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from Gippo

Il successo che le scie chimiche hanno avuto negli anni passati nell'ambito del mondo complottista é sospetto. Al pari dei “terrapiattisti”, i sostenitori delle scie chimiche sono divenuti lo zimbello dei debunker iperrazionali, quell'analoga e contraria corrente di alienati sociali che si oppone con scherno e sarcasmo ai complottisti, credendo patologicamente in un mondo in cui i complotti non esistono. Per questo ho sempre ritenuto le scie chimiche un fenomeno degno di essere indagato. Difatti, a mio avviso, il successo di una teoria può essere l'indicatore della creazione di una forma di “dissenso controllato”, quindi facilmente manipolabile e, all'occorrenza, sacrificabile.

Di cosa parliamo

Ma in cosa consiste l'ipotesi di complotto alla base delle scie chimiche? Molto semplicemente é l'idea che gli aerei nei nostri cieli, in special modo quelli di linea, rilascino, attarverso la creazione di scie, quindi di linee visibili di diversa consistenza nell'atmosfera, una serie di sostanze in grado di manipolare alla bisogna i fenomeni del meteo. La chiamano “geoingegneria climatica”. Per taluni, paranoici piú estremi, l'obiettivo é invece proprio quello di avvelenarci!

Analizziamo il fenomeno

Come approcciarsi al fenomeno per capirci qualcosa? Innanzitutto osservando i cieli. Non si può non esser d'accordo con la considerazione che le scie nei cieli, originate a seguito del passaggio degli aerei, ESISTONO. Talvolta poi mi é capitato di osservare che l'insieme delle scie forma un reticolo che si sfalda fino a formare una sorta di foschia o strato lanuginoso che toglie brillantezza al blu del cielo che invece generalmente si palesa durante una giornata serena e asciutta. La prima domanda é: si tratta di scie chimiche cioé contenenti sostanze velenose e nocive o, piú semplicemente, dedicate ad altri scopi?

Allora, partiamo da un presupposto: il carburante fossile con cui si alimentano gli aerei é una sostanza chimica e, quindi non é aria fresca. Detto questo, analizzare la composizione chimica delle scie mi sembra alquanto dura. Questo porta ad una nuova considerazione: se non sono scie chimiche, sono quantomeno scie di condensazione e questo é lapalissiano e non può essere negato. Giungiamo cosí al nodo vitale della questione: qual é l'impatto delle scie di condensazione, quindi in generale del traffico aereo, sulla nostra atmosfera? Trascurabile? Significativo? Altamente inquinante? Capace di alterare piú o meno volontariamente il meteo di una certa zona? Potremmo cosí immaginare, qualora ciò fosse acclarato, orde di imprenditori agricoli col trattore che rompono i coglioni al governo e il governo che é costretto a strizzare loro l'occhio con pupazzi nominalmente favorevoli al piccolo ceto medio dicendo: faremo, vedremo, limiteremo, la vostra é una protesta sacrosanta ma ecc. Invece no, grazie a Dio se vi lamentate delle scie, vuol dire che vi lamentate solo delle scie chimiche, quindi non avete nemmeno diritto di esistere come esseri umani pensanti.

Conclusioni e ipotesi alternative

Concludendo, il complotto delle scie chimiche consiste essenzialmente nella creazione e promozione di una teoria del complotto alternativa che nasconda il fatto che sono le stesse scie di condensazione ad essere dannose già per conto loro. Come mi raccontò una volta un anziano colonnello dell'aureonautica cui chiesi in merito, un tempo i contadini sparavano i petardi per agevolare la pioggia. Magari queste scie sono originate dal rumore e alterano il meteo delle zone di sorvolo degli aerei. La funzionale teoria alternativa delle scie chimiche arresta il dibattito e il dissenso, per far sí che i traffici internazionali di uomini e di merci proseguano indisturbati. Tuttavia, anche riguardo al loro scopo ultimo, non vorrei che grettamente pensaste che é sempre e solo “tutto un magna magna”. E' possibile che le scie chimiche esistano veramente e che il loro fine sia invece limitare le manifestazioni eteriche degli Ufo o agevolare le comunicazioni maschernando il fatto che i satelliti in realtà non funzionano o non sono affidabili. Ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco.

Una indagine in merito la dovete fare tutti, é un vostro preciso dovere morale. Ciao e buon anno!

 
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from Riflessioni un po' a caso

Riflessioni 31/12/2024

Non si dovrebbe dare seguito ai propri pensieri mentre si medita, tuttavia questa mattina la mente ha fatto il suo giretto al di fuori del recinto in cui doveva rimanare (l'osservazione del respiro) e ha pascolato parecchio. Non che accada raramente, d'altraparte è così che deve funzionare la meditazione: ti accorgi che stai divagando e la riporti al respiro. Tuttavia il trenino di pensieri mi ha lasciato una bella sensazione, allora l'ho ricostrutito e addeso provo a metterlo per iscritto per vedere se lo stato di benessere era uno stato indotto oppure continua ad avere un suo fascino. Il tutto è partito dalla frase “Chi ha paura muore ogni giorno. Chi non ha paura, una volta sola” attribuita a Borsellino. La morte mi fa paura, e questa paura mi impedisce di vivere appieno la vita, che è un bell'ossimoro. Siccome non sono proprio giovane questa cosa va risolta, meglio prima che dopo. Il buddismo mi affiscina molto, non quanto risposta al mistero della morte (non credo nella reincarnazione), ma quanto approcio per fare pace con la morte, per appunto, non averne più paura. Però temporeggio, come l'aneddoto dell'uomo colpito dalla freccia raccontato dal Buddha: come lui (“lui” non è il Buddha ma il pirla ferito dall freccia) mi arrovello su questioni che sono irrisolvibili e che non mi portano giovamento. Cosa mi impedisce di abbeverarmi senza riserve al buddismo e togliermi la freccia? Il motivo è che esso è basato sulla comprensione di dukka, anitta, anacca. Fino a dukka e anitta non ho particolare problemi ma su anacca mi blocco. Penso sia normale, avere paura di morire vuol dire avere paura di cessare di essere se stessi. Se avessi compreso anacca non ci sarebbe un “se” di cui preoccuparsi. Sembra abbia le spalle al muro, per togliersi la freccia l'unica via sembra quella di lasciarsi andare al concetto di Anacca. Ehi aspetta, anche Anacca mi fa paura, scoprire di non avere un “se” mi fa venire le vertigini! E' evidente che sia un cacasotto. Almeno il Buddha mette a disposizione strumenti per la sua comprensione. E fosse anche una sorta di autoinganno lo vedo privo di effetti collateralli, al più rischio di diventare un arahant! Per concludere il filo di pensieri che mi ha attraversato la testa questa mattina: devo provare con il cuore e con la mente a comprendere anacca per togliere la freccia avvelenata fottendonese di chi l'ha tirata, di che colore era, etc. etc.. Sì, direi che il filo di pensieri mi soddisfa anche dopo la meditazione. Buona vita a tutti.

 
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from Transit

(161)

(R)

Abbiamo fatto talmente tanti propositi, buoni o meno, che ormai è inutile continuare. Come disse il più geniale dei quattro “La vita è quella cosa che accade mentre sei intento a fare altro”. E questa frase va bene per tutti, dal primo all'ultimo. Che, poi, le persone non si devono numerare, non si dovrebbe fare una classifica in cui qualcuno vale più di un altro. Una persona ha valore in sé, non per il suo status, per la sua “classe”, per i soldi che ha o che non ha, per il suo essere considerato qualcuno. Che, poi, “... è proprio obbligatorio essere qualcuno?”, citando un personaggio di fantasia, ma che la sapeva lunga. Essendomi giocato tutte le citazioni fino al 2025 è meglio procedere.

Tolti i propositi, restano i bilanci. Sono anche più insidiosi, perché incitano ad una riflessione, sempre ammesso che vi siano stati degli obiettivi da raggiungere. Un modo per disfarsi di eventuali calcoli a somma zero della propria esistenza fino al 31 Dicembre 2024, è quello di provare a capire come sia andato il nostro paese, quello che – perlomeno – siamo riusciti a guardare, sentire, commentare fino ad oggi. E’ più semplice e permette un bel po’ di ipocrisia e di sproloqui di parte.

