai suoi discepoli. È vero anche oggi. E tutti dobbiamo chiederci, se nell'oscurità del Venerdì Santo e nella luce del mattino di Pasqua tutte le convinzioni teologiche non dovrebbero essere messe da parte. Ma non solo. Ogni volta che celebriamo la Cena del Signore, lo spazio in cui ci troviamo diventa senza limiti. Ogni volta che entriamo in un angolo del Regno di Dio mentre ci riuniamo attorno al tavolo della Santa cena. Ogni volta la croce, ma anche la risurrezione è parte della celebrazione. Pane e vino sono più che semplici prodotti da forno e uva pigiata.

Tutto il resto perde importanza di fronte alla memoria degli eventi della sera, quando Gesù fu tradito e catturato, perde importanza di fronte alle parole recitate che Paolo stesso ha ricevuto e ricorda ai Corinzi e noi qui di nuovo: il mio corpo, il mio il sangue. A chi importa della denominazione?

Celebriamo la Cena del Signore come evento che apre gli orizzonti, abbatte le divisioni e crea unità.

Ed è per questo che si apre la cena anche ai bambini. Intanto non siamo l’unica chiesa che fa fare la comunione ai bambini.

La chiesa ortodossa da il pane della cena del Signore ai neonati appena battezzati. La chiesa di Roma aspetta la prima comunione. Nelle nostre chiese vigeva la regola che ci voleva la conferma, quindi un adeguato tempo di catechismo per avvicinarsi.

Oggi si vede il carattere inclusivo della Cena e si cerca di includere anche i Bambini. Amen.

Jens Hansen

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Predicazione su Giovanni 18,28-19,5

Ore 15. L'ora nona. È insolitamente buio e Pilato fa accendere qualche altra luce. “Non riesci a vedere la mano che hai davanti agli occhi”, scherza la moglie, che ha preso posto accanto a lui davanti a una tavola riccamente imbandita. Sembra stanca. È stata una lunga giornata e non ha dormito bene.

Nello stesso momento, non lontano da loro, uno dei tre crocifissi pronuncia la sua ultima parola sotto un cielo nuvoloso. Invoca il suo Dio. Poi muore.

Anche la sua sorte diventerà un argomento alla tavola di Pilato, perché ora la padrona di casa chiede al marito: “E – com'è andata la giornata?

Pilato si sfrega la fronte. Dice: “L'intera giornata è stata incentrata su un predicatore ebreo chiamato Gesù di Nazareth. In realtà non volevo dedicare molto tempo a lui. Lo volevo solo mandare via insieme ai suoi accusatori. Lasciare che decidessero loro stessi su di lui. Ma si trattava di una rivolta e di un reato capitale. Quindi non avevo scelta. Poi ho parlato con questo Gesù. Egli mise sfacciatamente in dubbio il mio potere. Questo potere mi era stato dato solo dall'alto. Con “dall'alto”, però, probabilmente non intendeva Roma, ma il Dio giudeo. Questo Gesù aveva comunque una strana idea del potere e del dominio. Era un re, ma il suo regno non era di questo mondo. Quindi non era interessato al potere politico in quanto tale, ma a qualche rozza fantasia religiosa che non capivo bene”.

Pilato racconta che all'inizio non gli importava nulla di tutta la faccenda e che poi è stato colto da uno strano senso di giustizia. Aveva cercato di far assolvere questo Gesù. Non voleva semplicemente far passare un'accusa così ingiusta.

E racconta come alla fine fallì: gli influenti giudei lo avevano sfacciatamente minacciato che lo avrebbero accusato di infedeltà all'imperatore se avesse rilasciato Gesù. “Erano decisi a vederlo crocifisso”. “Non è strano?”, dice la moglie di Pilato dopo aver riflettuto un po'. “Tu hai interrogato questo Gesù. Sei un governatore. Dotato di molto potere e non timido nell'usarlo per far fare alla gente la tua volontà. Sei un uomo libero. Ben lontano dal rango dei prigionieri o degli schiavi.

Eppure, alla fine, avevi le mani legate. Dovevi ballare al loro ritmo. Questo Gesù di Nazareth invece: è alla tua mercé. Arrestato e minacciato di morte. Eppure ha conservato la sua libertà. Che cosa ti ha detto “Il mio regno non è di questo mondo”?

“È proprio così che si è comportato. Come qualcuno che distaccato dalle costrizioni di questo mondo. Come qualcuno che ha qualcosa di completamente qualcosa di completamente diverso e, comunque vada, se lo tiene stretto”.

“Si preoccupava della verità”, dice ora Pilato. Gesù di Nazareth gli aveva detto che era per questo che era nel mondo. Coloro che erano di questa verità avrebbero ascoltato la sua voce e lo avrebbero seguito. Pilato prende un altro pezzo di focaccia, poi aggiunge: “Uno strano motivo per prendere la morte su di sé. Probabilmente quest'uomo avrebbe potuto ancora potuto salvarsi. Avrebbe potuto dire che avrebbe ritrattato. Non avrebbe voluto fare confusione e si sarebbe ripreso tutto. Ma chiunque venga nel mondo per portare la verità probabilmente si aggrappa anche a qualcosa di simile alla verità. – Che cos'è la verità? Gli ho detto. E credo che abbia capito che io trovo che penso sia piuttosto folle morire per una verità quando si può semplicemente cedere un po' e modificare un po' la propria verità. modificare la propria verità. Verità – che cos'è?”.

“Non voglio fare filosofia”, risponde la moglie, ”ma non pensi che potresti averlo detto solo per legittimarti? Non hai preso una decisione su di lui in base a ciò che ti sembrava vero, altrimenti ora sarebbe in giro o impegnato a preparare questa Pasqua ebraica.

Fin dall'inizio hai evitato di esprimere un giudizio chiaro su di lui. Inoltre, hai espresso il tuo giudizio non come una decisione personale, ma come un male necessario. Ma anche chi non prende una decisione prende una decisione. Se non prendi una decisione, una decisione viene presa per te. Non so molto di politica e di potere, Pilato, ma è così che deve essere, o le tue parole avrebbero salvato una vita e ristabilito la giustizia?”

Pilato si difende: “Ho provato tutto. Ho detto apertamente agli accusatori giudei che non vedevo alcuna colpa. Ho persino ricordato loro la tradizione di liberare un prigioniero durante la Pasqua ebraica, dando così la possibilità di abbandonare il loro piano. Non avrebbero perso nemmeno un po' della loro reputazione. Ma è stato un fallimento colossale. Ne approfittarono subito per far uscire di prigione un terrorista.

Ripetei ancora una volta che non avevo trovato alcuna colpa in lui. Portai ancora una volta Gesù davanti ai suoi accusatori. I miei soldati lo avevano già picchiato duramente. 'Ecco, che uomo!' dissi loro, sperando che lo guardassero davvero, questa povera e bizzarra figura che non doveva in alcun modo essere una minaccia per loro”.

“A volte mi chiedo”, dice sua moglie, ”se è questo che manca al mondo. Che guardiamo davvero, che vediamo davvero gli altri come persone. Il povero verme che sta davanti a te come prigioniero, torturato e minacciato di morte è un essere umano fatto di carne e sangue come te e me”.

Pilato risponde: “Un bel pensiero, ma impossibile, mia cara. 'Ecco, che uomo! Se lo dicessimo ai combattimenti dei gladiatori, non ci sarebbero più combattimenti, anche se i gladiatori stessi sono spesso molto orgogliosi di sé nonostante la paura della morte.

Ecco, che uomo! Se lo prendessimo sul serio prima che qualcuno invada un territorio senza tenere conto delle persone che lo abitano, allora non ci sarebbero più conquiste. Cosa sarebbe Roma senza conquiste? Ecco, che uomo!”. Se dovessimo prendere sul serio questa affermazione, quando un altro potente mette a tacere un avversario politico o lo elimina completamente, allora nemmeno l'imperatore sarebbe al sicuro dal giudizio del mondo. No, alla fine non è quello che intendevo. – Si sta facendo tardi. Parliamo di qualcos'altro domani”.

Con queste ultime parole, si alza e lascia la moglie a tavola. Più tardi, quella sera, Giuseppe d'Arimatea si presenta a Pilato e lo prega di permettergli di seppellire il corpo del crocifisso Gesù di Nazareth. Pilato è sorpreso, lo permette e poi va a letto. Ma quella notte egli stesso dorme male. Sogna di trovarsi da solo in una stanza vuota. Una vastità indefinibile lo circonda. Come se non fosse del tutto se stesso, si vede dall'alto. “Un povero verme”, pensa Pilato nel suo sogno. E poi sente una voce forte in lontananza: “Ecco, che uomo!”.

Abbiamo accompagnato Pilato e sua moglie per un po'. È un gioco mentale. Non sappiamo come Pilato stesso abbia pensato in seguito alla sentenza che aveva emesso, anche se i Vangeli ne danno accenni e diverse leggende al di fuori dei Vangeli trattano l'argomento. Come il dialogo tra Pilato e sua moglie anche il dialogo tra Pilato e Gesù affronta grandi temi della vita. Si tratta di libertà, verità e umanità.

