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from L' Alchimista Digitale

Benvenuti al teatro senza biglietto C’è chi entra a teatro con il biglietto in mano, in fila davanti al botteghino, pronto a farsi avvolgere dal buio della sala e dal fascio di luce sul palco. E poi ci siamo noi, che a teatro ci entriamo senza volerlo. Ogni giorno. Senza sipario, senza posto numerato, senza applausi finali. Il teatro della vita non ha registi dichiarati, solo improvvisatori maldestri. L’assurdo, in questo spettacolo, non è un ospite inatteso: è il protagonista fisso. Lo troviamo al supermercato, davanti allo scaffale della pasta, quando due signore litigano se sia meglio la penna rigata o la liscia, con lo stesso fervore con cui i filosofi greci discutevano di metafisica. Oppure sull’autobus, quando un signore racconta a voce alta le proprie vicende mediche a passeggeri sconosciuti, trasformando il viaggio in una tragedia clinica. E noi, spettatori e attori al tempo stesso, restiamo intrappolati in questa rappresentazione permanente. Il filosofo Erving Goffman, con il suo “La vita quotidiana come rappresentazione”, ci aveva già avvertiti: “ogni gesto, ogni parola, è parte di un copione sociale. Il problema è che spesso quel copione fa acqua da tutte le parti.” Pensiamoci: quante volte ci siamo trovati a sorridere in riunioni noiose, recitando un entusiasmo inesistente, come comparse in una commedia scadente? Quante volte abbiamo applaudito frasi banali solo perché pronunciate dal capo di turno, come se fossero battute di Shakespeare? La vita è un palcoscenico dove si applaude più per convenzione che per convinzione. Eppure, nonostante l’assurdità, in questo spettacolo ci troviamo a nostro agio. Perché nell’improvvisazione, a volte, c’è verità. L’uomo che inciampa sul marciapiede e si rialza con finta disinvoltura, la signora che parla con il cane come fosse un Nobel per la letteratura, il ragazzo che scrive poesie sui tovaglioli del bar… tutto questo ci ricorda che non c’è differenza netta tra palco e platea. Pirandello ci aveva visto lungo: “Così è, se vi pare”. Ogni individuo indossa una maschera diversa, a seconda della scena che deve affrontare. Il problema non è la maschera, ma dimenticare che dietro ce n’è sempre un’altra. E che, forse, sotto tutte le maschere non resta un volto, ma un altro sipario. Il bello dell’assurdo è che non ha bisogno di effetti speciali. Un vicino di casa che canta alle tre di notte convinto di essere Pavarotti, un impiegato che discute animatamente con la macchinetta del caffè, un politico che promette serietà con la stessa convinzione con cui un illusionista giura di non avere trucchi nelle maniche. E noi ridiamo, scuotiamo la testa, ma in fondo sappiamo che facciamo parte dello stesso gioco. Il teatro della vita è gratuito, ma non per questo meno impegnativo. Richiede presenza, adattamento, un minimo di spirito critico e, soprattutto, la capacità di non prendersi troppo sul serio. Perché se non riusciamo a ridere dell’assurdo, rischiamo di esserne schiacciati. Allora, forse, la vera filosofia non è quella che cerca verità assolute nei libri polverosi, ma quella che si esercita nel quotidiano: nell’arte di osservare, di sorridere, di capire che anche un litigio sul parcheggio può avere la dignità di una tragedia greca. È un modo di “divulgare” filosofia senza renderla spicciola: riportarla alla vita, dove è nata, tra mercati, piazze e osterie. E se proprio dobbiamo accettare di essere parte di questa commedia infinita, tanto vale imparare a godercela. Non c’è prova generale, non c’è serata d’esordio. Si va in scena tutti i giorni, spesso impreparati, e il pubblico — che poi siamo noi stessi — non sempre è clemente. Ma forse è proprio questo il segreto: accettare l’imperfezione come parte del copione. Ridere quando sbagliamo battuta, improvvisare quando dimentichiamo le parole, sorridere quando la scena sembra tragica. Perché, alla fine, in questo teatro senza biglietto, l’assurdo non è il nemico da combattere, ma l’alleato che ci ricorda che siamo vivi. Che non siamo macchine, ma esseri capaci di cadere e rialzarci, di ridere e piangere, di cambiare ruolo da un atto all’altro. Allora, benvenuti a teatro. Lo spettacolo è già iniziato, e non ci sarà replica. Tanto vale, almeno, divertirsi un po’.