Che dire, se non che quest’anno, per l’Italia, patria molto parca di soddisfazioni (eliminiamo dal contesto lo sport, per piacere), ma fonte pressoché inesauribile di ansie e di disfunzioni a tutti i livelli, è stato pessimo? Per par condicio devo scrivere che quelli prima della Meloni erano praticamente la stessa cosa: non c’entra – non del tutto – l’attuale governo, che pure ha fatto e sta facendo sfracelli e non è un complimento. Loro accampano la scusa di aver ereditato i disastri dagli anni passati, quelli prima da quelli prima e via così fino a Romolo e Remo. Poi basta, che c’erano altri di cui non ricordiamo un nome uno.

Probabilmente è il fatto che l’età avanza, gli occhi sono sempre più malandati e la pigrizia non ha diete da fare, ma le cose, là fuori, sembrano più scure, più sfrangiate, più vaghe seppur in tempi di sapienza da “Wikipedia”. C’è quel vago sentore di marcio che accompagna molti accadimenti politici, che ben si somma con la pochezza e la sciatteria di una “classe dirigente” imborghesita male, malissimo. Rialzano la testa anche coloro che non ne avrebbero diritto, depositari di vecchie glorie rattoppate, di miasmi patriottici mal gestiti e peggio compresi.

(R2)

Il tutto sdoganato da un impoverimento culturale che fa sì che la misura più profonda del sapere sia quella di un pozzanghera. Acqua sporca di rimando, da citazione googlata, da ansia da prestazione per un like, per mille o diecimila approvazioni, per concedere all’illusione di contare quasi tutto ciò che abbiamo, soprattutto il tempo, una delle poche cose che vale moltissimo, ma che viene sperperato come se – davvero- non ci fosse un domani. Come l’acqua, che davvero non c’è, o come i disastri del clima che, invece, abbondano e continueranno a moltiplicarsi.

Ma perché sia tutto perfetto, un quadro deliziosamente completo fin nei dettagli, ammazziamo centinaia di migliaia di nostri simili (simili in tutto, ma proprio tutto) con metodi tradizionali e collaudati, o con nuove invenzioni apocalittiche. Tanto siamo troppi e la denatalità è un problema: come sbattere su un muro a trecento all’ora, ma lamentandosi del colore dei mattoni. Il tutto, sia detto, allegramente, che certezze ce ne sono: il calcio, la pausa caffè e gli altri, tutti coglioni.

Mentre ci mangiano gli stipendi, facendoli decrescere per distinguerci dagli altri (orgoglio italiano), ci mandano a curare anche un taglietto fatto con la carta dal professorone a casa sua, e provvediamo ad arredargliela con la parcella. Lo stesso che poi, in uno slancio di benevolenza falsa come i suoi denti, si mischia al popolino nelle corsie di ospedali sempre più modello “quarto mondo”, regni del rischio non calcolato, delle pareti piene di muffa e dei nomi di santi sempre più ridicoli nella loro inutilità.

Ma la barca va, magari fino in Albania, navigando di bolina e sconfiggendo la fastidiosa ritrosia di alcuni italiani a buttare i soldi dalla finestra, che almeno avvertissero, così ci mettiamo sotto. E’ essenziale rifornire l’ego delle masse votanti, dandogli molto circenses e poco panem: a stomaco vuoto si è accondiscendenti, educati e servili come da manuale. Perciò liberi di manifestare, ma a favore: quelli che non si allineano li mettiamo in quelle galere dove muoiono centinaia di persone all’anno, come in un film fatto male, ma molto realistico.

E senza sembrare troppo cattivi, l’assoluzione di uno che potrebbe fare poco, in qualsiasi campo, ma fa il ministro, non è altro che la riprova che il gattopardo non è un animale in via di estinzione: si riproduce in cattività con molta frequenza e tutti i morti nei nostri mari non lo riguardano. Si nutre del razzismo, della bassa intelligenza e della stupidità. Tutte cose che abbondano, in Italia.

Il 2024 è anno bisesto, quindi funesto: lo dicono tutti, perciò è vero, ci hanno fatto i meme. Accogliamo il 2025 che sarà meglio. Ma perché è difficile fare peggio o solamente perché su “X” ancora non hanno fatto l’oroscopo? Stiamo tranquilli. Sedati, rincoglioniti, italiani.

“Recitando un rosario di ambizioni meschine di millenarie paure di inesauribili astuzie Coltivando tranquilla l'orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta come una malattia come una sfortuna come un'anestesia come un'abitudine.”

(“Smisurata preghiera”, di Fabrizio de Andrè e Ivano Fossati, 1996).

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from GRIDO muto (podcast)

⚡ Fibromialgia, Artrite e Burnout: la mia battaglia contro l'esaurimento cronico continua! 💪🌟

“[...] Tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una ENORME INGIUSTIZIA: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 8), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Gli anni delle scuole superiori, tra il '91 e il '96, sono stati molto belli da un punto di vista della mia crescita personale e musicale, ma anche molto difficili per tutto il resto. Oggi ho il sospetto che le malattie iniziassero a manifestarsi, ma in quegli anni non potevo neanche immaginarlo. In questo episodio ti racconto dell’esaurimento, una condizione psicofisica che chi soffre di malattie invisibili tende a vivere molto più facilmente.

[...]

Quel periodo lo avevo iniziato in bellezza, di ritorno da un viaggio in Sardegna in cui eravamo stati a trovare i nostri nonni paterni e, naturalmente, anche in visita allo splendido mare della regione. Durante quella vacanza, ero andato a supplicare un vicino di casa dei nonni perché mi prestasse la sua chitarra per un pomeriggio. Non riuscivo a stare senza! Ora, non vorrai fare dei paragoni azzardati; ti dico solo che questo succedeva anche a Jimi Hendrix, a suo tempo, uno dei chitarristi più influenti della storia.

Oggi lo capisco perfettamente: suonare, infatti, è un po' come una droga. E a proposito di droghe, proprio in quel periodo avevo iniziato ad assumere farmaci regolarmente per qualche mese. Avevo dei dolori alle ginocchia, un po' forti. Ero giovanissimo; non poteva essere niente di serio, io mi dicevo. Il medico curante mi aveva dato del Nimesulide, ma i dolori non passavano e continuai a prenderlo a cicli per molte settimane. Quando finalmente il male passò, venne attribuito a “qualcosa di legato allo sviluppo”.

A te sembra normale che un ragazzino di 13 anni debba prendere il Nimesulide a cicli? Non lo era, e già questo, forse, avrebbe dovuto fare scattare qualche campanello d’allarme. Ma poi era tutto normale; si andava a giocare a pallone e al fiume a nuotare nell'acqua gelida, e non ne risentivo più di tanto.

L'idea di iniziare le superiori mi aveva messo un certo fermento addosso, anche se la scuola di ragioneria ad indirizzo informatico non era stata una vera e propria scelta, ma piuttosto un obbligo imposto dalla scarsissima varietà che Pontremoli poteva offrire. Diciamo che per me era la meno peggio e credevo che mi avrebbe aiutato, più avanti, a trovare lavoro facilmente.Nonostante tutto, mi restava un senso di entusiasmo speciale, come mi capitava sempre prima di iniziare qualsiasi cosa.

Le mie aspettative furono deluse molto presto, perché se alle scuole medie avevo avuto sempre voti molto alti, alle superiori mi fu subito evidente che la musica era cambiata. Ci voleva molto più impegno e quando i primi voti pessimi cominciarono ad arrivare, non la presi molto bene. Cominciai a pensare di non essere adeguato e ogni giorno, paradossalmente, anziché dedicare più tempo allo studio, mi buttavo sull'unica cosa che mi dava un po' di gioia: la musica.

Nel '91, io e mio fratello maggiore avevamo messo insieme le forze e acquistato il nostro primo lettore CD, una cosa del tutto nuova che consentiva di ascoltare la musica con una qualità pazzesca, una qualità che oggi non abbiamo più, sostituita dalla bassa qualità dei vari servizi di musica in streaming.