Libertà e verità vanno di pari passo. Gesù, il prigioniero che in realtà è libero, parla a Pilato della verità. Dice: “Sono nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chi è dalla verità ascolta la mia voce”. Pilato, l'uomo libero che in realtà è prigioniero, non vuole sapere questa verità. Risponde: “Che cos'è la verità?” e sembra come noi oggi: di fronte al sovraccarico di informazioni e alla disinformazione, scrolliamo le spalle e diciamo: ‘Che cosa possiamo sapere con certezza?’ Oppure: “Come faccio a sapere se c'è un Dio o no?”. Allora è meglio non occuparsene affatto.

Quando si parla di verità, generalmente si pensa alle scoperte e alle prove scientifiche. La verità di Gesù va ben oltre. Si tratta di qualcosa di più della questione se la terra è rotonda o piatta, o se un'elezione o una prova è falsificata o meno.

Anche se queste domande sono ovviamente immensamente importanti e possono determinare il corso della vita di una persona. La verità di Gesù va oltre.

È fondamentale. La verità per cui è venuto nel mondo rompe la monodimensionalità di questo mondo. È una liberazione da catene che spesso possiamo solo intuire. Laddove la nostra finitezza ci impedisce di fare la cosa giusta, anche se la conosciamo meglio, Gesù spezza queste catene. Perché attraverso di lui la finitezza è superata. Non siamo definiti da ciò che siamo considerati qui sulla terra. La nostra vera umanità contiene molto di più: è caratterizzata fino in fondo dall'amore di Dio. Gesù porta nel mondo la verità tra l'uomo e Dio. Egli incarna la verità della colpa umana e del perdono divino, dell'amore e dell'eternità. Questa verità ci rende liberi. Ci dà la speranza che non è mai inutile agire nel modo che abbiamo riconosciuto come giusto, anche se il mondo a volte lo fa sembrare inutile. Questa verità ci rende liberi, perché parla delle persone come dovremmo vederli realmente.

Jens Hansen

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Predicazione su Giovanni 18,28-19,5

Questo brano offre moltissimi spunti per la predicazione partendo dal fatto che alla fine, e questo mi sembra l’obiettivo dell’Evangelista Giovanni, tutti si lavano le mani: i religiosi consegnano Gesù a Pilato con le parole: «A noi non è lecito far morire nessuno», Pilato si lava le mani e trova la via di uscita in un veloce referendum in cui deve decidere il popolo. Il popolo sceglie Barabba, ma in fondo è indifferente, uno deve pure morire.

Tutti si lavano le mani. E varrebbe un sermone intero per guardare meglio questa catena di lavaggio delle mani e forse anche della coscienza.

Io invece vorrei fermarmi su due parole di Pilato, visto che l’incontro di Gesù con Pilato è proprio al centro dei nostri versetti: «Che cos’è verità?» e «Ecco l’uomo!».

1. Che cos’è verità?

Pilato disse: «Che cos’è verità?» Pilato forse lo chiede perché l’incontro con Gesù lo ha coinvolto più di quanto avesse pensato prima, lo vedremo poi al secondo punto. Pilato però, a questa domanda, non riceve alcuna risposta. Comunque arriva alla conclusione: Io non trovo colpa in Gesù.

Che cos’è verità? Pilato non lo viene a sapere. Ma anche la storia umana non sembra avere una risposta a questa domanda: Che cos’è verità?

Infatti, verità o non verità è una diatriba di tutti tempi: filosofi, teologi e tanti altri pensatori da millenni cercano di dare una risposta.

Per la gente comune, fino a pochi decenni fa, la verità era una cosa veramente accaduta. Ciò che si vedeva nella Televisione o si leggeva nei giornali era vero, perché reale, raccontato come accaduto, portato da giornalisti nelle nostre case via etere. Verità è se il racconto combacia con l’accaduto.

Semplice, ma per le generazioni fino agli anni 80 era così. E questa idea di verità, cioè di cose realmente accadute, si faceva spazio anche nelle letture della letteratura antica, ma soprattutto per la Bibbia. Abbiamo spesso applicato l’idea del racconto biblico come un racconto realmente accaduto senza tenere conto che chi raccontava aveva un’idea completamente diversa di verità, cioè che ciò che veniva raccontato non per forza doveva essere reale nel nostro modo di pensare e di vedere le cose.

Dagli anni 80 in poi però, la questione della verità vista come realtà, cambia. Il sociologo e teorico dei mass-media statunitense Neil Postmann ci ha messo in guardia davanti al fatto che ciò che la televisione ci presenta non per forza dev’essere vero nel senso reale. Postman infatti si pone il problema che per una persona normale è difficile verificare se le cose stanno veramente come raccontato dalla televisione.

Infatti, Postmann dice che nei telegiornali le notizie sono volutamente messe in fila senza una logica, perché così è impossibile verificare.

Oggi più che mai sappiamo che non ci possiamo fidare della Televisione e nemmeno di ciò che ci viene raccontato dai social media, cioè Facebook, Twitter e pure youtube. Non solo non possiamo più controllare nel mare delle notizie se una notizia è vera o no, ma siamo inondati di fake-news, meglio: di notizie false volutamente messe in giro, una volta si chiamavano bugie.

Oggi le fake-news servono alla politica, Trump è uno che mette in giro notizie false per screditare i suoi avversari, e se ci mettessimo a controllare la verità dei tweet dei nostri politici che talvolta soffrono di bulimia virtuale, vedremmo quante bugie sono in giro, ma soprattutto che tutto il sistema si basa su bugie, su notizie false.

Dalla fiducia nei mass media come TV e giornali siamo arrivati a dover ammettere che meglio non fidarsi e non cadere nelle trappole delle fake-news, delle bugie diventate socialmente accettate e utilizzate per il proprio vantaggio. E come non caderci, se pure giornalista talvolta ci cascano senza nemmeno fare un controllo.

Nella storia la verità invece era spesso vista come proprietà. Io ho la verità. E chi non l’aveva lo ha sentito sulla propria pelle, perché dichiarato eretico, persona senza diritto alla vita.

Insomma, la questione della verità ha tante sfaccettature.

Il Salmista del Salmo 25 prega: Guidami nella tua verità e ammaestrami; poiché tu sei il Dio della mia salvezza.

E così quando la Bibbia parla di verità, la lega sempre a Dio e alla salvezza. Aggiungiamo a questa l’affermazione di Gesù: Io sono la via, la verità e la vita. Gesù non dice “io ho la verità” ma “io sono la verità”.

E allora impariamo che la verità non è un possesso, la verità non è a mia disposizione. Il modo giusto per affrontare la questione della verità è relazione, relazionarsi con colui è la verità. Questa relazione cambia la persona coinvolta.

Pilato ne è un esempio, e lo vediamo alla sua affermazione finale: ecco, l’uomo!

Pilato cambia e noi possiamo cambiare nella relazione con la verità. Possiamo cambiare in modo che non la vediamo più come possesso, la relazione con la verità può fare in modo che siamo più critici verso ciò che ci arriva via internet o TV – non per caso il pastore della mia chiesa nativa ci ha insegnato: non prendere mai niente per scontato, provare per approvare. La relazione con la verità ci cambia in modo che anche la nostra relazione con il prossimo e con il Creato cambia e viene integrata nella partecipazione alla verità.

Ma veniamo al secondo punto.

2. Ecco, l’uomo

Ecco, l’uomo, due parole che hanno ispirato pittori, compositori e anche tanti scrittori. Nel nostro brano è il culmine dell’incontro fra Gesù e Pilato. Ciò che per Pilato forse era una domanda filosofica e che poi – l’abbiamo visto – diventa una questione di relazione e cambiamento, va oltre la narrazione di come continua la passione di Gesù.

Nel suo romanzo satirico “il maestro e Margherita” lo scrittore russo Michail Bulgakov dà un ampio spazio all’incontro fra Pilato e Gesù: quando Pilato chiede a Gesù quale fosse il suo messaggio, la figura del romanzo Jeschua afferma: ci sarà un Regno di verità in cui non ci sarà più alcuna violenza. Ed ecco, l’ecco l’uomo, va oltre la questione della relazione della verità e prospetta una direzione che la relazione con la verità può portare. Pilato si ferma qui, non esce dal suo ruolo.

A noi rimane la domanda: ci vogliamo fermare all’ecco l’uomo o vediamo ciò che Bulgakov ha trovato come conseguenza della relazione con la verità? Gesù, andando avanti, continua la sua strada della giustizia, di una nuova legge, quella dell’amore che prende sul serio tutti gli esseri umani, è la via che mette in dubbio il potere che Pilato sembra esercitare, una via dal basso che nella impotenza della croce dimostra la sua forza.

Andiamo oltre all’ecco l’uomo, mettiamoci in relazione con la verità e di conseguenza con gli altri e con il creato, affinché la violenza, l’oppressione, l’emarginazione non trovino più spazio.

Jens Hansen

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Sermone su Giovanni 6, 47-51

Una ventina di anni fa era di moda la dieta del gruppo sanguigno. Era una dieta che si sviluppava sul gruppo sanguigno tenendo conto della storia dei gruppi sanguigni e delle abitudini degli uomini in quel periodo.