 
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from Verona per la Palestina

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“There is no one who loves pain itself, who seeks after it and wants to have it, simply because it is pain...”

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from PIXEL THROUGH YEARS

afc76123-afab-45c7-84e4-631af11f630e.png C’è stato un periodo, tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, in cui una cifra bastava a vincere una discussione al bar: 8, 16. Quella cifra – i “bit” – era insieme slogan, promessa e arma psicologica. In realtà spiegava poco di clock, bus, chipset o pipeline grafiche, ma bastava a trasformare due aziende giapponesi in bandiere identitarie: Nintendo e Sega. Non fu soltanto una competizione tecnica; fu soprattutto una guerra di narrazioni. Ed è qui che nasce il fenomeno che oggi chiamiamo “console war”: un conflitto di immaginari in cui i prodotti diventano tribù, e il marketing plasma il gusto, la cultura e persino la moralità del videogioco.

Dai bit al mito: quando una specifica diventa un movimento

Se guardiamo sotto il cofano, lo scontro 8-bit vs 16-bit è fatto (anche) di differenze reali: CPU diverse, architetture audio opposte, soluzioni grafiche peculiari. Ma non è questa la parte che ha infiammato i salotti. La parola “bit” funziona perché è semplice. È un indicatore ascendente – più è alto, più “è meglio” – e consente di vendere “il prossimo livello” con una chiarezza che travolge le sfumature. Il paradosso è che la percezione di potenza conta più della potenza effettiva: l’idea di velocità, di ritmo, di “cattiveria” sonora o di profondità cromatica diventano segnali identitari leggibili in un trailer di 30 secondi, in un annuncio su rivista, nel passaparola a scuola.

Nintendo la gioca “di sistema”: affidabilità, coerenza estetica, controllo ferreo della qualità. Sega la gioca “di frizione”: aggressiva, ironica, laterale. Una vende il sigillo (la promessa che il gioco “funziona ed è buono”), l’altra vende la sfida (il gioco “ti fa sentire grande, veloce, diverso”).

Due voci, due pubblici: il marketing come posizionamento culturale

Nintendo arriva dall’epoca 8-bit con un capitale simbolico enorme: Mario non è solo una mascotte, è un linguaggio. L’azienda costruisce un ecosistema rassicurante, familiare, normativo: l’eroe positivo, il colore pieno, l’artigianato del level design. Strumenti chiave: il “Seal of Quality”, la rete distributiva ordinata, le politiche di licenza severe che riducono il caos post-crash dei primi anni ’80. Il messaggio è: “Qui il videogioco è al sicuro. È intrattenimento per tutti, pulito, rifinito”.

Sega sceglie l’angolo opposto. Il tono di voce è spigoloso, urbano, sarcastico. Gli spot sono taglienti, i claim memorabili (“Welcome to the Next Level” su tutti). Sega costruisce il proprio pubblico con una promessa punk: “non siamo l’infanzia, siamo l’adolescenza”. L’estetica è più rapida, la musica più metal, i giochi sportivi gonfi di licenze e statistiche, le conversioni arcade che “suonano” come la sala giochi del centro commerciale. È la marca che flirta apertamente con il cool.

Questa distinzione – rassicurazione vs trasgressione controllata – segmenta il mercato. Non si tratta solo di età; è una questione di aspirazione. Nintendo è l’universale; Sega è l’appartenenza.