Quando uscivo da scuola, esausto, la corriera impiegava più di un’ora a riportarmi a casa, perché doveva fare il giro di tutti i paesi della valle e il nostro era quello più in alto. Nei giorni peggiori ci impiegava un'ora e tre quarti. Da ottobre in avanti, mi sedevo a tavola per mangiare, da solo, alle 14:35 del pomeriggio, e non facevo in tempo a finire il mio piatto di pasta che il sole calava dietro la montagna del paese. Da noi, la notte arrivava molto presto. Io mi sdraiavo sul letto, con delle cuffie di ottima qualità, ad ascoltare l'unico CD che avevo: il concerto dei Deep Purple a Stoccolma del 1970. Può sembrarti strano, ma tra le urla di Ian Gillan e gli assoli di chitarra strazianti di Ritchie Blackmore, mi addormentavo quasi subito. Mi calmavano; e se conosci quel gruppo capirai quanto sono strano!

Alla fine del disco, il mio cervello percepiva il silenzio e allora mi svegliavo quasi subito, con un senso di smarrimento e solitudine. Dov'era andata quella musica così bella? E poi via, si iniziava a studiare. Facevo tutto in fretta, il più in fretta possibile, per liberarmi da tutte quelle cose che mi interessavano davvero poco e potermi così dedicare finalmente alla musica.

Nel periodo natalizio, per la prima volta io e il mio gruppo andammo a suonare per altri: una festa di Capodanno tra ragazzi, credo non più di un centinaio di persone. Nonostante avessimo solo chitarre, facemmo del nostro meglio e fu davvero emozionante, così tanto da essere sul punto di bloccarmi, ma tutto andò bene.

Al secondo anno di scuola accadde una cosa terribile: i voti stavano prendendo una brutta piega. Fui costretto ad aumentare l'impegno e così, durante l'inverno, oltre a non vedere più il sole e a rinunciare anche alle passeggiate nei boschi con il mio cane, dovetti anche intensificare lo studio, sacrificando la passione musicale.

Verso la fine della primavera, ero completamente scarico. Non riuscivo più a ragionare lucidamente; mi sembrava che il peso di ogni cosa del mondo fosse sulle mie spalle e che la condizione che stavo vivendo, la scuola, non avrebbe mai avuto fine. Pensavo ai duri anni che avevo ancora davanti e poi all’università; ai faticosi viaggi in corriera e alla musica che avrei dovuto sacrificare. Di fronte a una montagna così grande da scalare, mi chiedevo se la ricompensa, sulla cima, sarebbe stata abbastanza da giustificare la scalata. Decisi che...no, non ne valeva la pena.

Volevo abbandonare gli studi.

Fortunatamente, quella Santa donna che è mia madre, dopo discussioni estenuanti anche per lei, mi convinse a non farlo: e meno male, perché con le conseguenze di quel diploma sto mangiando ancora oggi. Mi disse di continuare, di fare quello che potevo e poi avremmo visto.

Non so se tu, che mi stai ascoltando, abbia mai usato audiocassette. Te le ricordi? C'era dentro un nastro che si arrotolava mentre le si ascoltavano, come la nostra vita. Ma alla fine del nastro, la cassetta si poteva riavvolgere e ricominciare, o cambiare lato, mentre per noi il tempo scorre solo in una direzione. In quella cassetta, come in tutte le altre, c’era un foglietto dentro la custodia in plastica. Mio fratello aveva scritto tre parole sul dorso di quel foglietto: “Led Zeppelin” e un 4 in numeri romani.

Ma sì, proviamo a sentire cos'è!

Mi misi sul letto, cuffie addosso, e premetti “Play”. In quel preciso istante, la mia vita musicale cambiò per sempre. La prima canzone della cassetta era qualcosa che non avrei mai immaginato neanche in 100 vite: qualcosa di alieno, possiamo dire. Una canzone assurda, in cui una voce sguaiata introduceva gli strumenti che suonavano una melodia quasi irritante, con il batterista che andava per conto suo, senza seguire il tempo degli altri. “Ma che roba è?” Poi, tutti zitti. Di nuovo quella voce insopportabile, la melodia stranissima di prima e via così fino alla fine.

Sembra assurdo, ma c’era qualcosa di veramente ipnotico in quella melodia, tanto che ci arrivai in fondo. La seconda canzone era orecchiabile, una specie di rock and roll bello carico, la terza di nuovo strana, la quarta un capolavoro: “Stairway to Heaven”. Credo che chiunque l'abbia ascoltata almeno una volta nella vita. Alla fine di quell’album, avevo il cervello un po’ sconvolto, ma dentro di me avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta. Evidentemente, quella roba strana era musica; si poteva fare anche così.

Per qualche tempo non ascoltai altro: quella voce sguaiata, la chitarra possente, il basso con i suoi ritmi incalzanti e un batterista che, per la prima volta da che avevo memoria, era un piacere ascoltare e non era solo qualcosa in sottofondo che dava il tempo. Incredibile! Nessuno dei miei conoscenti condivideva con me la passione per questo strano, disturbante gruppo. Dall’esterno sarò sembrato un pazzo, sempre con le cuffie in testa ad ascoltare qualcuno che urla su suoni strazianti. Questa mia nuova passione mi isolava ancora di più dal mio mondo di allora. Scoprii che restare calmo, solo con me stesso a fare qualcosa che amavo, mi aiutava a concentrarmi su qualcosa, dimenticando tutto il resto. Nessuno capiva, ma non mi importava: nel poco tempo libero, scimmiottavo i Led Zeppelin con la chitarra, e questo mi bastava a sentirmi meglio.

Paradossalmente, in questo isolamento, ritrovai me stesso. Piano piano, rifugiandomi in quegli ascolti, il periodo terribile passò e l’estate arrivò nuovamente, carica di novità stimolanti ed eventi fondamentali per la mia evoluzione musicale.

E dal momento che avevo ritrovato un minimo di serenità, con mia sorpresa le cose andarono meglio anche a scuola. Alla fine, non ci fu nessuna conseguenza pesante sul mio curriculum scolastico. Mancavano solo tre anni alla fine; ormai ragionavo così.

Ricordo sempre con tanta emozione quell’anno, perché è stato quello in cui ho incontrato la prima delle situazioni insormontabili della vita. In quel caso, in qualche modo ce l’avevo fatta, come ce l’avrei fatta in futuro. Ma con il passare del tempo avrei notato che ogni botta sarebbe stata più difficile delle precedenti da superare.

Ogniqualvolta mi si presenta una situazione senza via d’uscita, è come rivivere la crisi in corso più tutte le precedenti, a partire da quella in cui i Led Zeppelin e la chitarra mi avevano salvato. Ogni volta è più difficile uscirne, e nemmeno la musica può nulla, oramai.

Oggi, come credo che capiti ad ogni malato invisibile, vivo crisi di fatica ed esaurimento continuamente. A volte, faccio persino fatica a riconoscerne una dalla successiva.

Quando ti alzi terribilmente stanco, e ogni giorno hai meno energie di quando sei andato a letto, è facile che qualsiasi cosa ti sembri una situazione senza via d’uscita: la famiglia, se ne hai una; magari dei figli da mandare a scuola, che vanno seguiti, ma anche un animale domestico. Qualsiasi cosa, anche piccola, ti sembra – ed è – difficilissima da completare. Figuriamoci il lavoro. Eppure è così importante per me, terminare queste cose. C’è già una brutta situazione in corso, della quale non si vede la fine. E così, ogni cosa incompleta o che non si può finire per me diventa un’eco della mia vita da ammalato, situazione che non finirà mai. Almeno ciò che posso, ho bisogno di vederlo chiuso, finito, a posto.

Le cose però possono accumularsi, essere sempre di più, sempre più pesanti. Non completarsi.

Se non hai particolari patologie e pensi che tutte queste cose che ti ho elencato prima siano già pesanti anche per te, figurati com’è la vita per me, e immagina com’è per tutti gli altri malati invisibili.

Sì, perché a noi non vengono fatti sconti. La famiglia la devi comunque gestire. La spesa. I traslochi. I genitori anziani, i suoceri. La cura di te stesso, il mutuo da pagare. Figurati poi com’è lavorare in queste condizioni: scadenze, impegni, ingegno per trovare soluzioni sempre nuovi a problemi sempre diversi, mentre il mal di testa è sempre lì, la tua difficoltà a concentrarti non sembra lasciarti andare, e chiunque ti chiede qualcosa che si aggiunge alla lista di cose da fare, sempre urgenti, che non te ne fanno completare altre. Questo, almeno, in ufficio. Non oso pensare a chi svolge un lavoro fisico: muratori, operai, facchini, agricoltori, eccetera!

Ecco perché dico che tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una enorme ingiustizia: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!