Tanto per fare un esempio: il gruppo sanguigno 0 è il primo gruppo sanguigno dell’essere umano da cui derivano tutti gli altri. Esso è il gruppo sanguigno dei cacciatori e raccoglitori, quindi degli uomini non sedentari. Chi ha questo gruppo sanguigno non dovrebbe quindi mangiare tutto ciò che non appartiene alla dieta dei raccoglitori e cacciatori.

Su questo si basa in fondo la nuova dieta al firmamento delle diete, la paleodieta. Invece di basarsi sul gruppo di sangue si basa sulle nostre conoscenze della dieta dei nostri antenati nell’età della pietra e sul corredo genetico, quindi sul nostro DNA. Non il gruppo sanguigno, ma il DNA, i cromosomi dettano quindi ciò che devo mangiare e ciò che dovrei meglio non toccare.

Sostenitori della paleodieta affermano che l’essere umano apparso sulla superficie della terra circa 2 milioni di anni fa, ha avuto oltre il 99% del DNA che abbiamo anche noi. Solo 12.000 anni fa l’essere umano è diventato sedentario cambiando la dieta. 12.000 anni sono pochi per la genetica. Così affermano che dobbiamo mangiare come i nostri antenati del paleolitico. E’ un idea interessante che certamente ci toglierebbe tanti problemi di mezzo come il diabete, le malattie cardiovascolari e altro.

Come la paleodieta o quella del gruppo sanguigno, le diete ormai appaiono e spariscono in un attimo, ciò che ieri era la Dieta con la D maiuscola, oggi non viene più considerato.

L’inflazione delle diete dimostra certamente che è importante cosa mangiamo. Mangiare sano è diventato molto importante nella nostra società. E questo è un bene, perché sappiamo bene che il mangiare è strettamente legato alla nostra salute e a quella del pianeta.

Talvolta però ho l’impressione che il culto delle diete dell’ultimo grido è il diretto erede della nostra fede. Chi oggi dice di aver peccato, in genere pensa ad un pezzo di torta o ad altre cose che avrebbe forse dovuto evitare. Anche nel mondo delle diete ci sono missionari, dogmatici e fanatici. E chi scrive un libro su una nuova dieta, ecco, diventa profeta. Il messaggio: vivi sano. In contrasto con questo culto delle diete sta il fatto che stiamo perdendo la cultura del mangiare e del cucinare. Indagini rivelano che in un nucleo famigliare in Italia in media si sta 37 minuti al giorno in cucina per cucinare i pasti del giorno. E ciò solo grazie a molte famiglie del sud dove si cucina ancora quasi 55 minuti al giorno, mentre al nord spesso vige la pessima “cultura” di comprarsi monoporzioni da microonda. In India invece si cucina 1 ora e 56 minuti al giorno. Parallelamente i pasti in famiglia o con amici consumati insieme diminuiscono.

Anche nei ristoranti non è diverso. La professione del cuoco sta sparendo. Oggi basta saper aprire tetrapak, sacchetti di plastica e altro, riscaldarli ed ecco, il pasto è pronto. Poi questo modo si chiama convenience food.

Eppure mangiare è importante e essenziale come respirare. Mangiare è un bisogno elementare e serve per vivere. Chi non mangia, muore. Perciò è importante riflettere bene sul nostro mangiare. Dare un valore al mangiare. Ma anche qui, parlando di valore espresso in denaro, la realtà non è proprio rosea e sembra contraddire la mania delle diete. Oggi non diamo più valore al mangiare. Sappiamo bene che sarebbe utile mangiare bio e preferibilmente dal commercio equo e solidale. Ma cerchiamo di trovare una scusa che le cose costano. Allora il mangiare non vale e se il mio mangiare non vale, non valgo nemmeno io, perché comprare a buon prezzo significa comprare ciò che mi fa male.

Mentre negli anni 50 si spendeva oltre la metà delle entrate di famiglia nel cibo, oggi non sono nemmeno il 7% e la tendenza di cercare cibo a buon prezzo senza guardare la qualità è in aumento.

Il cibo oggi non vale e ci fa ammalare. Forse per questo abbiamo le varie diete-religione e in internet accanto ai selfie si trovano spesso piatti artisticamente fotografati, forse per questo nella TV trasmettono una trasmissione sul cucinare dopo altra. Il mangiare diventa arte, ma il nutrirsi ogni giorno diventa spazzatura, tempo perso.

Eppure il mangiare, mangiare bene e in compagnia è da sempre strettamente legato anche alla nostra fede. Sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento consumare il pasto insieme era importante, creava comunione fra i commensali e anche con Dio.

Pensiamo solo agli uomini che passano alla tenda di Abraamo per continuare verso Sodoma e Gomorra. Abraamo fa preparare un pasto squisito che crea una tale comunione fra loro e Abraamo che loro alla fine non nascondono ad Abraamo i piani di Dio in merito a Sodoma e Gomorra e Abraamo, dopo un pasto insieme ha il coraggio di iniziare a trattare con loro.

Dio si dimostra il Dio d’Israele dando loro da mangiare nel deserto la manna e le quaglie. Gesù insegna a condividere 5 pani e due pesci, ed ecco tutti si saziano. Nella giovane chiesa l’agape, il pasto consumato insieme, è una caratteristica importante, tanto che Paolo si arrabbia con i Corinzi che c’è chi arriva alla Santa cena a stomaco vuoto e chi con la pancia strapiena.

La cena del Signore ricorda il pasto che Gesù ha fatto con i discepoli prima della sua morte. Dio si fa riconoscere nel semplice gesto di rompere il pane e condividere il vino.

Ed ecco, le parole di Gesù nel nostro testo: io sono il pane della vita … se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Anche qui abbiamo il nesso stretto fra il nutrimento e la vita, ma il livello è diverso. Dietro queste parole non ci sono le promesse pubblicitarie dell’industria alimentare che ci vuole affibbiare lo yogurt o il muesli con aggiunta di vitamine. Qui siamo al centro della vita che va oltre il nutrimento quanto importante esso possa e debba essere per noi. Gesù, autodefinendosi il pane della vita, lega la sua persona a ciò che egli chiama la vita eterna. Qui non si tratta quindi di una nuova filosofia, un nuovo stile di vita o addirittura di una nuova fede.

Gesù si dimostra qui come colui che può saziarci cambiando davvero la qualità della nostra vita. Gesù offre qui una relazione nuova, un legame profondo fra se ed i suoi.

Ciò può sembrarci strano, ma è in realtà una grande liberazione. Perché la vita eterna non dipende da me ma da Gesù, la vita eterna non dipende da quello che sono, ma da Gesù, la vita eterna non dipende da ciò che faccio, ma da Gesù, non da come vivo ma da Gesù.

La vita eterna di tutte e tutti è solo ed esclusivamente legata all’uomo che si è fatto crocifiggere. La vita eterna dipende da colui che ha seguito le orme dell’amore di Dio fino alle ultime conseguenze. Chi riesce a vedere questo amore, chi si affida al Dio d’amore e in Cristo vive una relazione, non deve preoccuparsi della vita eterna.

Ma che cosa è la vita eterna? Il teologo della speranza Jürgen Moltmann dice: la vita eterna è vita terrena amata eternamente. Chi viene amato in eterno vive anche se muore.

E il primo versetto del nostro brano dice: In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna. Gesù non insegna quindi una fede che aspetta la vita eterna dopo la morte, Gesù non trasferisce la questione della vita eterna a una vita dopo la morte che non ha fine, non parla di una realtà al di là delle nostre esperienze.

Così il brano apre tante domande. Se ho la vita eterna, cosa significa per me e per te? La senti, questa vita? E’ un aiuto nella tua vita quotidiana?

Penso che la risposta a queste domande dipenda dal fatto di come intendo la vita eterna. Chi vede la vita eterna solo come esistenza infinita, un’esistenza liberata dalla fragilità, non avrà niente in mano per affrontare la vita terrena, ma perde la vita qui ed oggi perché solo orientato alla vita dopo la risurrezione. Infatti, questa è più una fede in voga nel medioevo dove la domanda centrale dei credenti era: dove trascorro la vita eterna?

Conosciamo la storia: la paura di finire nell’inferno ha fatto sì che molti hanno dato l’ultimo denaro per comprarsi le indulgenze.

Dobbiamo invece capire la parola “eterno” non come tempo senza fine, ma come qualità. Avere qui ed oggi la vita eterna significa sapere Dio vicino, ma non come colui che esaudisce i nostri desideri, ma colui che ci fa capire la vicinanza del suo Regno.

E siccome il Regno di Dio non è un luogo ma un modo di vedere il mondo, siccome il Regno di Dio si realizza laddove si compie la volontà di Dio (venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà!), la vita eterna significa partecipare al Regno di Dio, compiere la sua volontà, vivere il suo amore per tutte le creature. La vita eterna qui ed oggi apre quindi nuovi orizzonti e ci rende sensibili per il prossimo e per noi stesse e stessi. La qualità della vita cambia dove non sfrutto l’altro, dove cambio radicalmente lo stile di vita, dove rinuncio a tutto ciò che nuoce ad altri e alla creazione di Dio. La vita eterna è dove nessuno deve vivere sfruttato, oppresso, emarginato e dove la mia vita è pienamente consapevole del legame che dobbiamo avere anche con la natura.

Solo con la volontà di Dio che è la volontà di vita per tutte e tutti, noi potremo avere una qualità diversa della nostra vita.