Mascotte come manifesto: Mario e Sonic, due idee di velocità

Quando Sonic arriva, non è semplicemente un personaggio: è un manifesto di prodotto. Il riccio blu incarna la velocità come emozione primaria. Level design allungato, loop, piani multipli, colonna sonora che spinge. In copertina non vedi solo un mondo, vedi un atteggiamento. Mario, al contrario, è la grammatica pulita del platform: progressione leggibile, controllo millimetrico, sorpresa modulata. Se Sonic è “wow”, Mario è “ah!”. Due tempi emotivi diversi, due pubblici potenzialmente sovrapposti ma esteticamente distanti.

Il marketing trasforma queste differenze in identità totalizzanti: poster, bundle, demo nei negozi, riviste dedicate, rubriche, segreti. La mascotte non rappresenta più una line-up: rappresenta uno stile di vita ludico.

Tecnologia come retorica: Mode 7, “blast”, suoni che diventano carattere

Nel dettaglio tecnico, la generazione 16-bit porta strumenti nuovi che il marketing sa tradurre. Il Mode 7 diventa la parola magica invisibile che spiega perché F-Zero e Pilotwings sembrano “ruotare e volare”: non interessa davvero come funzioni, interessa che fa effetto. Dall’altra parte, la retorica della “potenza bruta” – la velocità percepita, l’FM sintetico dei chip audio che graffia – lega i giochi Sega a un immaginario “stradale”, adrenalinico.

Il punto non è chi “vince” sul banco da laboratorio. Il punto è come la tecnologia diventa raccontabile. L’utente recepisce immagini-ancora: rotazioni, scaling, scie sonore, scroll parallax. Sono “prove” che giustificano la spesa ai genitori, la scelta identitaria con gli amici, la fedeltà alla marca.

La politica dei contenuti: licenze, esclusività, rating

La vera trincea della guerra non è il silicio: sono i contenuti. Nintendo difende l’ecosistema con linee guida rigide, cura meticolosa, un equilibrio tra first party e partner selezionati. Sega spinge sulle licenze sportive, sulle conversioni arcade e – nodo cruciale – accetta contenuti più maturi quando serve spostare il baricentro demografico. La disputa intorno a giochi violenti porta alla nascita di sistemi di classificazione moderni: non è solo PR, è politica culturale. Anche qui il marketing traduce in narrativa: “noi trattiamo i giocatori come adolescenti-adulti”, oppure “noi proteggiamo l’esperienza familiare”.

Sul piano commerciale, esclusive e finestre temporali determinano traiettorie di crescita. Ogni JRPG, picchiaduro o racer first party non è solo un titolo; è un argine per tenere la community dentro il recinto.

Retail, bundle, riviste: l’ecosistema dove la guerra tocca terra

La guerra dei bit si gioca anche sugli scaffali. I bundle non sono soltanto offerte, sono cornici di senso: console + platform iconico significa “compra l’idea completa”. Le demo station nei negozi e i chioschi promozionali fanno da sala prove collettiva. La stampa specializzata e le riviste ufficiali diventano organi di partito: anteprime, walkthrough, poster, rubriche di trucchi. La fedeltà al marchio si costruisce nel tempo, attraverso una dieta mediatica coerente. È il primo, vero media mix del videogioco domestico.

Europa e Italia: il filtro delle culture locali

Nel mercato europeo la “voce” dei due marchi passa attraverso agenzie, doppiaggi, palinsesti TV e, in paesi come l’Italia, attraverso la rete capillare delle edicole: le coverstory e i voti delle riviste incidono sull’immaginario più degli spot. Il negoziante di quartiere diventa spesso evangelista di una delle due fazioni, con vetrine allestite ad arte, cartellonistica e tornei informali. La guerra è globale, ma arriva locale: adattamenti, prezzi, disponibilità, perfino la traduzione dei manuali. È un promemoria potente: il marketing migliore è quello che sa parlare dialetti.

Perché quella guerra conta ancora oggi

Guardando dall’oggi, la lezione è sorprendentemente attuale:

Il numero non basta, ma aiuta

Una metrica semplice – anche imperfetta – è un gancio mnemonico. Oggi sono i teraflops, ieri erano i bit. Servono per aprire la porta a una conversazione emotiva.