Ricorda tutto quello che ti ho raccontato finora, e che, se mi hai seguito con attenzione, dovrebbe cominciare a prendere una forma più chiara. Pensa a come dev’essere vivere così, sempre in balia di un problema fisico che, lentamente come il ghiaccio, ti penetra nell’animo. Capisci ora perché si dice che i malati invisibili tendano ad isolarsi? Capisci perché siamo tendenzialmente nervosetti?

Se mi stai ascoltando ma non soffri delle patologie che ti sto raccontando, questo mi rende felice, ma spero di riuscire a trasmetterti la conoscenza su quello che noi invisibili viviamo tutti i giorni.

Se invece ti riconosci in questo eterno ciclo di esaurimento e ripresa, magari anche depressione, sappi che ti capisco benissimo. Non servono patologie croniche per esaurirsi o cadere in depressione, e anche queste, lo so, sono malattie invisibili, per gli altri non esistono.

Fatti coraggio, anche se so che è difficile, trova i tuoi Led Zeppelin.

Per me, almeno allora, è stata essenziale la musica: trova i tuoi Led Zeppelin. Per te, il palo in cui aggrapparsi durante la tempesta può essere qualcos’altro: magari coltivare un fiore, leggere un libro, andare continuamente in un luogo in cui ti senti un po’ meglio. Tutto aiuta, anche se lì per lì ti sembra che sia inutile.

Bisogna continuamente ritornare a fare qualcosa che ci fa stare un po’ meglio, attingere alle scorte della bellezza, della tranquillità senza sentirsi giudicati. Credo che se costruirai queste condizioni, gradualmente potrai stare, se non bene, almeno un po’ meglio.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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from cosechehoscritto

[diario dalla strada]

In pratica non sto bene, quest'anno lo vivo all'insegna dello non stare bene, l'ultima cosa che mi è venuta è un male alla schiena costante con fitte che vanno e vengono, stiamo indagando, probabilmente, come dice la mia medico “un'ernietta”, fatto sta che sto passando questi giorni di festa nel letto a digrignare i denti, mangiare pastiglie e pensare al futuro.

Comunque, oggi decido che male alla schiena o non male alla schiena devo fare una passeggiata e esco e prima di uscire ho in mente una canzone di Suzanne Vega che non ho in digitale, la faccio breve, mi scarico da Bandcamp un suo live di qualche anno fa che non avevo mai sentito, mi metto le cuffie e esco.

Faccio i primi passi e partono le chitarre di Marlene On The Wall e per un attimo mi sento come Maxine all'inizio di Life Is Strange, quando cammina per i corridoi della scuola e – niente – effetto madelaine mi sento per un attimo catapultato all'indietro di dieci, venti, trenta, quaranta anni.

Ho nella mia memoria alcuni ricordi precisi di io in giro per il mondo che ascolto la musica con le cuffie: io negli anni ottanta con un walkman scabeccio che ascolto, la sera in piazza Manin, Night Vision, io sempre anni ottanta che cammino con il cane a Sant'Olcese la sera e sento un disco dei Pink Floyd dove a un certo punto c'è un campionamento di una macchina che passa e io – solo in mezzo alla strada – faccio un salto a lato, terrorizzato; io che qualche anno dopo aspetto qualcuno alla stazione di La Spezia durante il servizio civile, ascoltando dal lettore cd portatile Buddha Of Suburbia, io che ascolto qualche anno dopo Rave Un2 The Joy Fantastic e mi si rompono le orecchie.

La mia rottura delle orecchie l'ho già raccontata, acufeni e iperacusia che ormai mi accompagnano da un ventennio. Quando non ci sono rumori in casa io ho nelle orecchie un fischio continuo 24/24, ho imparato a non farci caso, se ci faccio caso dopo un po' impazzisco perché è un fruscio sibilante che non si ferma mai e che diventa più intenso quando sono più stanco e più affranto.

Questo non mi ha impedito di ascoltare ancora musica, meno bene di prima, con più difficoltà e soprattutto le cuffie le uso rarissimamente, non solo perché me le fregano sempre i figli, ma perché se ascolto musica con le cuffie per più di una mezzoretta poi i fruscii sono decuplicati e divento ipersensibile a qualsiasi rumore.

Ma ogni tanto, appunto, cedo e accetto il rischio e le conseguenze.

E quindi mi faccio questa passeggiata camminando e ascoltando questo concerto di Suzanne Vega che mi fa sbrodolare, pura nostalgia e riemergere e penso che quello che sto provando non è tanto ascoltare le canzoni di Suzanne Vega, ma un ricollocamento temporale di me nel 2024 rispetto a tutto il tempo che è passato da quando quelle canzoni le ho sentite per la prima volta, la massa di tempo che ho vissuto e mi sono mosso e sono cambiato e che viene relazionata a quel ragazzino nel millenovecentoottantaqualcosa e quest'uomo, con la schiena a pezzi e i giramenti di testa e il piede guasto e le cartillagini dei ginocchio consumate che cammina e ancora ridacchia da solo pensando le cose così.

E tutto questo per nemmeno 15 euro, penso, non male. Penso a Suzanne Vega, a quella volta – irreale – che l'ho vista a Genova suonare al Porto Antico dove d'inverno c'è la pista di pattinaggio, al fatto che ho iniziato ad ascoltarla solo perché piaceva a un mio compagno del D'Oria e poi ho continuato a seguire tutti i suoi dischi per decenni senza sapere bene perché visto che non ho mai tradotto davvero tutte le sue canzoni, e alla fine penso che alla Vega, in quarant'anni le avrò dato in tutto un centinaio di euro, concerto non compreso, e penso che beh, ne è valsa la pena. Tutto questo per avere ancora un ricordo di me che cammino, una sera, e penso alle volte che sono stato nello stesso stato d'animo, così solitario e pieno.

Finisco la mia passeggiata mentre parte l'ultima canzone, sembra fatto apposta e mentre scorrono le ultime note il cellulare vibra e mi dice che sto ascoltando le cuffie da un po' troppo tempo, che sarebbe bene toglierle. Dico al cellulare che ok, aspetto che finisca la canzone e poi spengo e rido da solo, nella via desolata attorno a casa mia e intanto è notte, è dicembre, e tra poco sarò a casa.

 
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from DDUS

Essere un sopravvissuto degli anni ’80 significa vivere con un piede in due mondi: quello analogico e quello digitale.
Ricordo ancora il suono gracchiante del modem 56k, un ponte verso un universo allora sconosciuto. Era un mondo in cui la tecnologia era un lusso e la lentezza faceva parte dell’esperienza. Oggi, invece, viviamo in un flusso continuo di notifiche, dove ogni cosa è a portata di click, ma qualcosa sembra essersi perso lungo la strada.


📼 Il fascino del passato analogico

Nel mondo analogico, la tecnologia richiedeva tempo. Inviavi un fax e dovevi attendere; non c’era una notifica immediata che ti assicurava che fosse stato ricevuto.

🎶 Ricordo quando registravo una cassetta: mettere play e rec contemporaneamente era una piccola vittoria, un atto che richiedeva pazienza e precisione.
Era tecnologia tangibile, con pulsanti, leve e meccanismi che potevi vedere e capire. Ogni oggetto aveva una sua ritualità, quasi sacra, che oggi è scomparsa nell’etereo regno del digitale.

La lentezza dell’analogico lasciava spazio alla riflessione.

Scrivevi una lettera a mano o sceglievi con cura le parole per un messaggio fax, consapevole che ogni errore sarebbe stato indelebile. Ora, con un backspace veloce o un tap su “modifica”, cancelliamo e riscriviamo in un batter d’occhio, perdendo parte del significato e della consapevolezza.


🌐 L’efficienza del presente digitale

Non posso negare i vantaggi del mondo digitale.

Oggi, grazie alle mail, le comunicazioni sono istantanee. Ho in tasca un dispositivo che mi consente di:
– Scoprire qualsiasi informazione.
– Ascoltare la mia musica preferita senza limiti.
– Restare in contatto con persone dall’altra parte del mondo.

🛑 Ma a che prezzo?
La comodità porta con sé un prezzo invisibile: la costante pressione di essere sempre connessi, sempre reperibili.

Un tempo, il telefono era un oggetto con un luogo preciso in casa. Se non c’eri, nessuno poteva raggiungerti.
Oggi, il confine tra vita personale e lavorativa è evaporato.