E il ruolo della chiesa? Dovremmo essere uno spazio per la nuova vita, per la nuova qualità della vita che Cristo ha già aperto per tutte e tutti.

Abbiamo il grande incarico di parlare del pane della vita alla gente affamata. Per questo la chiesa non può essere un luogo isolato ma si deve trovare in mezzo alla vita della gente.

Come già detto altre volte: la missione della chiesa non è predicare: vieni a Gesù e sarai salvato, ma dire: vedi, Gesù è il pane anche della tua vita, Gesù è morto sulla croce e questa morte ti rende partecipe della vita eterna, cioè della vita nuova qui ed oggi che ti libera da tutte le paure insite nell’essere umano e ti da una nuova prospettiva mettendo in equilibrio l’amore per Dio, per il prossimo e per se stesso.

Possa il nostro messaggio che portiamo nella nostra quotidianità essere un’offerta di vita qui ed oggi.

Jens Hansen

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Sermone narrativo su Geremia 20,7-13

Mi chiamo Geremia, figlio di Chilchia, della città di Anatot, un piccolo villaggio nel territorio di Beniamino, non molto lontano da Giuda e Gerusalemme. Anatot è un nome che forse pochi di voi hanno sentito, eppure, è proprio da qui, da questa terra umile e tranquilla, che la mia vita è stata sconvolta.

Non sono nato in una famiglia di profeti né di uomini potenti, mio padre era un semplice sacerdote e abituato ai rito al tempio di Gerusalemme. Forse sapete che il Tempio era il nostro punto di culto centrale e unico per quanto riguardava i sacrifici. Credevamo che proprio nel Tempio Dio avesse la sua abitazione qui in Terra. C’erano molti riti, tutti circolavano attorno al sacrificio, infatti giorno e notte dal Tempio si vedeva la stele di fumo salire verso il cielo e portare l’odor soave degli sacrifici verso Dio per calmarlo.

Tutto era rituale e perfetto. Il nostro contatto con Dio, così mi insegnava mio padre, si limitava a portare dei sacrifici per purificarci e poter sussistere davanti a Dio. Ma avere contatto con Dio oltre ai riti nel Tempio non era previsto.

Perciò, nel giorno in cui la voce di Dio si fece sentire, la mia esistenza cambiò per sempre. Non chiesi di essere scelto. Anzi, avrei voluto tutto fuorché questo. Ma Dio ha scelto me, e con la Sua chiamata, ha cominciato a scrivere una storia che avrei dovuto vivere, una storia che non avevo mai immaginato, al di fuori del modo in cui vivevo prima la mia religione.

Quando il Signore mi rivolse la sua vocazione, non ero preparato. Ero solo un giovane, un ragazzo senza esperienza, che non aveva mai pensato a grandi cose, che non aveva mai avuto ambizioni particolari.

Mi trovavo nel pieno della mia vita, nei miei sogni di adolescente, quando quella voce interruppe tutto. Il Signore mi chiamò nel tredicesimo anno del regno di Giosia, figlio di Ammon, e subito la Sua parola mi fece tremare. «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni» mi disse.

Non riuscivo a credere a ciò che stavo udendo. Era come se il mio mondo fosse stato capovolto in un istante, come se una realtà che avevo sempre conosciuto fosse improvvisamente scomparsa, lasciando al suo posto solo una grande confusione, perché finora Dio per me era relegato al tempio e basta. Non pensavo che potesse parlare a me. Certo, nei rotoli sacri Mosè aveva contatto diretto con Dio, ma erano altri tempi. Oramai eravamo liberati dalla schiavitù e avevamo la nostra terra promessa e sacra. Avevamo, in fondo siamo solo noi, le tribù di Beniamino e Giuda, perché le altre sono state deportate dagli Assiri oltre 100 anni fa e non sono mai tornate.

In quel momento in cui Dio mi parlò, il mio cuore era un groviglio di emozioni e di pensieri. Sentivo un peso enorme sulle spalle, una chiamata che non mi faceva sentire speciale, ma piuttosto schiacciato, spaventato.

Non c'era nulla di glorioso in questo compito. La mia mente non riusciva a concepire come un ragazzo come me, senza esperienza, senza forza, potesse portare il peso di un messaggio così grande.

Come avrei potuto annunciare la fine di Gerusalemme? Come avrei potuto dire al popolo che Dio li avrebbe giudicati e che la loro rovina era imminente? Io, così giovane, senza autorità, senza supporto, come avrei mai potuto farlo? Cosa avrebbe detto mio padre che di Dio si sarebbe dovuto intendere?

Il dubbio mi assaliva. Mi sentivo insignificante di fronte a quella chiamata. «Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo» dissi, con la voce tremante, tentando di respingere quella responsabilità che mi stava schiacciando. Mi sembrava di essere inadeguato, fragile, incapace.

La paura mi divorava, e la sensazione di non essere all’altezza di una simile missione mi paralizzava. Come potevo andare avanti con questa chiamata? Come potevo affrontare la violenza del mondo con la mia voce tremante e il cuore pieno di incertezze?

Ma la risposta che mi diede il Signore non fu un conforto nel senso che mi aspettavo. Non mi disse che sarebbe stato facile, non mi promise che sarei stato compreso. Mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò e dirai tutto quello che io ti comanderò. Non li temere, perché io sono con te per liberarti»

Non c'era spazio per le mie giustificazioni. Non c'era spazio per le mie paure. C’era solo la Sua volontà, che mi spingeva ad obbedire.

Non riuscivo a liberarmi di quella sensazione di essere troppo giovane, troppo fragile. La mia mente si riempiva di domande. Come avrei potuto affrontare le dure parole che mi sarebbero state rivolte? Come avrei potuto dire che Dio avrebbe punito il popolo, che la città sacra sarebbe stata distrutta, che tutto ciò che avevamo conosciuto sarebbe crollato?

Il pensiero di affrontare i miei compaesani, i sacerdoti, il re, mi riempiva di orrore. Sapevo che non avrebbero mai voluto ascoltarmi, che avrebbero visto in me solo un ragazzo senza esperienza. Eppure, quella voce non smetteva di risuonare, insistente, imperiosa.

In quei momenti, il mio spirito era dilaniato. Da una parte, sentivo il peso della chiamata. Dall’altra, mi sentivo schiacciato dal timore di non essere capace, di non poter compiere ciò che mi veniva richiesto. Non ero pronto. Non ero forte. Non ero esperto.

C’erano altri, sicuramente, che avrebbero potuto farlo meglio di me. Eppure, Dio mi aveva scelto. Quella consapevolezza mi sovrastava, mi faceva sentire impotente. Le sue parole mi costringevano ad accettare un destino che non avevo scelto, che non desideravo.

Eppure, c’era un fuoco che mi bruciava dentro, una spinta che non riuscivo a fermare. Non potevo più fare a meno di parlare, di annunciare ciò che avevo visto, ciò che il Signore mi aveva rivelato.

Il compito che mi era stato assegnato era difficile, troppo difficile. Dovevo denunciare la corruzione, la falsità, la disobbedienza del popolo. Dovevo predire la rovina di Gerusalemme, il crollo di un mondo che era il mio mondo, quello che avevo sempre conosciuto.

Dovevo dire loro che non c’era speranza, che la fine era vicina, che Dio li avrebbe puniti per la loro infedeltà. E mentre mi preparavo a farlo, il cuore mi si riempiva di tristezza e di paura. Non volevo essere il portatore di una cattiva notizia. Non volevo essere quello che avrebbe segnato il destino del popolo con le sue parole.

Il mio corpo tremava quando dovevo parlare, e la mia mente era tormentata. Ogni volta che annunciai il giudizio di Dio, sentivo le reazioni del popolo: il disprezzo, la rabbia, la negazione. Mi chiamavano profeta di sventura, traditore della nostra terra.

I sacerdoti e i re mi guardavano con odio, cercavano di zittirmi, di farmi tacere. Ma non potevo. Non riuscivo a farlo. La mia bocca, nonostante la paura, non riusciva a fermarsi. Le parole di Dio mi bruciavano dentro, non c’era modo di controllarle. Come un fiume in piena, la verità doveva essere pronunciata, anche a costo della mia vita.

C’era una solitudine che mi avvolgeva ogni giorno di più. Nessuno mi capiva. La mia famiglia mi aveva abbandonato. Mio padre mi ha cacciato di casa, non ero degno di seguire le sue orme e fare sacrifici al tempio. I miei amici mi evitavano, e il popolo mi disprezzava. Ogni passo che facevo mi portava sempre più lontano dal mondo che conoscevo, e mi avvicinava alla solitudine del profeta, alla solitudine di chi ha ricevuto una chiamata che non può sfuggire, ma che lo consuma dall’interno.

Spesso mi chiedevo perché Dio avesse scelto proprio me, perché non avesse scelto qualcun altro, qualcuno più esperto, più potente, più in grado di affrontare la missione che mi aveva dato. In quei momenti di disperazione, mi veniva da urlare: Tu mi hai persuaso, mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, tu mi hai fatto forza e mi hai vinto; io sono diventato, ogni giorno, un oggetto di scherno, ognuno si fa beffe di me.