La brand voice definisce i confini del gioco

Rassicurazione vs ribellione, family vs teen. Non sono slogan: sono policy operative su contenuti, partnership, community management.

Il contenuto è diplomazia

Esclusive, licenze, prime parti: non sono colpi estemporanei, sono trattati che spostano popolazioni di giocatori.

La tecnologia va resa visibile

Mode 7 ieri, ray tracing oggi: l’hardware convince quando ha momenti dimostrativi che l’utente può ricordare e raccontare.

Locale batte globale

Dalla rivista al negozio, dai tornei al linguaggio degli spot: la cultura si costruisce vicino alle persone.

Riquadro critico · “Blast processing” e altri miti utili

Il termine “blast processing” è l’emblema della retorica tecnica anni ’90: un’etichetta suggestiva per comunicare che “qui le cose scorrono più veloci”. Non importa la precisione filologica; importa l’effetto cognitivo. È una tecnica che il marketing tech continua a usare: condensare complessità in un’immagine mentale. Da addetti ai lavori, dobbiamo leggere questi claim per quello che sono: metafore operative, non datasheet.

Epilogo: la pace impossibile

La guerra dei bit non è mai davvero finita; ha solo cambiato campo di battaglia. Oggi si combatte su ecosistemi digitali, servizi in abbonamento, retrocompatibilità, pipeline first party, community e creator economy. Ma la dinamica è la stessa: trasformare il freddo della tecnologia nel caldo di un’appartenenza. Nintendo e Sega, con voci opposte e spesso complementari, hanno stabilito il canone: il videogioco non si vende solo promettendo ciò che fa, ma promettendo chi ti fa diventare.

Nel resto del mese torneremo su questi temi entrando nel merito dei generi, delle periferiche e dei casi studio che hanno reso l’era 8/16-bit una palestra di marketing ancora attuale. Perché, numeri a parte, quella stagione ha insegnato all’industria come creare mondi prima ancora che macchine. E a noi giocatori ha dato, per la prima volta, il diritto di scegliere una bandiera.

 
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from chiaramente

A new blossom unfurls In my conscience Beautiful and dark and heady. I want to cherish each petal Of the flower of loss, But I can't forget the garden: My weeds need tending, too.

 
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from Bymarty

✍️ Ci sono momenti in cui sembra che il terreno sotto i piedi si apre e tu ti ritrovi giù senza capire, a volte la caduta è lenta, altre volte è uno schianto improvviso. Può essere un sogno non realizzato, un’amicizia che si è incrinata, un' attesa che continua e ti logora! Ma cadere fa parte del viaggio, non significa non valere abbastanza, o non essere forte, bensì che ci stai provando, tra alti e bassi salite, discese e momenti in cui serve fermarsi a riprendere fiato, ciò che conta è il dopo, restare lì a guardare le macerie… oppure iniziare a costruire qualcosa di nuovo, da capo..Le sconfitte fanno male, ma nascondono piccoli semi, che se curati, innaffiati, germoglieranno e daranno nuovi frutti col tempo!Così nasce una nuova consapevolezza, si cambia, si cresce, la donna di oggi, accompagna quella che sarà domani, un passo, poi un altro, finché il paesaggio dall’altra parte comincia ad essere più chiaro, definito e bello! A volte capita di sentirsi giù, stanchi, soli, tristi, e vorresti tornare indietro, essere migliore, più forte, insomma di più di quello che si è, ma bisogna pensare a costruire una versione diversa, nuova, trasparente, che prima non c’era, perché nascosta per paura, timore o insicurezza! Ecco manca poco, tra un po' un nuovo anno, un giorno come tanti, la musica di Vasco come sottofondo, mentre gli ultimi minuti, scorrono veloci, in una serata come tante, per me diversa, chissà e allora che sia un giorno da colorare, emozionare, respirare e vivere come sempre, più di sempre...