Rispondere a una mail di lavoro alle 22 non è più un’eccezione, ma spesso una regola non scritta.


🌱 La nostalgia di un equilibrio perduto

Essere un ponte tra due mondi mi dà una prospettiva unica:
– Da una parte, apprezzo la comodità e la velocità che il digitale offre.
– Dall’altra, mi manca la semplicità e la fisicità dell’analogico.

La tecnologia di oggi è invisibile:
> Un flusso di dati che passa attraverso il Wi-Fi e il 5G, intangibile, ma onnipresente.

Quella di ieri era concreta: dischi, cassette, fogli di carta che si accumulavano sulla scrivania.

❓ Una domanda scomoda

Stiamo sacrificando troppo sull’altare della comodità?
Le nuove generazioni, che crescono immerse in questo universo digitale, sapranno mai cosa significa aspettare?
Saprà mai che valore ha un errore, quando non puoi semplicemente cancellarlo con un tap?


🔮 Un futuro che guarda indietro

Forse, essere un sopravvissuto degli anni ’80 significa proprio questo:
ricordare un tempo in cui tecnologia e umanità camminavano fianco a fianco, senza che una divorasse l’altra.

Non sto suggerendo di tornare indietro; il progresso è inevitabile.
Ma credo che possiamo imparare qualcosa dal passato:
– 🕰️ Rallentare.
– 👁️ Essere presenti.
– 🤔 Ricordare che non ogni problema richiede una soluzione immediata.

In un mondo in cui tutto è digitale, forse il vero atto di ribellione è ritagliarsi spazi analogici:
📚 Leggere un libro di carta, ✍️ scrivere a mano, o semplicemente scollegarsi.


Dopo tutto, un sopravvissuto sa che il segreto non è resistere al cambiamento, ma trovare un equilibrio.

 
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from Solarpunk Reflections

[🇪🇺 ENGLISH TO BE ADDED SOON]

Tra l'estate e l'autunno di quest'anno è imperversato un dibattito sullo stato della fantascienza italiana; non ho seguito tutti i botta e risposta di editori e autori coinvolti, ma da quello che ho captato la situazione pare essere questa: la fantascienza italiana fa schifo e non vende.

Non ho intenzione di confermare o smentire queste illazioni; se vi interessa il drama potete sguazzarci su YouTube tra le interviste a Franco Forte e le relative risposte. Ciò che a me interessa, da scienziato e soprattutto da scrittore, è instaurare un dibattito non sul perché la fantascienza non venda ma su cosa vogliamo raccontare con le nostre storie, se abbiamo ancora qualcosa da raccontare.

Di recente ho dunque provato a raccogliere qua e là alcuni racconti lunghi italiani, scritti negli ultimi 5/6 anni, nel tentativo di mappare lo stato attuale delle idee, le direzioni e le domande che gli autori della mia generazione si stanno ponendo, insieme ad alcuni lavori dei luminari del secolo scorso (ispirato da questo articolo di Franco Ricciardiello su Lino Aldani).

È un lavoro lungo che mi prenderà qualche mese per essere elaborato e per formulare conclusioni rilevanti, ma vi basti sapere che il primo (che non nominerò qui, ma recensirò altrove) è stato talmente deludente che mi ha spinto a una riflessione di cui avevo da tempo bisogno. Proverò a elaborare in questo articolo, nella speranza di coinvolgere altri autori di fantascienza nel discutere di cosa scrivono e di cosa vogliono scrivere, ma concedetemi una premessa necessaria dalla quale questa riflessione ha origine.

Cos'è la Tecnologia?

Chiedete a dieci persone e otterrete cento risposte diverse. Quella che trovo più proficua è quella di Paweł “ALXD” Ngei, che la definisce come “cristallizzazione di una comunità” (potete leggere per esteso i suoi pensieri qui), ed è in questo framework che sto cercando di ragionare in questi ultimi mesi. Vi invito a leggere anche il suo articolo prima di continuare, poiché devo molte delle mie attuali mappe mentali a questo concetto (con l'unica aggiunta che anche l'architettura e le leggi sono possibili forme di comunità cristallizzata).

Eppure non tutte le tecnologie, per quanto positive o interessanti, sono sufficienti a raccontare una storia; un paio di esempi possono essere le macchine elettriche (nonostante i potenziali benefici, sono fondamentalmente sempre macchine), la cura definitiva del cancro (che sarebbe un traguardo fenomenale per il benessere delle persone, ma che non ci aiuta a raccontare storie che non possiamo già raccontare oggi. Provate a inventarvi una storia a partire da questa tecnologia; io pur avendoci pensato a lungo non riesco!) o, prendendo un esempio dal racconto lungo menzionato sopra, bici fatte con componenti vegetali (tipo bambù); idea fighissima, ma quali conseguenze o colpi di scena può offrire?

In quanto fisico, mi viene immediato definire queste tecnologie, se pur “innovative”, a basso potenziale narrativo: ovvero che permettono di raccontare poche storie complete e avvincenti e che spronino il lettore a porsi domande morali ed etiche su tali tecnologie (che poi è lo scopo primo della fantascienza) oltre che a meravigliarlo per una manciata di secondi.

Quindi l'unica opzione che rimane è far apparire tali tecnologie come accessorie, secondarie alla trama anziché come colonna portante; un “elemento sullo sfondo” che pur essendo utile o immaginifico ha interazioni ridotte con i personaggi o gli eventi, perché le possibilità che offre sono, appunto, ridotte. Questo però (a mio parere!) riesce malissimo in forma testuale, ed è molto più efficace in media audiovisivi; esempi notevoli sono il pane rapido di Rey Skywalker o i dettagliati interni di Lemonaut.

Noi scrittori non lavoriamo per immagini; o meglio, lo facciamo ma in modo più sottile, meno diretto. Mostrare un elemento (tecnologico o meno) senza che questo sia rilevante alla storia lo rende meno rilevante, quasi ingombrante; che poi è la massima del buon vecchio Chekhov:

“Se nel primo atto c'è una pistola appesa al muro, allora nell'atto seguente deve fare fuoco. Altrimenti non mettetela.”

Approfondisco questo passaggio: in pratica, una buona storia (di fantascienza, ma anche cyberpunk o solarpunk) deve mettere al centro una tecnologia che abbia conseguenze varie, imprevedibili e soprattutto SIGNIFICATIVE sulla società e/o sulle persone; qualcosa che possa essere usato (e mal-usato!) a scopi diversi, che ogni personaggio può adattare ai propri scopi e che abbia applicazioni diverse in contesti diversi. Non basta inserire un elemento interessante o immaginifico e lasciarlo lì sullo sfondo; va approfondito ed esplorato in ogni possibile direzione, o almeno in quelle che ci sembrano narrativamente più potenti.

Sempre prendendo esempio dal racconto di cui sopra, è stata una grandissima opportunità mancata la menzione di una bolla internet degli indigeni, che però viene liquidata in tre righe e non viene più usata da alcun personaggio per tutto il resto della storia. Perché non seguire quest'idea fino in fondo e raccontare come viene usata dagli abitanti della foresta, come viene mantenuta e quali sono stati i problemi che ha causato e che hanno dovuto risolvere?

Esempio di questo tipo di tecnologie, che mi sento di chiamare “trasformative”, sono colture di batteri in grado di decomporre i polimeri plastici, l'interpretazione di “mind uploading” di Cory Doctorow in Walkaway e il concetto di nave generazionale esplorato da vari autori (Aurora di Kim Stanley Robinson e Paradises Lost di Ursula LeGuin sono i due che mi hanno ispirato di più nella scrittura di Simulacra Navigans). Le idee più potenti ispirano una moltitudine di autori, perché offrono così tante direzioni di esplorazione che un autore solo difficilmente può individuarle e realizzarle tutte.

Credo che noi scrittori dovremmo riflettere su quali aspetti si prestano meglio a una storia raccontata su pagina piuttosto che su schermo, e dunque lavorare su relazioni, conseguenze ed emozioni della tecnologia che appare nelle nostre storie. Questi sono elementi che una tecnologia trasformativa tocca attraverso le interazioni dei personaggi tra di loro, con la tecnologia stessa e con la società tutta (idealmente anche con l'ambiente naturale, nel caso del solarpunk).