“Perché, Signore? Perché mi hai scelto per soffrire così tanto? Perché non hai scelto qualcun altro?” Ma, alla fine, una risposta non arrivò. Eppure, nonostante tutte le mie incertezze, nonostante i miei dubbi, non potevo fermarmi. Non potevo.

E allora, mi ritrovavo a parlare, a predicare, a denunciare la malvagità e la falsità del popolo, ma anche a sperare. Sì, sperare, perché sapevo che, nonostante tutto, Dio aveva ancora un piano. La Sua promessa di restaurare Israele non sarebbe mai venuta meno, anche se il cammino sembrava buio e doloroso.

E così, tra il dubbio e la speranza, tra il dolore e la fede, la mia vita è diventata una testimonianza del difficile cammino di chi obbedisce alla chiamata di Dio, senza sapere come finirà, ma con la certezza che quella chiamata è la vera vita, anche quando tutto sembra andare contro di te.

Ecco il mio cammino. E nonostante i dubbi, nonostante la solitudine, continuo a parlare. Perché, in fondo, non posso fare altro.

Jens Hansen

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In un contesto europeo che attraversa una crisi geopolitica senza precedenti, l'idea di un'iniezione di risorse miliardarie in armi da parte dell'Unione Europea, con Berlino a fare da protagonista, solleva la seria domanda se i nostri governanti sanno cosa fanno e per chi sono chiamati a governare.

Da pastore non posso tacere di fronte a un così ovvio abuso e misuso dell'incarico di governare.

Il titolo stesso, che evoca la possibilità che la Germania destini fino a 1.000 miliardi di euro alla spesa militare, ci costringe a confrontarci con una delle contraddizioni più evidenti dell'Europa contemporanea: come giustificare la spesa per armamenti, quando parallelamente i diritti sociali, la sanità e l'educazione necessitano di un urgente e sostanzioso investimento? Come sostenere una spesa così ingente e inimmaginabili di fronte a sempre più persone che versano nella povertà?

La proposta tedesca rischia di minare la coesione sociale all'interno dell'Unione, sottraendo risorse vitali per il benessere dei cittadini europei. In un momento in cui milioni di persone lottano contro la povertà, la disoccupazione e la crisi climatica, la priorità accordata alla militarizzazione sembra non solo inopportuna, ma anche eticamente e socialmente irresponsabile. Gli stati membri dell’UE dovrebbero uscire dal loro delirio e capire che le risorse devono essere utilizzate in modo più produttivo per affrontare le sfide sociali e ambientali che minacciano il nostro futuro collettivo.

L'invito che il teologo Jürgen Moltmann ci offre, un invito al “convertire le armi in strumenti di agricoltura”, risuona come un monito profetico. La sua visione è una chiamata a trasformare la “energia criminale” della guerra in un “energia dell’amore” che ci porti a costruire una società più giusta e pacifica.

La vera sfida per l'Europa non dovrebbe essere quella di aumentare l'arsenale bellico, ma piuttosto quella di investire nella prevenzione dei conflitti, nel dialogo, nell'educazione e nella giustizia sociale. In questo, Moltmann ci ricorda che la pace non può essere costruita con le stesse armi che alimentano la violenza, ma solo con la forza della solidarietà e della cooperazione.

Il welfare e la giustizia sociale non sono semplici concetti astratti; sono i pilastri di una società che si vuole definire giusta e sostenibile. Se l’Europa vuole davvero fare la differenza, deve abbandonare la logica che vede nelle armi la risposta alle sue insicurezze. Invece di puntare sulla militarizzazione, l'Europa potrebbe investire in un rafforzamento del sistema sociale, mettendo al centro l’educazione, la sanità, e la creazione di un’economia che rispetti le risorse del nostro pianeta.

In conclusione, la proposta di Berlino appare come una scelta miope, priva di una visione davvero trasformativa per il futuro. La vera sfida non è quella di alimentare la corsa agli armamenti, ma di indirizzare l'energia e le risorse verso la costruzione di un’Europa più equa, pacifica e rispettosa dei diritti di tutti e tutte. Se l'Europa vuole davvero essere un faro di speranza, dovrà scegliere di investire nella pace, non nella guerra.

Jens Hansen

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Sermone narrativo su Giovanni 3, 14-21

Mi chiamo Nicodemo. Sono un fariseo, un uomo che ha sempre cercato di vivere secondo le leggi di Dio. Sono un maestro della legge, e la mia vita si è sempre concentrata su come seguire perfettamente ogni comandamento. Ho sempre pensato che se avessi fatto tutto giusto, avrei trovato la pace con Dio. La perfezione, la purezza, erano gli scopi che mi davo ogni giorno.

Ma più cercavo di fare tutto bene, più mi accorgevo che c'era qualcosa che non andava. Nonostante il mio impegno e la mia dedizione, c'era sempre un vuoto dentro di me. Avevo seguito le regole, ma non riuscivo a sentirmi veramente vicino a Dio. Mi sembrava di essere in un circolo vizioso: dovevo fare tutto giusto per sentirmi amato, ma più cercavo di fare giusto, più sentivo che mi mancava qualcosa di più profondo.

Un giorno, ho sentito parlare di un uomo di nome Gesù. Le sue parole e le sue azioni mi colpivano profondamente, ma non riuscivo a capire tutto. Parlava in modo diverso da qualsiasi altro maestro che avessi mai ascoltato. Non riuscivo a ignorarlo, sentivo che dovevo capire di più. Così, una notte, ho deciso di andare da Lui, da solo, senza farmi vedere, senza far sapere agli altri farisei che stavo cercando Gesù. Forse, pensavo, avrei trovato finalmente le risposte che cercavo.

Arrivato da Gesù, provai a iniziare la conversazione con parole semplici: “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro, perché nessuno può fare questi segni che fai, se Dio non è con lui.” (Giovanni 3,2) Volevo sentirmi dire che stavo cercando la verità, che avevo fatto bene a cercare una risposta. Speravo in una conferma, una risposta che mi dicesse che stavo facendo tutto giusto.

Ma Gesù non rispose come mi aspettavo. Mi disse qualcosa che mi sconvolse: “Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio.” (Giovanni 3,3) Non capivo. Cosa significava “nascere di nuovo”? Avevo vissuto tutta la mia vita cercando di fare il giusto, cercando di obbedire perfettamente alla legge di Dio. Ma ora Gesù mi parlava di qualcosa che andava oltre tutto ciò che avevo imparato: un “nascere di nuovo”. Non riuscivo a capire. Come si fa a nascere di nuovo?

Iniziai a pensare che forse stavo fraintendendo. Forse avrei dovuto fare di più, sforzarmi di essere più devoto. Eppure, qualcosa dentro di me mi diceva che c'era qualcosa di più profondo nelle parole di Gesù, qualcosa che non riuscivo a cogliere.

Gesù continuò a spiegarmi che si trattava di una “nascita dallo Spirito”. Non parlava di un cambiamento esteriore, ma di una trasformazione interiore. Non era qualcosa che avrei potuto fare da solo, non era qualcosa che dipendeva dai miei sforzi o dalle mie azioni. Era un cambiamento che veniva da Dio, non da me. Gesù mi stava dicendo che il mio valore non dipendeva da quante leggi riuscivo a rispettare o da quanto fossi perfetto nel mio comportamento, ma da qualcosa di più grande: l’amore di Dio.

Mi parlava di un amore che non dipendeva da quello che facevo, ma che mi veniva donato. Mi stava dicendo che, se volevo davvero vivere, dovevo smettere di cercare di essere perfetto e accogliere un amore che era già lì, pronto ad accogliermi. Non dovevo fare qualcosa per essere amato da Dio, dovevo solo aprirmi al Suo amore.

E poi Gesù fece un'altra rivelazione che mi sconvolse: mi parlò del serpente di bronzo che Mosè aveva innalzato nel deserto, e mi disse: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna.” (Giovanni 3,14)

Era un riferimento alla sua morte sulla croce, ma io non riuscivo ancora a comprendere pienamente. Gesù mi stava dicendo che sarebbe stato innalzato sulla croce per noi, non per punirci, ma per offrirci la vita. E, in quel momento, ho iniziato a capire che l’amore di Dio non è qualcosa che dobbiamo conquistare, ma un dono che ci viene dato senza condizioni. Gesù, con il suo sacrificio, mi stava mostrando che l’amore di Dio è più grande di tutte le leggi, di tutti i sacrifici che possiamo fare.

E fu in quel momento che Gesù mi disse quelle parole che avrei ricordato per sempre: “Poiché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.” (Giovanni 3,16) Non dovevo più vivere nella paura di non essere abbastanza. Non dovevo più cercare di fare tutto giusto per guadagnarmi l’amore di Dio. L’amore di Dio è già lì, offerto gratuitamente a me, a tutti noi, indipendentemente dalle nostre azioni. Gesù stava dicendo che basta credere in Lui, basta accogliere quel dono d’amore che Dio ci offre. Non è questione di quanto siamo bravi, ma di quanto siamo disposti ad accogliere l’amore che ci viene dato.

