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Il Diario di un sopravvissuto

Essere un sopravvissuto degli anni ’80 significa vivere con un piede in due mondi: quello analogico e quello digitale.
Ricordo ancora il suono gracchiante del modem 56k, un ponte verso un universo allora sconosciuto. Era un mondo in cui la tecnologia era un lusso e la lentezza faceva parte dell’esperienza. Oggi, invece, viviamo in un flusso continuo di notifiche, dove ogni cosa è a portata di click, ma qualcosa sembra essersi perso lungo la strada.


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In epoca odierna dove tutto è oramai digitalizzato, dove bastano pochi click per acquistare un qualsiasi titolo videoludico o sfogliare la propria libreria, io mi chiedo quanto valga realmente un gioco. Non mi riferisco al titolo di per sé, ma al valore intrinseco di ciò che un tempo avevamo in mano, letteralmente parlando. Per i più giovani che in questo momento stanno leggendo, in attesa magari del caricamento del loro battle royal preferito, mi sto riferendo a quel dischetto, quella cartuccia, quella scatola di cartone o quella custodia in plastica che ancora oggi trovano spazio nella mia libreria o scaffale, seppur condivida casa con un’altra persona dove quindi ciò che un tempo era il mio regno ora è il mio angolo. Spesso mi capita di guardare quelle scatole polverose richiamando alla memoria i tempi passati assieme, gli sforzi economici e i segni del tempo presenti su quelle custodie e sulla mia pelle. Sebbene l’articolo possa sembrare un discorso nostalgico di un uomo che rivanga il passato in realtà nasce a seguito di un diverbio avuto in “redazione” riguardo la retrocompatibilità e la sua importanza nel mondo videoludico, dove per redazione intendo la nostra panchina fuori dal bar e per diverbio intendo una quelle allegre parlate ad alta voce che si manifestano dalla terza birra in poi.

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Ci ho pensato un po’ se scrivere o meno questo post, ma alla fine eccoci qui. D’altronde, se il mio blog è un diario semi-aperto al mondo, tanto vale condividere qualcosa di utile e (forse) poco conosciuto. Quindi, ti chiedo: sapevi che puoi leggere ebook, sfogliare riviste e persino tenerti aggiornato con i quotidiani in formato digitale, gratis e in maniera legale?

No, non sto parlando di pirateria o di qualche metodo oscuro. Parlo di MLOL, un servizio che trasforma la tua cara, vecchia biblioteca comunale in una biblioteca 2.0. La cosa bella? Funziona benissimo.


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Luca era un bambino di campagna. Uno di quelli che è difficile trovare nelle grandi città. Pantaloni corti, sporchi è un pò consumati, una semplice t-shirt in tinta unica per niente abbinata al pantalone, scarpe da ginnastica chiuse, dal colore sbiadito, con la suola consumata. Non si lamentava assolutamente dei suoi capi d’abbigliamento, non erano quelle le sue priorità. Avrebbe preferito girare mutande e le scarpette, mamma permettendo. Quelle comode, le sue preferite, quelle più rovinate, quelle che lo hanno accompagnato da sempre, ma che ora non può più indossare. A Luca non interessavano i bei vestiti, i cartoni animati in televisione. A Luca piaceva giocare con gli amici al campetto della chiesa, rincorrersi tra i campi, giocare a nascondino tra le case diroccate, ma sopratutto sedersi sui gradini in marmo fuori casa e vedere la sua collina. Secondo Luca la collina è viva perché cambia ogni giorno. Gli alberi sembrano i capelli della collina, cambiano colore con le stagioni. Ogni tanto in inverno indossa un cappotto bianco, simile a quello che gli regalarono i genitori, su sua esplicita richiesta. In autunno, invece, i capelli si tingono di un colore rossastro e, certe volte, non si riesce quasi a vedere dove finiscono i capelli ed inizia il cielo. Per poi diventare verdi e pieni di foglie in estate, la stagione che più piace a Luca, dove aveva la possibilità di stendersi sotto l’ombra e vedere il padre che disegnava la terra. Perché oltre gli alberi, ci sono i terreni che disegnava il padre con il trattore. Linee perfette che viste da lontano, dai gradini di casa sua, diventavano i lineamenti perfetti del volto della sua collina.

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Tu la prendi troppo sul personale. Questa è stata la frase che mi ha detto il mio socio mentre facevamo la nostra corsa quotidiana. Forse ha ragione, ma è da parecchio tempo che sto notando certi atteggiamenti e, più in generale, il modo di concepire internet, ed in particolar modo i social.

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La settimana scorsa stavo aiutando mia nipote a fare i compiti, in particolare una traduzione di un testo in inglese. Lei frequenta il primo anno di scuola media, quindi il livello del testo da tradurre non mi preoccupava minimamente. Durante lo svolgimento, noto che aveva difficoltà nel tradurre una parola. Stavo giusto dandole il tempo per contestualizzare la frase, prima di intervenire, quando lei sentenzia << ehi google, traduci la parola “puddle” >> ed in meno di un secondo continua disinvolta la traduzione. Resto un attimo interdetto dopo quella scena. Prima di tutto perché mi rendo conto che non ha minimamente bisogno del mio aiuto per finire il compito, successivamente per come ha superato una difficoltà incontrata durante lo studio. Mi prendo quindi per tempo per vedere la sua scrivania. Sul tavolo il portapenne che funge da base per tenere il telefono in verticale (sbloccato con lo schermo sempre acceso, per velocizzarne l'utilizzo e vedere le ultime notifiche) libro, quaderno e nient'altro. Il vocabolario ovviamente non serve, cosi come il diario, dispense o appunti aggiuntivi. Tutto sostituito dal telefono.
<< La prof. mette tutto su classroom, non serve prendere appunti o scrivere i compiti per il giorno dopo >> cosi risponde dopo la mia domanda a riguardo.

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Qualche giorno fà ero in macchina con il classico traffico più o meno scorrevole, la radio non ricordo neanche che pezzo stesse passando. Guido sempre con il volume rasente lo zero perché mi piace avere una musica di sottofondo o le voci degli speaker come se fossero lontane, permette di dare la possibilità alla mia mente di pensare ad altro, un modo come tanti per accorciare le distanze o, molto più semplicemente, per parlare con me stesso. Ero quasi giunto alla mia destinazione, l'ultimo paio di rotonde, piccola coda dovuta a dei lavori in corso, e finalmente avrei riabbracciato il mio piccolo. Quell'ometto cresce a vista d'occhio, sembra ieri che a stento riusciva a gattonare ed ora già cammina e sperimenta l'indipendenza. Arrivo allo spiazzo antistante il nido, un parcheggio condiviso dalla scuola materna, una chiesa, le abitazioni ed ovviamente il nido. Ogni volta mi incuriosisce il fatto che ci sia sempre almeno un posto libero ad attendermi, come se non volesse farmi perdere tempo.

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Il velo.

C'è un velo di abnegazione ed ipocrisia nell'utilizzo moderno della tecnologia. Non tanto da parte delle “nuove leve” – adolescenti nati ed immersi nel nuovo contesto tecnologico – quanto quelle persone che hanno vissuto l'evoluzione dei mezzi di comunicazione e, più in generale, della tecnologia stessa.

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