In questo senso la tecnologia funziona, in senso puramente narrativo, contemporaneamente da motore (nel senso che instilla una progressione nella storia separando un prima e un dopo; pensate a un foglio di carta che grazie all'uso delle forbici diventa una stella) e da connettore (la persona o le persone che hanno operato lo strumento e lo scopo per cui lo hanno fatto).

EDIT: In seguito a una discussione con ALXD, riporto una sua citazione in merito:

“Molti autori di fantascienza feticizzano la tecnologia per l'atmosfera che crea o per le conseguenze dirette su chi la usa. I grandi autori la usano come scusa per analizzare problemi di portata più grande, come le società e le ideologie del mondo in cui vengono sviluppate.”

Potere nei Limiti

Mi lancio ora in una speculazione più azzardata, poiché non ho ancora letto di nessuna formulazione del tema nei termini che seguono. Spero comunque che possa stimolare una discussione su come ci approcciamo alle tecnologie nella narrativa e su come possiamo inventarne di veramente trasformative, in grado di sorreggere una trama completa e che sfidino contemporaneamente il lettore e lo zeitgeist dei nostri giorni (ovvero lo status quo neoliberale e iperfinanzializzato della Silicon Valley). In questo includo anche le tecnologie che tendo a definire “sociali”, come ad esempio assemblee, metodi decisionali collettivi, varianti della democrazia e, perché no, gerarchie e strutture istituzionali.

Chi di voi legge e soprattutto scrive anche fantasy conoscerà le famosissime Leggi della Magia di Sanderson, che elenco di seguito in quanto comunque meno note della Pistola di Chekhov:

  • La capacità di un autore di risolvere un conflitto usando la magia è direttamente proporzionale alla comprensione di tale magia da parte del lettore
  • Le debolezze, i limiti e i costi della magia sono più interessanti dei poteri
  • L'autore dovrebbe approfondire ciò che fa già parte del sistema magico prima di introdurre nuovi elementi, in quanto l'aggiunta potrebbe radicalmente cambiare come tale sistema interagisce col resto del mondo

Chiaramente chi scrive fantascienza non si interessa di magia e sistemi magici, ma aggiungendo la Terza Legge del molto più noto Arthur Clarke:

“Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”

...possiamo sostituire “magia” con “tecnologia” nelle Leggi di cui sopra. Otteniamo per cui che:

  • La capacità di un autore di risolvere un conflitto usando la tecnologia è direttamente proporzionale alla comprensione di tale tecnologia da parte del lettore
  • Le debolezze, i limiti e i costi della tecnologia sono più interessanti delle possibilità che offre
  • L'autore dovrebbe approfondire ciò che fa già parte del sistema tecnologico prima di introdurre nuovi elementi, in quanto l'aggiunta potrebbe radicalmente cambiare come tale sistema interagisce col resto del mondo

Credo che nel panorama odierno queste tre formulazioni possano esserci più utili per sviluppare idee e tecnologie che siano veramente radicate nel mondo di domani, nei problemi che affrontiamo e affronteremo, con le relative soluzioni.

A voi autori e lettori lancio questi spunti; discuteteli, criticateli, parliamone. Nulla di questo è facile e non intendo parlare con l'esperienza o l'arroganza di chi sa già fare tutto questo (anche se rimango fiero di come, a posteriori, il Protocollo Tunnel che ho inventato per Simulacra ricalchi molti degli aspetti che ho descritto qui), ma con la determinazione di chi vuole imparare a farlo consistentemente, e possibilmente non da solo. Il requisito necessario per sviluppare queste idee è comunicarle e discuterle, confrontarle e limarle finché non diventeranno i nostri strumenti narrativi di punta e potremo di nuovo raccontare un futuro che sia davvero nostro.

 
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from Alviro

Colpa. La parola rimbalzava nella mia mente come un’eco, un termine che sembrava sfuggente, scivolare tra le dita senza mai lasciarsi afferrare davvero. Un verbo che sussurrava scuse ancor prima che si potesse comprendere il peso della colpa. Mi immaginavo in una sala vuota, con i piedi che battevano sul pavimento di legno scuro: ogni passo un’espiazione, ogni rintocco un’ammissione di qualcosa di non detto.

E poi, Assenza. Ah, Assenza. Un nome che emergeva come una sagoma in lontananza, un fantasma che si rifiutava di dissolversi. Non era un uomo, forse non lo era mai stato. Era una metafora, un simbolo di tutto ciò che si muove ai margini del nostro campo visivo. Mi chiedevo cosa stesse facendo ora, Assenza, se ancora fissasse l’orizzonte con quegli occhi che sembravano chiedere perdono per il mondo intero.

E io, tra Colpa e Assenza, mi sentivo sospeso. Una linea tesa tra il bisogno di giustificarmi e il desiderio di sparire, di dissolvermi in quel silenzio che Assenza sembrava incarnare. Forse lui sapeva, forse aveva sempre saputo. Ma non avrebbe mai detto nulla. Non è forse questo che fanno i fantasmi del mondo? Restano silenziosi, lasciando agli altri il compito di parlare, di spiegare, di scusarsi.

Ed eccolo lì, ancora una volta. Assenza.

 
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from morsunled

How to Install LED Headlight on Yamaha MT09

Upgrading your Yamaha MT09’s headlight to an LED is a fantastic way to improve visibility, energy efficiency, and the overall aesthetics of your bike. While this may sound like a job for a professional, installing an Yamaha MT09 LED headlight is a relatively straightforward process that can be completed at home with minimal tools. Follow this step-by-step guide to install your new LED headlight.

Tools You’ll Need LED headlight kit compatible with the Yamaha MT09 Screwdriver set (Phillips and flathead) Socket wrench set Clean cloth or gloves (to prevent fingerprints on the bulb) Zip ties (optional, for cable management)

Step 1: Prepare Your Bike Turn Off the Engine: Make sure your bike is completely turned off, and remove the key. Disconnect the negative terminal of the battery for safety. Locate the Headlight Assembly: Refer to your Yamaha MT09’s manual to find the screws securing the headlight housing. Typically, these are located on the sides or at the bottom of the assembly.

Step 2: Remove the Existing Headlight Access the Bulb: Use a screwdriver or socket wrench to carefully remove the screws holding the headlight housing. Set the screws aside in a safe place. Detach the Connector: Once you open the housing, disconnect the wiring harness attached to the back of the existing bulb. Remove the Old Bulb: Twist the old halogen bulb counterclockwise to release it from the socket. Be cautious not to touch the bulb’s surface if it’s still intact, as oils from your skin can damage it.

Step 3: Install the LED Headlight Insert the LED Bulb: Carefully place the new LED bulb into the headlight socket. Align the bulb correctly, as most LED kits are designed to fit in one specific orientation. Connect the Wiring Harness: Plug the LED bulb’s connector into the existing wiring harness. Ensure the connection is secure to avoid flickering or power issues. Test the Bulb: Before reassembling the housing, reconnect the battery and turn on the bike to test the new LED headlight. Verify that both high and low beams work correctly.

Step 4: Reassemble the Headlight Housing Secure the Housing: Once the LED bulb is working properly, reattach the headlight housing. Ensure the screws are tightened securely but avoid over-tightening to prevent damage. Adjust the Beam: Use the adjustment screws to set the correct beam angle. The light should illuminate the road without blinding oncoming traffic.

Step 5: Final Touches Check for Loose Wires: Ensure all wires are tucked away neatly. Use zip ties if necessary to prevent cables from hanging loosely or interfering with other components. Perform a Road Test: Take your Yamaha MT09 for a short ride at night to confirm the headlight’s performance and beam alignment. Tips for a Successful Installation Choose a DOT-compliant LED headlight to ensure it meets safety and legal standards. If your LED kit includes a heat sink or fan, make sure there is enough space within the housing for proper installation and ventilation. Wear gloves or use a clean cloth when handling the LED bulb to prevent oils from damaging it.

Installing an LED headlight on your Yamaha MT09 is an easy and rewarding upgrade that enhances both safety and aesthetics. With this guide, you can complete the installation in just a few steps and enjoy brighter, more efficient lighting on your rides. Happy upgrading!

 
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from Novità in libreria

Continuo con il resoconto delle uscite del mese scorso.