Mi sentii liberato. Per la prima volta, capii che non dovevo più cercare di essere perfetto. L’amore di Dio non dipende da quanto cerchiamo di fare giusto, ma da quanto siamo disposti ad aprirci al Suo amore. E quella notte, per la prima volta, mi sentii veramente in pace con me stesso. Non c'era più bisogno di vivere nel timore di non essere abbastanza. Il mio valore non dipendeva più dai miei sforzi, ma dall’amore che Dio aveva per me.

Guardandomi indietro, capisco che quella notte è stata il momento in cui la mia vita è cambiata. Non avrei mai più vissuto come prima. Ho capito che il vero cambiamento, la vera vita, non viene dal cercare di essere perfetti, ma dal ricevere l’amore che Dio ci offre. Non dobbiamo guadagnarlo, dobbiamo solo accoglierlo. E questo mi ha dato una nuova libertà. La libertà di vivere non più con la paura di fallire, ma con la consapevolezza che Dio ci ama comunque, indipendentemente da quanto siamo perfetti.

Mi sono liberato dalla costante ansia di dover essere il migliore, il più bravo. Ora capisco che non è ciò che faccio che mi rende amato da Dio, ma ciò che Dio ha fatto per me, attraverso Gesù. La mia vita ora ha un nuovo significato, una nuova direzione. Non cerco più l’approvazione degli altri, e non cerco più di essere perfetto per sentirmi accettato. Perché so che Dio mi accoglie così come sono.

Ora posso vivere con la pace nel cuore, sapendo che non sono più schiavo della perfezione, ma libero di essere me stesso, amato e accolto. Non c’è più bisogno di dimostrare qualcosa. L’amore di Dio è il dono più grande che possiamo ricevere. E questo amore ci cambia, ci libera dalla paura, ci dà una nuova vita. Da quella notte, ho capito che la vera libertà sta nell’accettare che Dio ci ama per quello che siamo, non per quello che facciamo. E quella libertà cambia tutto.

Jens Hansen

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Predicazione su Luca 10,38-42

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Gesù giunse in un villaggio. L'evangelista Luca inizia così la storia di Maria e Marta. Le due donne erano sorelle e pare che vivessero e gestissero una casa insieme. Luca non ci dice altro su di loro.

Avevano mai incontrato Gesù? O avevano solo sentito parlare di lui? È notevole l'immediatezza con cui Luca ci dice che Marta accolse Gesù. Non era affatto usuale che le donne gestissero la loro casa senza un custode maschio. Accogliere un ospite maschio era quasi sconveniente.

Ma Gesù non rispettò queste regole. Forse aveva viaggiato tutto il giorno e ora desiderava riposare. Forse aveva già sentito parlare delle due sorelle e voleva conoscerle. Accettò senza esitazione l'invito di Marta a recarsi a casa sua. Nella casa, Maria si sedette ai suoi piedi. Tutta la sua attenzione era concentrata su Gesù e su ciò che aveva da dire. Marta invece iniziò a prendersi cura del benessere fisico dell'ospite.

Maria ricorda: “Avevo già visto il gruppo da lontano. Gesù in mezzo a loro. Non riuscivo a crederci: Gesù stava venendo nel nostro villaggio! Poi ho visto mia sorella che camminava verso di lui e l'ho sentita invitarlo a casa nostra. Avrei voluto correre a dire a tutti: “Gesù è nostro ospite!” Ma naturalmente non era il caso. Nel villaggio si mormorava già abbastanza, perché noi due donne gestivamo la casa da sole e non avevamo uomini in casa.

Entrai in casa con Gesù e mia sorella a passo misurato e molto eretta. Non ricordo se i suoi compagni vennero con noi. Forse due o tre, gli altri rimasero altrove. Quando arrivammo a casa, lui si sedette sulla poltrona degli ospiti e io mi sedetti ai suoi piedi. Volevo stargli vicino. Volevo assorbire ogni sua parola.

Solo quando mia sorella interruppe il suo discorso e si lamentò con lui di me, mi resi conto di ciò che avevo fatto. Il posto ai piedi dell'insegnante era in realtà riservato agli alunni maschi. Una donna non aveva il diritto di stare lì. Avevo semplicemente preso posto senza pensarci. Ecco quanto ero impaziente di sentirlo parlare. E lui me lo ha permesso! Non mi ha mandato via. Anche quando mia sorella si lamentò, intervenne in mia difesa dicendo che avevo scelto la parte migliore.

Di solito dividevo le faccende domestiche con mia sorella, ma in quelle ore in cui Gesù era nella nostra casa, non c'era niente di più importante per me che sedermi con lui e ascoltarlo. E spero che mia sorella lo capisca”.

Marta ricorda: “Ero fuori quando Gesù e i suoi compagni si avvicinarono al nostro villaggio. Mi sono avvicinata e l'ho invitato a venire a casa mia e di mia sorella. In quel momento non mi interessava quello che la gente diceva. Sentivo già che sussurravano alle loro spalle: “Ora anche lei accoglie questo Gesù!” La maggior parte delle persone pensava che fosse sconveniente che io e mia sorella ci occupassimo della casa da sole. Naturalmente, avevo già sentito parlare di Gesù. La voce delle sue vicende viaggiava velocemente. L'avevo anche visto una o due volte da lontano. Quando l'ho visto ora, ho capito: oggi voglio occuparmi di lui. Oggi voglio essere presente per lui. Solo il meglio sarebbe stato sufficiente per lui. Ma cosa sarebbe il meglio? Mi girava la testa. Non ero preparata ad un evento di questa portata. Dovrei mettere in tavola qualche focaccia e delle olive? O macellare l'agnello? Sarebbe appropriato, ma richiederebbe molto tempo. Il fuoco in cucina stava per spegnersi, e le lampade a olio dovevano essere rifornite. Camminavo avanti e indietro eccitata, incapace di un pensiero chiaro. Non mi è mai successo sentirmi così. Di solito sapevo sempre cosa fare in casa e da dove cominciare. Cercai mia sorella. Era seduta comodamente ai piedi di Gesù. “Sembra una discepola”, pensai. Poi sono scoppiata. Ero fuori di testa. Io non sapevo da dove cominciare – e lei se ne stava tranquillamente seduta lì.

“Signore, non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Stupita mia sorella alzò lo sguardo. Devo aver alzato un po’ la voce. Lei scosse la testa a bassa voce come per dire: “Oh Marta, lascia perdere. Lascia stare. Siediti con noi. È tutto quello che devi fare adesso”.

Il silenzio dopo il mio piccolo sfogo è stato profondo. Come osavo disturbare Lui con queste faccende domestiche? Ma non potevo rimangiarmi le parole. Rimasi paralizzata e non mi mossi. Ci è voluta una mezza eternità, poi Gesù ha sorriso e ha detto con la voce più dolce: Marta, Marta, tu hai molte preoccupazioni e problemi. Ma una cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte buona; questa non le sarà tolta.

Io sussultai e volevo contraddirlo. Volevo dirgli che anche in questo caso era tipico, che tutti pensavano sempre che preparare il cibo avrebbe funzionato da solo e che l'acqua arriverebbe in casa da sola e che il fuoco sarebbe stato sempre acceso, non c'è bisogno di fare nulla è va tutto da sé. Ma lui mise la sua mano calda sul mio braccio e il mio desiderio di non essere d'accordo svanì nel nulla.

Aveva ragione. Aveva visto le mie preoccupazioni e le aveva prese sul serio. Ha visto quanto il mio desiderio di essere una padrona di casa eccezionalmente brava mi stesse lacerando e mi impediva di vedere ciò che era veramente importante in quel momento: la Sua presenza”.

Ancora Maria: “Ricordo quanto ero confusa. Era successo davvero? Mia sorella aveva davvero chiesto aiuto a lui? Sapevo quanto fosse difficile per lei chiedere qualcosa agli altri. Era così orgogliosa di tenere la casa in ordine senza l'aiuto di un uomo. Io non ero molto brava nelle faccende domestiche.

Tuttavia, la aiutavo il più possibile. Ora aveva superato la sua ombra.

Tuttavia, la risposta di Gesù mi confuse ancora di più. Ho scelto la parte buona, aveva detto. Guardai mia sorella. Come aveva preso questa risposta? Avrebbe sentito che aveva scelto la parte cattiva, anche se lui non l'aveva detto? La sua risposta l'avrebbe fatta sentire inferiore? Fui così felice quando mi resi conto che lei lo aveva capito. Gesù non era interessato di far fare male i lavori domestici necessari. Aveva visto quanti sforzi lei faceva per lui. Ma vedeva anche quanto fosse combattuta e voleva che Marta si sentisse bene per quello che stava facendo.

Per questo non mi mandò via per aiutare mia sorella. È per questo che parlava bene, che io mi sedevo con lui e che assorbivo volentieri le sue parole. Non sapevamo quale fosse il cammino che lo attendeva. Ma ora ero la sua discepola e sentivo che molti altri sarebbero venuti dopo di me”.

Ancora Marta: “Ho parlato spesso con mia sorella di questa visita. Era molto emozionata e continuava a raccontarmi quello che lui aveva detto e come capirlo. Raccontava anche quello che gli altri dicevano di lui e lo muoveva avanti e indietro nella sua mente.

Ero ancora un po' imbarazzata per il mio piccolo sfogo. Le parole di Gesù mi rimasero impresse per molto tempo. Aveva visto me e i miei sforzi.

