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Non vogliamo essere felici. Vogliamo stare in una storia: individuale, collettiva, cosmica. Nulla disgusterebbe più di un romanzo i cui protagonisti fossero, dall'inizio alla fine, felici; e così la nostra vita. La felicità arriverà alla fine, dopo mille avventure; e allora il romanzo cesserà. Terminata la storia, i personaggi escono di scena. Se li si riporta in scena, occorre che accadano altre avventure: nell'Odissea di Nikos Kazantzakis Odisseo dovrà rimettersi in viaggio per non morire di noia accanto a Penelope. Vogliamo una storia. La felicità iniziale, poi la caduta, mille sofferenze, l'esilio, la lotta, la conquista, e poi ancora la perdita, e ancora la lotta, e la speranza, e la riconquista, e la vittoria finale, che sarà domani, non oggi – e un domani che non arriva — non deve arrivare mai. Religione è ridurre il cosmo intero ad una narrazione, sottoporre tutto al potere di una storia. Bereshit è la parola che apre la prospettiva di senso della religione, che è sempre una prospettiva narrativa. E poiché all'altro capo c'è la liberazione finale, ogni religione è minacciata dal non senso: perché non c'è nulla che spaventi di più di una felicità priva di storia. Il Paradiso è anche peggio della morte. Il Paradiso è la dimensione nella quale appare il non senso di Dio stesso, in cui riaffiora la domanda che in realtà nemmeno la storia può tacitare: perché? Ecco, ora siamo ricondotti a Dio, ora siamo con Dio leholam. Ma: perché? Perché è Dio e non piuttosto il nulla? Cos'è questo Dio di diverso dall'essere stesso, da questo enigma per sfuggire al quale ci gettiamo nella storia? La nostra visione del mondo è, oggi, astorica. Il cosmo che ci mostra la scienza non è riducibile a nessuna narrazione. Di qui l'importanza delle filosofie che fin dall'antichità hanno indicato la via di abitare il mondo, piuttosto che ridurlo a una narrazione: le filosofie ellenistiche, Lucrezio, Spinoza ecc. Ma sono filosofie della felicità: e noi non vogliamo essere felici.

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In un giardino un albero troncato: e intorno fioriscono, magnifici, tulipani di diversi colori. Fiorire intorno a un'assenza. Quello che abbiamo da fare qui, più o meno.

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Non c'è nulla che ci aiuti a trascendere il nostro io più che la considerazione della nostra morte, della nostra insignificanza nell'universo, del nulla che ci serra da ogni lato. Ma la religione giunge a rassicurarci: il nostro caro io è in realtà il centro stesso dell'universo, perché Dio lo ama. La religione non è che narcisismo cosmico-storico. Fatta eccezione per la mistica. Che però, quando è autentica, è sempre ateistica: Gott ist wahrhaftig nichts. L'ateo è solo un religioso che ha percorso il cammino fino in fondo.

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La realtà umana si dispiega in forma narrativa, il mondo no. Le religioni cercano di rispondere a questa scissione. Creano storie che cercano di piegare il mondo intero alla forza del racconto.

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L'essere hegeliano è come qualcuno che si svegli un giorno in una stanza, senza sapere nulla di sé o del mondo. Chi sono io? Perché sono qui? Perché sono? Questo essere così tragicamente gettato in sé stesso cerca disperatamente per la stanza tracce di sé: una foto, una pagina di diario. Qualcosa che gli dica chi è, da dove viene, dove va. E lo trova, dice Hegel. Andando fuori, anzi internandosi, dice: e pare di vederlo sorridere, mentre lo scrive. Trova un'essenza che è il suo passato, ma un passato non temporale. Wesen, gewesen. Cosa troviamo noi, sul cui dramma è esemplato quello dell'essere? I più pigri, un fondamento, un'origine — un'essenza, in effetti. Dio, da cui proveniamo. Quelli che non si accontentano di soluzioni illusorie frugano in un intrico di atomi, di cellule nervose, di sinapsi. E scoprono che ciò che è più intimo, ciò che è più proprio, il sé che si sta interrogando e sta cercando ansiosamente la sua essenza, la sua origine, il suo fondamento e la sua ragione, non è nulla di reale; nulla che sia oltre qualche processo fisico, l'azione di qualche meccanismo fisico-chimico-elettrico. Il sé, alla ricerca di un fondamento, vede con sconcerto che il suo stesso interrogarsi è illusorio, perché illusorio è lui stesso in quanto interrogante. Trovata chiusa la porta dell'essenza, è ricacciato verso la prima opposizione: essere, non essere. La prima, tragica consonanza: essere è non essere. E nel fondo del tragico, sente, è a volte la gioia.

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Quello che chiamiamo io è una lucetta che a intermittenza si accende nella stanza di quel che siamo. E ogni volta che è accesa, ha la convinzione illusoria di essere sempre stata accesa e di essere l'intera stanza.

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Per vivere abbiamo bisogno di essere certi del nostro valore. Ma il nostro valore è affermato sempre dagli altri. Per vivere abbiamo bisogno di ottenere in qualche modo che gli altri ci diano valore. Questa è la fonte di ogni angoscia, la ragione della più profonda disperazione, il motivo per il quale, dietro la retorica dell'amore per il prossimo, cova in ognuno di noi un radicale odio per l'altro — l'odio che ogni schiavo prova per il proprio padrone. Un odio complicato, in quelli che sono più consapevoli — e dunque più sofferenti, perché qui auget scientiam auget et dolorem — dal sapere di essere essi stessi carnefici dell'altro, padroni, autori di soggettivazione sociale. È come se il nostro corpo dovesse conquistarsi di continuo, assumendo questa o quella posizione scomoda, l'ossigeno di cui ha bisogno. Potrebbe sopravvivere solo logorandosi giorno dopo giorno. E questo logoramento lento ma implacabile è la nostra vita in quanto esseri sociali — in quanto persone. Procurarsi scientemente la disapprovazione generale è un primo passo per scuotere la catena sociale. Il secondo è liberarsi dall'idea stessa di valore personale.

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Ora. Questa immagine, questa sensazione, questa voce. Un suono. Un dolore. Un piacere. La vita che si dà, ora con una carezza, ora graffiando la pelle. Ora: io che vedo questa immagine, ho questa sensazione, provo questa voce. E dietro tutto questo la mia opacità. Il tempo che passa, la vita che diventa fragile, gli anni che si accumulano e premono. Il fastidio di essere me, l'impressione di essere chiuso in un guscio da cui non posso sfuggire. Qualunque cosa accada, accade a me, e questo rende miserabile qualunque cosa. Miserabile e dolorosa. Basterebbe lasciar accadere l'ora. L'immagine, la sensazione, la voce. Ognuna per sé, così come si presenta. Senza giudizio, senza opacità. Non l'occhio che guarda l'immagine, ma l'immagine che è nell'occhio. Bisognerebbe lasciarsi squarciare dal mondo. Essere io è soffrire. Quale oscura dannazione ci spinge a dire di continuo io?

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Gli altri, in quanto tali, possono offenderci, umiliarci, straziarci, torturarci, perfino ucciderci. Ne hanno il diritto: sono altri, li abita la negazione. Quello che non hanno il diritto di farci è amarci.

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L'io è uno scibbolet, ridicolo e fragile come tutto ciò che è sociale — a story told by an idiot. Quello che sono è un caos che non genera alcuna stella danzante. Un sussurro che cerca di farsi silenzio.

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