NARRATIVA:

  • NOIA TERMINALE di Suzuki Izumi (ADD). Sette racconti di fantascienza disturbanti, oscuri e provocanti. Primo volume di una trilogia. Per saperne di più: scheda libro.
  • A CACCIA DI ERODE di Aldo Piro (Marietti). A metà tra il romanzo storico e la biografia, il racconto di un sovrano che per duemila anni ha subìto lo stigma dell'infanticida, forse a torto. Per saperne di più: scheda libro.

SAGGISTICA:

  • SALADINO di Claudio Lo Jacono. La biografia del celeberrimo Sultano Salah ad-Din Yusuf, figura centrale nella storia delle Crociate. Per saperne di più: scheda libro.
  • I GRECI, I ROMANI E... LA MEDICINA di Damiano Fermi (Carocci). Un agile libro della collana dedicata alla civiltà greco-romana: qui vengono affrontate le questioni legate alla medicina e alla cura delle malattie, anche attraverso figure chiave come Asclepio, Ippocrate e Galeno. Per saperne di più: [scheda libro]().
  • I BRAVI E I RIBELLI DELLA GRANDE JUVENTUS di Claudio Moretti e Stefano Discreti (Newton Compton). Un “catalogo” dei grandi campioni della Juventus, noti anche per la loro vita sregolata e ribelle. Per saperne di più: scheda libro.
  • Sempre per la Newton Compton: MANGA TRAINING di John Arthur Rosaros. Un manuale per trasformarsi da gracili e imbranati nerd a Super Sayan, che unisce la passione per il fitness a quella per manga e anime. Per saperne di più: scheda libro.
  • VIAGGIO NELL'ARTE DELLE STELLE di Giorgio Agnisola (Donzelli). Un libro sul rapporto dell'uomo con la volta stellata, analizzato attraverso l'arte, dalle prime raffigurazioni delle grotte di Lescaux fino a van Gogh e oltre. Per saperne di più: scheda libro.

INFANZIA E RAGAZZI:

  • UNA STORIA DI MOSTRI di Rocio Bonilla (Valentina Edizioni). Due gemelline amano fare dolci, e per acquistare gli ingredienti, ogni sabato vanno al mercato. Un giorno, però, scoprono qualcosa di terrificante: i negozianti sono in realtà mostri sotto mentite spoglie... Età di lettura: dai 3 anni. Per saperne di più: scheda libro.
  • VOGLIO DIVENTARE UN FANTASTICO VETERINARIO di Anna Claybourne (Espress). Tutto ma proprio tutto quello che bisogna sapere per essere degli eccezionali veterinari, con tante attività ed esercizi. Età di lettura: dai 7 anni. Per saperne di più: scheda libro.
  • LE STRAORDINARIE AVVENTURE DI ALICE TONKS di Emily Kenny (Uovonero). Alice Tonks è una ragazzina autistica al primo giorno di scuola e scopre di poter parlare con gli animali. È l'inizio di un'avventura per lei inaspettata e dovrà usare i suoi poteri per scoprire chi rapisce gli animali e perché. Età di lettura: dagli 11 anni. Per saperne di più: scheda libro.
 
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from cronache dalla scuola

Con i ragazzi al cinema a vedere il ragazzo dai pantaloni rosa, classi di seconda e terza, sala piena, appena si spengono le luci e partono i primi fotogrammi inizia il casino: sfottò, sento qua e là la parola “frocio”, allora mi alzo, mi giro verso l'intera sala e – illuminato dai raggi del proiettore – faccio un cazziatone che quando mi risiedo per un po' non si sente una mosca volare e io penso, pure il maschio alfa mi hanno costretto a fare, pure il maschio alfa.

Il film onestamente temevo potesse essere una di quelle cose inguardabili didascaliche italiane invece, non è un capolavoro, ci sono alcuni attori che proprio non mi piacciono, ma è dignitoso in diverse delle sue parti. Visto lo scopo per cui è stato scritto, efficace. Ci sono anche alcune scene interessanti come anche l'uso della messa a fuoco.

Durante la visione i ragazzi poi hanno seguito, un po' di casino ogni tanto, ma il grosso ha seguito. Hanno anche partecipato, due momenti chiave: quando il ragazzino bacia la ragazzina, tutta la sala scoppia in un applauso. Quando invece, precedentemente, il ragazzo aveva baciato sul petto un altro ragazzo la sala era scoppiata in un mormorio di chiaro disagio.

Alla fine si accendono le luci, c'è pure qualcuno che ha pianto, anche tra i docenti e noi docenti proviamo ad accendere un po' di discussione, ci siamo presi mezz'ora la sala per discutere un po' e – devo dire – ci sono una cinque o sei ragazzi che si mettono in gioco, io e altri docenti lanciamo un po' di domande, e loro rispondono sul pezzo, dicono cose personali, non hanno vergogna.

C'è chi ha subito bullismo e ha vissuto in prima persona la separazione dei genitori, come il protagonista, e lo racconta; c'è chi è apertamente omofobo e non solo non è omosessuale – ma è contro. E si vede come lì in mezzo ci siano i futuri omofobi anche tossici dell'età adulta. C'è un grosso lavoro da fare. Costante.

Quando andavo verso il cinema mi ero preparato un discorso, che poi non ho fatto perché non è servito, di come io alle medie, a Manesseno, in una scuola un po' borderline, sentissi spesso espressioni come “oh, ma sei frocio?”, usate per indicare qualsiasi cosa. Essere frocio era una sorta di handicap, generale, ma che andava a danneggiare un gruppo che – nella mia vita scolastica – è sempre stato invisibile. Per tutte le medie e le superiori non ho mai conosciuto un compagno che si dichiarasse pubblicamente o privatamente omosessuale. Anni ottanta e esseri fantastici, ma usati frequentemente nelle schermaglie di classe.

Quando poi avevo avuto dei figli, con l'arrivo del digitale, avevo visto nascere sensibilità lgbt molto più consapevoli, identità di genere, rispetto, tanto che avevo ingenuamente pensato che parole come “frocio” fossero ormai da boomer, da sfigati. Invece negli ultimi anni le ho viste riemergere in classe, nei momenti informali, intervallo, fuori da scuola.

In auto, mentre vado al cinema, chiedo aiuto anche a terzogenita, le racconto la trama del film e le chiedo se nella sua classe ci sono ragazzi omofobi. Lei ci pensa, mi dice che alle elementari no, alle medie sì. “E come te ne sei accorta?” le chiedo. Lei dice tipo con i meme. “Ce ne è uno che è chiedere “english or spanish?” e poi devi dire “chi si muove è gay!”, e quando me lo hanno fatto io ho fermato il gioco e ho detto, beh, scusate, ma se anche fosse? che c'è di male a essere gay?“. Terzogenita ha una bella testolina.

Al cinema poi, davanti ai duecento studenti racconto l'aneddoto di mia figlia e loro ridono, conoscono tutti il meme però dicono che quello non è essere omofobi. È uno scherzo. È assorbito socialmente tanto che non si rendono nemmeno conto del significato. “Però – dico io – non sono d'accordo”. Rido. Penso che a dire 'chi si muove è gay', o 'ma sei frocio?' si faccia comunque una violenza e si normalizzi un certo modo di vedere il mondo. Lo si giustifichi. Il solito “ma fattela una risata!” che imperversa su Facebook tra gente che ha frainteso cosa sia il senso dell'umorismo. Anche qua, ci sarà molto lavoro da fare.

Alla fine di tutto comunque, esco, e la differenza vera non l'abbiamo fatta noi docenti, ma quei cinque o sei ragazzi che si sono messi in gioco, anche quelli che hanno dichiarato la loro omofobia. La scuola riesce a dire qualcosa di sensato quando riesce ad ascoltare i ragazzi che si raccontano e riesce ad accordare il suo linguaggio con il loro.

Credo.

 
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from f.75sx

Tra le Luci del Fediverso

Scorrendo tra piattaforme e server, mi sono imbattuto nel Fediverso: un angolo di rete che pulsa di comunità libere, lontano dalle logiche delle grandi corporate. Non è un sistema unico, ma un mosaico di connessioni, ognuna con la sua storia e le sue regole.

In questo blog voglio raccontare la mia esperienza: come ho scoperto questo ecosistema decentralizzato, cosa lo rende diverso e perché vale la pena esplorarlo. Non è un viaggio epico, ma una curiosità che si trasforma in scoperta, un passo alla volta.