Nessuno mi aveva mai mostrato tanto apprezzamento. Credo di aver camminato molto più dritto da allora, anche quando spazzo il cortile o riempio le lampade a olio”.

Jens Hansen

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Sermone narrativo su

Atti 16, 9-15

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Mi presento, sono Lidia, Lidia di Tiatiri, una città che conoscete sicuramente, non solo perché è la mia città di origine, ma anche perché è una delle sette chiese di cui leggete nell'Apocalisse di Giovanni: « Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea». La mia città di origine si trova proprio sulla strada fra Pergamo e Sardi. Ai vostri tempi si chiama Akhisar e ha ben 74.000 abitanti, mentre ai miei tempi era molto più piccola.

Come me, Lidia, a Tiatiri e in tutta la zona che porta il mio stesso nome, ci sono moltissime donne che si chiamano come me. Sono donne di umili origini, alcune anche schiave. È un po' come da voi, dove certi cognomi hanno le loro origini nel passato, quando veniva dato il cognome “di Dio” o “Spiritosanto” a un trovatello.

Avete indovinato! Sono di origini umili, ma il mio padrone ci ha trattati benissimo e a un certo punto mi ha dato la libertà. La mia città non ha una lunga storia, non come Roma, che è la capitale. È stata fondata da poco più di 300 anni e da allora è diventata un centro di produzione tessile e di lavorazione di metalli. Gli schiavi lavorano il metallo, mentre le schiave sono impiegate nel settore tessile, nella produzione di tende e tappeti, e anche nella lavorazione di stoffe. Ho imparato il mio lavoro da schiava, e non è stato facile, soprattutto tingere la lana. Non potete neanche immaginare quanto pesa la lana quando la tiri fuori dalla botte dove l'hai immersa, e poi per fissare i colori la devi lavare e rilavare in acqua salata.

Quando il mio padrone mi ha liberata, sono partita da Tiatiri. Ho sentito che a Filippi, che è una colonia militare romana e un importante centro commerciale, c'è tanto lavoro. Il mio padrone andava in sinagoga a Tiatiri, lui credeva in un solo Dio che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù, e io imparavo molto da lui.

Arrivata a Filippi, ho cercato la Sinagoga, ma non c'era. Allora ho scoperto che c'era un gruppo di donne, come me, che si incontravano al fiume il sabato. Erano poche, ma tutte impegnate nel tessile, proprio come me. E dato che c'era tanto lavoro, mi hanno insegnato una tecnica per tingere la lana e il lino di un rosso intenso. Usavamo il colore di una lumaca, ma c'erano anche metodi con coloranti rossi di origine minerale. I Romani a Filippi vanno matti per la porpora e una volta al mese passa un commerciante che compra da noi per portare i nostri tessili fino a Corinto.

La porpora è una cosa che rende tanto, e a un certo punto ho potuto mettermi in proprio con la mia attività. Certo, è logorante. La sera dopo un giorno di lavoro sento le mie mani e le braccia, e a volte non riesco più a aprire bene la mano. Però non mi voglio lamentare. Ho una casa dove vivo con altre donne. Alcune lavorano per me, ma non le tratto come schiave. Tanto il mio padrone mi ha lasciato libera e questo per me è un insegnamento importante. Penso che la storia del popolo d'Israele liberato dalla schiavitù in Egitto mi abbia influenzata e non me lo sento di avere delle schiave.

Durante la settimana lavoriamo insieme e il sabato andiamo al fiume a parlare di Dio, la liberazione, i profeti e a volte cantiamo dei salmi e preghiamo. Mi dà la forza riposare e lodare Dio il sabato e lo ringrazio che ci ha donato il giorno libero per riposare.

Ho una casa e sono libera. Credo in Dio, che si è rivelato a Mosè con un nome strano, ma ho capito che questo nome significa che Dio non è lontano e non è un Dio capriccioso come le altre divinità qui a Filippi o anche nella mia Tiatiri. È un Dio con cui puoi parlare. Ci ha dato delle leggi e delle regole che ci aiutano a vivere e a trattare le persone con rispetto. Insomma, ho una vita serena e sono contenta e felice. Solo che con l'avanzare dell'età, ho superato i 35 anni e sento il peso del mio lavoro, talvolta ho un po' di paura, perché non so come fare quando non sarò più in grado di lavorare. Non ho marito né figli, quindi non ho nessuno che possa badare a me quando sarò più vecchia, ma va bene lo stesso. Sono grata a Dio per ogni giorno che mi regala la forza di lavorare e guadagnare abbastanza per vivere.

Un giorno, un sabato di primavera, me lo ricordo ancora bene, mentre cantavamo il Salmo 139, da lontano vediamo arrivare un gruppo di uomini. “Non sono di qui”, penso subito, hanno un aspetto diverso e soprattutto danno l’impressione di aver fatto un lungo viaggio. Questo gruppo di uomini si dirige proprio verso il nostro posto al fiume. Forse cercano anche loro un posto dove riposare, lontano dal trambusto della città, dal ritmo frenetico della vita quotidiana. Infatti, il fiume è un luogo di tranquillità dove la gente come noi donne viene a pregare, a trovare pace e semplicemente a non fare nulla per una volta. Il gruppo si presenta, il più importante di loro si chiama Paolo, dice di essere di Tarso, città che non conosco proprio, dev’essere davvero lontana. “Che strano”, penso, un gruppo di uomini che inizia una conversazione con un gruppo di donne, con noi donne che, nonostante la nostra professione e indipendenza dagli uomini, abbiamo pochi diritti. Non solo iniziano a parlare con noi, vogliono sapere di noi, si interessano di noi che in genere riceviamo poca attenzione se no da chi vuole comprare le nostre stoffe.

Ci ascoltano, quasi lo sento come miracolo. Parliamo a loro della nostra vita, delle nostre speranze e dei nostri sogni. Non so perché, ma racconto tutta la mia storia, la storia di fede, la storia della mia liberazione personale dalla schiavitù.

A quel punto Paolo parla direttamente a me. Dice che anche lui è stato un credente nel Dio d’Israele, un ebreo. Nel corso della sua vita ha fatto un'esperienza che ha cambiato la sua vita ma anche il mondo, parla di un certo Gesù di Nazareth, della libertà a cui lui, il Cristo – come lo chiama ora – lo ha liberato. Paolo ed i suoi compagni lo hanno preso come modello e vogliono vivere secondo le sue azioni e le sue parole, il che significa andare per esempio anche da noi donne che non contano molto nel mondo, emarginate, poco ascoltate e raramente prese sul serio.

In quel momento mi sento come se Dio stesso aprisse il mio cuore. Sento un calore in me e che capisco il passo che Paolo ha fatto dalla fede del mio ex-padrone alla fede liberante del Cristo risorto. Paolo ci dice che siamo tutti stati salvati in Cristo e che già Gesù di Nazareth si è relazionato in modo molto diverso con le donne.

Perciò Paolo ed i suoi hanno deciso di parlare a noi donne qui riunite al fiume. Dice più volte: Non c’è né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù. Un Dio che non fa come noi uomini e donne, un Dio che supera le barriere ed i muri di separazione, un Dio che non esclude nessuno. Allora, insieme alle altre donne, non desideriamo altro che appartenere a Cristo e farlo vedere, chiediamo di essere battezzate.

Una volta battezzata mi viene naturale dire: «Se avete giudicato che io sia fedele al Signore, entrate in casa mia e alloggiatevi».

E’ normale far vedere con l’ospitalità quanto Dio ha fatto per me e a me. E non mi chiedo cosa pensano gli altri vedendo che io donna invito degli uomini a casa mia.

Ho ricevuto una nuova fede, una fede nata dalla conversazione con il gruppo di uomini, nata dall’ascolto reciproco. Questa fede mi insegna di camminare nel mondo con occhi e orecchie aperti, in modo da poter riconoscere dove c'è qualcosa da fare per me.

Solo così mi troverò in situazioni in cui posso fare la differenza, dove le mie idee, le nostre idee e i nostri talenti sono necessari. Io vi auguro questa fede che ha cambiato la mia vita.

Jens Hansen

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Predicazione su Ecclesiaste 7, 15-18

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A volte succedono cose strane! Un giovane che aveva appena preso la patente è stato salvato dalla polizia e da un carro attrezzi dai gradini di una chiesa. Come ha fatto ad arrivare? Beh, aveva seguito senza esitazione le indicazioni del navigatore satellitare, che gli aveva indicato un percorso più breve per arrivare a destinazione.

Una volta invece ho rischiato di finire in un fiume. Tornando da una riunione del Servizio Cristiano a Riesi, avevo intenzione di cambiare strada. Mi stavo seccando di dover sempre passare per Catania e pensavo che ci dovesse essere una strada a ovest dell’Etna che mi avrebbe fatto tornare a Messina. Ho programmato il navigatore e via. A un certo punto, mi ha fatto imboccare una strada sterrata, ma non c'era nulla di cui preoccuparsi: talvolta la strada più breve, il navigatore me la fa fare anche su sterrato. Mi avvicinavo al fiume e, quando il navigatore mi ha detto di voltare a sinistra sul ponte, il ponte non c’era. Era ormai buio pesto e vedevo solo le acque del fiume. Ho fatto quindi retromarcia e ho fatto la solita strada via Catania.

