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L'arrogante, sfacciato paradosso del cattolicesimo è ritenere che Gesù sia morto sulla croce per dar vita ad una istituzione, la Chiesa, che è una perfetta riproduzione — anzi: una riproduzione perfino peggiore dell'originale — di quel farisaismo che ha combattuto per tutta la vita. “Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati 'rabbi' dalla gente” (Matteo 23, 4-7). Non è forse del penoso e ipocrita rigorismo cattolico che sta parlando? Non attacca la doppia morale dei cattolici, sempre pronti a condannare gli altri e ad assolvere sé stessi? Non è del fasto disgustoso delle gerarchie ecclesiastiche, degli abiti eleganti e costosi, degli onori richiesti e spesso imposti, delle pagliacciate che offendono l'umano senso di giustizia come il bacio dell'anello eccetera? Non parla del legame tra potere ecclesiastico e potere civile, della presenza di prelati in tutte le cerimonie pubbliche, del monsignore sempre in prima fila? E quando, poco oltre, dice: “E non chiamate 'padre' nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste” (Matteo, 23, 9), davvero è possibile credere senza malafede, senza offendere sfacciatamente la verità, che abbia detto queste parole volendo al tempo stesso creare una istituzione apertamente farisaica il cui capo si fa chiamare papa, ossia padre? Sento già la risposta dei cattolici. La Chiesa, dicono, è una istituzione umana. E delle miserie umane occorre avere comprensione. Ma anche il farisaismo era una istituzione umana. Anche nei confronti del farisaismo bisognava avere comprensione. Ma Gesù non ne ebbe alcuna. Lo attaccò come si attacca il male. Come si attacca una istituzione che deve morire, perché non può venirne nulla di buono. La attacca perché un sale insipido (Matteo 9, 50) va gettato via.

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Fratelli tutti, la nuova enciclica di papa Francesco, dice molte cose belle, buone e giuste. Dice che siamo tutti fratelli, e dobbiamo considerarci e trattarci come tali: e che dunque va condannata la disuguaglianza che constatiamo dolorosamente sia nel nostro Paese che nel mondo. Non ironizzo quando dico che sono cose giuste, anche se leggendola non ho potuto fare a meno di ripensare a quel passo de Il Regno di Dio è in voi di Tolstoj in cui il grande scrittore e pensatore russo – osannato come scrittore, rimosso come pensatore – scrive: “Siamo tutti fratelli, e nondimeno ogni mattina questo fratello e questa sorella fanno per me i servizi che non voglio far io. Siamo tutti fratelli – e nondimeno mi occorrono ogni giorno un sigaro, dello zucchero, uno specchio e altri oggetti alla cui fabbricazione i miei fratelli e le mie sorelle, che sono miei eguali, hanno sacrificato la loro salute; ed io mi servo di questi oggetti, ed anzi li pretendo” (edizione Bocca, Roma 1894, p. 129). E continua con una analisi spietata della miseria della società russa, fondata sull’ipocrisia e lo sfruttamento, con la benedizione di quella Chiesa ortodossa che lo scomunicherà. Ora, sono parole che papa Francesco sottoscriverebbe volentieri. Anzi, più che sottoscriverle, le scriverebbe. E in parte le ha scritte. Ma c’è una differenza essenziale. Il grande scrittore russo cercò – dolorosamente, tragicamente – il passaggio dalla teoria all’azione, la testimonianza, la coerenza tra vita e pensiero. Il papa, fratello di tutti, resta Sua Santità: per quanti tentativi faccia, sarà sempre infinitamente al di qua da quella orizzontalità che consente la vera fratellanza. Sarà padre – Santo padre – ma mai fratello. E la presenza nella società di figure come la sua è il maggior ostacolo alla diffusione di una effettiva cultura della fraternità.

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Prime impressioni sulla enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Mente spudoratamente su Francesco d'Assisi, che è andato tra i musulmani non per cercare la pace e il dialogo, ma a predicare la conversione e a cercare il martirio. E come compagno di strada nella sua riflessione religiosa e politica papa Francesco indica in particolare l'imam (il Grande Imam, lo chiama) Ahmad al-Tayyib. Il quale è noto per le sue dichiarazioni poco compatibili con i diritti umani: dalla proposta di crocifiggere i terroristi dell'ISIS (che si è tuttavia rifiutato di dichiarare eretico) alla giustificazione coranica della violenza sulle donne (testualmente: “Secondo il Corano prima si ammonisce, poi si dorme in letti separati, infine si colpisce”). Ma l'imam ha altre qualità: è contro l'ateismo, il relativismo, il mondo moderno eccetera. Tutte le ossessioni, cioè, degli ultimi papi. E Francesco non fa eccezione.

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Criticando la bioetica della qualità della vita, la lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la dottrina della fede (che un tempo si chiamava Santa Inquisizione) afferma: “Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa”. Ma per la Chiesa la vita che ha valore in sé stessa non è la vita tout court, bensì la vita umana. Questo vuol dire introdurre un criterio qualitativo: è sacra la vita che ha le qualità della vita umana. E quali sono le qualità di una vita umana? La coscienza, la ragione, la capacità di sentire, la libertà di scelta, eccetera. Ora, si danno due casi. Nel primo, si consente la morte di una persona ridotta in stato vegetativo, ossia in una condizione nella quale la vita non ha più le caratteristiche di una vita umana. Nel secondo, si aiuta a morire una persona che, in preda a terribili sofferenze e senza alcuna possibilità di guarigione, chiede in prima persona che si ponga fine alla sua condizione. In questo secondo caso è evidente che questa persona sta esercitando al massimo grado ciò che di più alto c'è in un essere umano: la libertà di scelta, la consapevolezza, la ragione. In entrambi i casi la Chiesa, imponendo assurdamente di vivere e cianciando al contempo di dignità umana, riconduce di fatto la vita umana alla semplice sussistenza biologica, ossia alle condizioni di una vita puramente animale, di cui — con uno dei suoi più vistosi limiti etici — peraltro nega il valore. E a margine occorre ricordare che l'istituzione che oggi pretende di parlare di valore intrinseco della vita umana in passato ha causato la morte di persone che, per le loro idee, avevano una qualità umana che non approvava. E non meriterebbero una sola parola di commento, se non fosse che simili deliri hanno ancora seguito in questo Paese devastato dalla stupidità.

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