Benvenuti nel mio angolo di rete, dove tutto si muove a ritmo di scelte condivise e libertà digitale.

#Fediverso #EsperienzaDigitale #Scoperta

 
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from Bymarty

È passato del tempo, ho scritto, atteso. Oggi, scrivo qui, dove non so chi legge! Il 12 ho iniziato la radioterapia, xcio' l'ultima delle tre terapie, che mi aiuteranno a mandare via, o nel mio caso a non fare tornare più questo piccolo grande male! È sicuramente una giornata no, sono triste, stanca, demotivata e chi di solito mi sostiene oggi l'ho sentito distante e molto, io che ho fatto tanto affidamento su di lui, non appena mi lascia la mano, io cado e mi perdo, ci sto male e quindi non va niente bene! Mi dice sempre di esserci, ma oggi nn c'è per me, nn voglio compassione, voglio solo sentirmi ancora legata, invece ho come l'impressione che nel momento stesso in cui sono fin troppo sincera, non vado bene, posso avere i miei momenti no, tristi, posso essere fragile, voglio poter a volte piangere, sfogare, liberare quello che ho dentro! Voglio solo coltivare la nostra amicizia nient'altro, voglio ricominciare a godermi ogni attimo, voglio poter essere me stessa, anche se adesso sono più fragile, perché sto affrontando questa malattia! Mi manchi tanto amica mia , mi manchi tu mia fedele compagna di viaggio e mi manca anche l'amico, il tesoro ritrovato..

 
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from Recensioni giochi PC, PlayStation e Xbox

Devo ammetterlo, è da un po' che non mi immergo in un vero e proprio Soulslike. Dopo ore e ore spese a esplorare mari sconfinati su Sea of Thieves, con la sua atmosfera rilassata e pirata, mi sono trovato a desiderare qualcosa di diverso. Qualcosa di più intenso. Quando ho visto i trailer di Black Myth: Wukong, mi è sembrato di tornare ai vecchi tempi, quelli in cui affrontare un boss gigantesco in un universo oscuro e mitologico era una sfida che non potevo ignorare.

Villaggio abbandonato: Un piccolo villaggio diroccato immerso in un ambiente oscuro, con case distrutte e una strana figura che si intravede tra le ombre.

Un Ombra dei Soulslike

La prima cosa che mi ha colpito di Black Myth: Wukong è quanto sembri prendere a cuore l’eredità dei giochi Soulslike. Dai movimenti del protagonista ai colpi devastanti dei boss, ogni frame trasuda una familiarità che ti fa sentire a casa. Eppure, non è una copia carbone. Wukong prende il DNA di giochi come Dark Souls o Sekiro: Shadow Die Twice e lo infonde di una mitologia orientale che, almeno per me, è come una ventata d’aria fresca.

Prendi i combattimenti, ad esempio. Non è solo una questione di difficoltà. I Soulslike sono famosi per il loro approccio metodico: osserva, impara, colpisci. In Black Myth: Wukong, sembra che ogni boss abbia una personalità propria, uno stile unico che ti costringe a ripensare continuamente alla tua strategia. È come danzare con un partner imprevedibile, dove ogni passo sbagliato ti costa caro. E, onestamente, non è proprio questo che rende un Soulslike così speciale?

Paesaggio montano nebbioso: Una vista mozzafiato di montagne avvolte nella nebbia, con un tempio antico visibile in lontananza, incorniciato da un cielo grigio.

Una Mitologia Che Parla

Se c’è una cosa che differenzia Black Myth: Wukong dagli altri giochi del genere, è il suo legame profondo con la mitologia cinese. Il protagonista, Sun Wukong, è una figura leggendaria che risale al classico della letteratura “Il Viaggio in Occidente”. Ma non è solo la storia di Wukong a rendere il gioco affascinante; è tutto il mondo che gli ruota attorno. Déi, demoni e creature bizzarre sembrano usciti direttamente da antiche pergamene e storie tramandate di generazione in generazione.

Guardando le creature nei trailer, non potevo fare a meno di pensare a quanto fossero vive. Non erano solo nemici da abbattere, ma veri e propri personaggi, ognuno con una storia da raccontare. Ed è qui che Wukong supera molti Soulslike: non ti lancia contro un mondo solo per il gusto della difficoltà. Ti invita a esplorarlo, a scoprirlo, come un vecchio racconto attorno a un falò.

Sun Wukong in una foresta mitica: Il protagonista, Sun Wukong, brandisce il suo bastone dorato in una foresta avvolta da una luce eterea, circondato da alberi antichi e radici contorte.

L’Impatto del Combattimento

Se sei come me, un appassionato di giochi che premiano la precisione, saprai quanto sia importante sentire ogni colpo. Ogni attacco deve avere peso, ogni schivata deve sembrare guadagnata. Black Myth: Wukong sembra capire questa dinamica alla perfezione. C'è qualcosa di incredibilmente soddisfacente nel vedere Wukong usare il suo bastone in modi sempre diversi, trasformandosi e adattandosi alle situazioni. E non parliamo solo delle animazioni: è il ritmo del combattimento, quella danza tra attacco e difesa che rende ogni scontro un evento memorabile.

Mi ricorda i miei primi passi su Dark Souls, quando affrontare il Gargoyle sul tetto era una questione di vita o di morte. Ogni movimento contava, e l'adrenalina scorreva come mai prima. Con Wukong, sembra di rivivere quelle sensazioni, ma con un tocco di spettacolo in più. Non mi sorprende che tanti stiano aspettando il gioco proprio per i suoi combattimenti spettacolari.

Wukong in trasformazione: Sun Wukong si trasforma in una creatura mitologica durante un combattimento intenso, con il suo bastone che si allunga verso il nemico.

Un Mondo Da Scoprire

Non è solo il combattimento, però. I Soulslike hanno sempre avuto mondi che sembrano vivi, pieni di segreti da scoprire e di storie da interpretare. Black Myth: Wukong sembra spingere ancora oltre questa idea. La varietà degli ambienti mostrati nei trailer è incredibile: foreste lussureggianti, montagne nebbiose, templi abbandonati. Ogni luogo sembra raccontare una storia, ogni dettaglio sembra mormorare segreti antichi.

Mi ha ricordato quando per la prima volta ho messo piede a Lordran in Dark Souls. C'era questa sensazione di meraviglia e terrore, come se ogni passo potesse rivelare qualcosa di straordinario o portarmi alla rovina. Con Wukong, quella stessa sensazione sembra tornare, ma con un filtro mitologico che aggiunge profondità e mistero.

Creatura demoniaca in primo piano: Un demone con corna contorte e occhi fiammeggianti emerge dall’oscurità, pronto ad attaccare, con dettagli intricati e una pelle rugosa e spettrale.

Perché Amiamo i Soulslike?

A questo punto, mi sono chiesto: perché giochi come Black Myth: Wukong attirano così tanto? Certo, c’è la sfida, ma c'è di più. Credo che sia la sensazione di superare qualcosa di impossibile. Quando finalmente abbatti quel boss che sembrava invincibile, quando scopri quel segreto nascosto che ti fa vedere il mondo sotto una nuova luce, è una vittoria che va oltre il gioco.

E poi c'è la comunità. Parlare delle proprie sconfitte, delle vittorie sudate, dei piccoli dettagli che altri potrebbero aver perso. Ricordo ancora i lunghi dibattiti su quale fosse la build migliore per affrontare Artorias o come trovare ogni pezzo della storia di Bloodborne. Con Wukong, immagino già quelle conversazioni, quei momenti di condivisione che rendono questi giochi un’esperienza collettiva, oltre che personale.

Scontro epico contro un boss: Wukong affronta una creatura gigantesca e mostruosa in una radura tempestosa, con fulmini che illuminano la scena.

Aspettando Wukong

Mentre aspetto l'uscita di Black Myth: Wukong, mi rendo conto che la mia pausa dai Soulslike potrebbe finalmente finire. C'è qualcosa di magico in questo gioco, qualcosa che mi chiama. Forse è la nostalgia, forse è la curiosità di vedere come questa formula possa evolversi con un tocco di mitologia orientale. Per ora, mi accontento di sognare, di immaginare quelle battaglie epiche e quei momenti di pura adrenalina. E quando finalmente il gioco arriverà, sarò pronto, bastone alla mano, pronto a immergermi in un’avventura che promette di essere indimenticabile.

 
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