Certo, il navigatore satellitare è utile. Ci indica la strada, ci dà l'orientamento e ci aiuta a trovare luoghi che non abbiamo ancora visitato. Ci dà sicurezza alla guida. È positivo che i navigatori satellitari esistano. Tuttavia, non possono sostituire il pensiero alla guida.

Anche nella vita di tutti i giorni abbiamo dei sistemi di navigazione. Si chiamano principi. La maggior parte delle persone segue alcuni principi o atteggiamenti fondamentali nella vita. Seguiremo regole che abbiamo stabilito per noi stessi o regole che altri hanno stabilito e che riteniamo giuste e adeguate. Ma ha senso seguire queste regole nel bene e nel male?

Alcune persone vogliono essere sempre puntuali e non arrivare mai in ritardo. Ma cosa succede se qualcuno ha bisogno del mio aiuto immediato e io vengo trattenuto da un'emergenza? Cosa è più importante: la mia puntualità o il mio aiuto? Per altri è molto importante non mentire, ma dire sempre la verità. Essere sinceri e onesti. Ma non ci sono anche bugie giustificate? Un esempio è quando un potere criminale chiede alle persone di tradire gli amici. Oppure quando, all'inizio di una diagnosi di malattia, si omettono cose molto spiacevoli; o anche solo la piccola bugia per educazione, quando un interlocutore dice: “Sono contento di essere qui con voi”, anche se preferirebbe di gran lunga bere un bicchiere di vino con gli amici o leggere un libro in pace a casa. Sono bugie giustificate?

E che dire della nostra fede ora? Nel nostro rapporto con Dio? Ci devono essere dei principi, devono valere dei principi e devono essere rispettati. Non è così?

Ve ne siete accorti? Il nostro testo ci pone un grande punto interrogativo. Mi sono chiesto: la Bibbia predica forse un tiepido arrancare nella vita con le sue esigenze? Dovrebbe essere questo il principio su cui basare la nostra vita? Non può essere vero, no?

In ogni caso, dalla Bibbia mi aspetto qualcos'altro: chiarezza e linearità. Contiene i dieci comandamenti e molte altre regole di vita. La Bibbia non esorta forse continuamente alla giustizia? O al contrario: di tenersi lontani dall'empietà e dalla malvagità?

Il libro biblico di Qoelet, da cui è tratto il testo del nostro sermone odierno, è uno dei cosiddetti libri sapienziali, insieme ai Proverbi e a Giobbe. Sono scritti da donne e uomini che hanno osservato molto da vicino il mondo che li circondava.

Poi hanno riassunto le loro osservazioni e le hanno messe per iscritto. Il risultato è stato un insieme di regole di vita. Regole che, se seguite, possono far sì che la vita vada per il verso giusto.

Anche il nostro testo inizia con una constatazione della realtà: “Ho visto tutto questo”. Chi vorrebbe contraddire ciò che è registrato qui come una constatazione? Un uomo malvagio vive a lungo e in pace con la sua malvagità. E viceversa: un giusto perisce a causa della sua giustizia. Anche se non è facile stabilire se ciò a cui si fa riferimento qui è “a causa della sua giustizia” o “per la sua giustizia”. Entrambe le cose sono possibili. La vita ci insegna anche che chi si impegna a vivere sempre secondo i principi della giustizia può fallire miseramente: a causa dei propri ideali, della propria testardaggine, ma anche della realtà della vita.

Che cosa suggerisce il nostro saggio per affrontare questa situazione? Quale consiglio dà il Qoelet? Ebbene, mette in guardia con urgenza dal “troppo”. E anche in questo caso ci lascia senza fiato. Non siate troppo giusti o troppo saggi, per non rovinarvi. È possibile? Si può essere troppo giusti e troppo saggi? La giustizia e la saggezza non sono mai abbastanza. La giustizia e la saggezza sono qualità e comportamenti del tutto positivi e buoni.

Tuttavia, secondo Qoelet, sembra che ci sia un eccesso. È evidente che, quando dà i suoi consigli, ha in mente un certo tipo di persona. Una persona che si attiene scrupolosamente alle leggi religiose, etiche e alle istruzioni dei maestri di saggezza. Egli pensa che questo sia il modo per fare fortuna o almeno vivere a lungo.

Non posso fare fortuna né garantire una lunga vita a me stesso, non posso crearle per me stesso. Non c'è alcuna garanzia in merito. La felicità, il senso, una buona vita arriveranno, oppure no.

C'è un'altra cosa che la persona troppo giusta e saggia dimentica: la vita vera non può essere imprigionata tra due coperture di leggi e regole di vita. Si può vivere solo in modo pratico e concreto, nel qui e ora.

Forse conoscete anche il tipo di persone che Qoelet ha in mente: Quelli che hanno sempre ragione e che vogliono sempre dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato, che hanno una risposta per tutto, anche se non si chiede loro nulla; che vogliono dirmi cosa devo pensare e come devo vivere.

Gesù ha descritto questo tipo di persona nella storia del fariseo e dell'esattore delle tasse: Una persona che pensa di dover osservare scrupolosamente tutte le leggi e che alla fine non riesce a cogliere la cosa più importante: l'umanità.

E dove questo manca, si perisce davvero. Un commentario scrive che la parola che la nostra Bibbia traduce con “perire” significa anche “diventare spoglio, vuoto”. Una persona che si attiene troppo meticolosamente alla lettera diventa vuota, desolata, perché manca di ciò che costituisce la vita: lo spirito, il cuore. Il nostro testo mette in guardia da questo.

Ma naturalmente non dobbiamo nemmeno essere empi e stolti per non morire prima del tempo. Perché ovviamente il testo del sermone, con il suo monito contro una giustizia troppo rigida, non significa che dobbiamo agire in modo eccessivamente ingiusto. Né tantomeno che dobbiamo agire in modo eccessivamente sciocco. Si tratta piuttosto della giusta misura.

Ma qual è la misura giusta? Sentiamo due risposte a questa domanda.

La prima: è bene che tu ti attenga all'una e non lasci sfuggire di mano l'altra. Qoelet ripete così il consiglio che ha appena dato: non essere troppo giusto, non essere troppo saggio, ma anche non essere troppo ingiusto o troppo sciocco. Non essere un cavaliere dei principi, ma nemmeno uno che cerca solo il proprio vantaggio e attraversa la vita con i gomiti in fuori.

Piuttosto, mantenete la giusta misura. Ma qual è lo standard della giusta misura? Lo dice l'ultima frase del nostro testo: chi teme Dio sfugge a tutte queste cose. Chi teme Dio sfugge al pericolo di essere rovinato o di perdere la mente e il cuore. E chi teme Dio sfugge al pericolo di morire prima del tempo. Dio deve quindi essere lo standard per le nostre azioni. Non i comandamenti e le leggi, non i saggi e i consigli saggi e morali della Bibbia, ma Dio stesso.

E questo suona improvvisamente del tutto coerente, perché Dio stesso agisce nel modo raccomandato da Qoelet. Dio può anche deviare dalle regole di base che ha stabilito e decidere spontaneamente in modo diverso da quello che ci aspettiamo. Noè e la sua generazione lo hanno sperimentato. Sì: Dio manda il diluvio perché l'uomo agisce in modo malvagio e corrompe la terra. Ma alla fine della storia diventa chiaro: l'uomo non cambia a causa del diluvio, ma Dio cambia. Egli promette di non permettere che un diluvio si abbatta di nuovo sulla terra.

Anche Giona fa questa esperienza. Viene incaricato da Dio di annunciare la caduta della città di Ninive, capitale degli ostili Assiri. Lo fa – scoraggiato. E alla fine, Dio risparmia Ninive. Dio cambia idea. Con grande disappunto di Giona, che affronta Dio con sfida: “Sapevo che tu sei benevolo, misericordioso, longanime e di grande bontà, e che ti penti del male” (Giona 4,2).

Come apprendiamo dalla Bibbia, Dio non è un cavaliere dei principi. Può, se vuole, deviare dai suoi principi una volta che questi sono stati stabiliti. Può essere misericordioso e benevolo, paziente e di grande bontà, come l'Antico Testamento non si stanca di lodare.

Perché – dice il salmista del Salmo 130 – Se tieni conto delle colpe, Signore, chi potrà resistere?

Perciò la raccomandazione di Qoelet di non essere troppo giusti e non troppo saggi, ma anche non troppo stolti e non troppo privi di Dio, non va assolutamente intesa come un invito a vivere la vita in modo tiepido. Piuttosto, dovremmo trattare noi stessi e le persone che ci circondano secondo gli standard di Dio: misericordiosi e benevoli, pazienti e di grande bontà.

Nella Chiesa dei primi secoli, la preparazione dei candidati al battesimo iniziava in questa domenica. Nelle nove settimane che precedevano il giorno del battesimo nella Veglia pasquale, essi imparavano ciò che dovevano sapere per la loro vita cristiana. All'inizio c'è l'immagine del Dio misericordioso. Questa è la cosa più importante. Spero che questa immagine del Dio misericordioso rimanga nei nostri cuori fino a Pasqua e oltre. E spero che questa immagine aiuti anche noi a essere misericordiosi. Amen.

Nota, la versione audio non sempre combacia con la versione scritta

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