 
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from Revolution By Night

Il linguaggio modella il nostro pensiero e la realtà che ci circonda. La parola è creatrice.

Due concetti ovvi, semplici, ma che tocca ricordare in un tempo in cui qualcuno sta cercando di ridefinire un mondo che era già abbastanza iniquo e assurdo per molti di noi.

Lo spunto mi arriva dalle parole dette qualche tempo fa da uno dei più fulgidi rappresentanti, o almeno così è considerato dai suoi, dell'intellighenzia neo-fascista. E che ne definisce impietosamente la cifra.

Con le sue ubique ospitate televisive è quanto di meglio questa Destra è riuscita ad esprimere per imporre la sua egemonia culturale. Un personaggio che vent'anni fa era considerato una nullità dai suoi stessi compagni di partito e dal suo Segretario, che lo aveva collocato in una posizione dove non potesse nuocere. Ma con la Meloni viene riesumato e proposto come giornalista-intellettuale-opinionista-portavoce nonché “esperto di numeri” (giuro, si auto-definisce così).

L'antefatto: il provvedimento del presidente argentino Milei, che qualche mese fa con una legge dello Stato ha stabilito che riguardo alle persone con disabilità mentali e fisiche potranno essere usati termini come ritardato mentale, handicappato, mongoloide, idiota e imbecille nei documenti ufficiali e nei rapporti con le istituzioni pubbliche.

Ciò significa che tutte le famiglie argentine con figli o parenti disabili saranno costrette, ad esempio, a firmare i moduli di richiesta di un sussidio, o di qualsiasi altro tipo di sostegno, nei quali i loro figli o parenti sono chiamati con quegli appellativi.

In tempo zero, buttate nel cesso conquiste fondamentali in tema di disabilità come la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), pubblicato dall’American Psychiatric Association, oggi utilizzato in tutto il mondo.

Insomma, una mostruosità disumana, civile, giuridica e scientifica.

Visto l'andazzo non mi stupirei se i prossimi passi dell'amico sudamericano della Meloni saranno quelli di una vera e propria discriminazione, dell'emarginazione sociale, del rifiuto e magari dell'internamento. Un processo che se adottato in altre parti del mondo potrebbe rievocare lo spettro dell'eugenetica. Futuro distopico? A me sembra di esserci già dentro fino al collo.

Il commento del nostro piccolo individuo, in una nota trasmissione televisiva, fu più o meno questo (per estremo rigore non metto “”, ma in rete si trova “tutto il girato”): con il politically correct si è andati troppo oltre, se Milei ritiene che sia giusto usare quei termini dobbiamo rispettare la sua opinione e la decisione di uno Stato sovrano. E in fondo si tratta solo di parole, ognuno può usare quelle che preferisce. Io sono per la libertà di pensiero e di parola.

Sovranisti un tanto a parola e comunque sempre col culo degli altri.

Questo stanno facendo le destre e personaggi pericolosissimi come Trump, Putin, Milei, Bolsonaro, Orban, partiti come FdI, Vox, AfD, Lega-Felpini e la grottesca bassa manovalanza come il succitato novello filosofo: criticano, sbeffeggiano e denigrano il politically correct, l'uso politico delle parole da parte della cultura di sinistra egemone (ci credono solo loro), ma cercano con tutte le loro forze di rimodellare il nostro pensiero e il mondo che conosciamo con le loro parole e il loro linguaggio di intolleranza, razzismo, violenza e disumanità.

Serve una lotta dura e senza quartiere, serve risvegliarsi dal torpore e sollevarsi.

Now playing: “Mr. Crowley” Blizzard of Ozz – Ozzy Osbourne – 1980

R.I.P. Godfather of Metal.

 
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from Recensioni giochi PC, PlayStation e Xbox

Se c’è una cosa che “Visions of Mana” riesce a fare con maestria, è farci sognare. Dopo quasi due decenni dall’uscita di “Dawn of Mana” su PlayStation 2, il quinto capitolo della serie principale ci riporta nel mondo incantato di Mana. Eppure, nonostante la lunga attesa, “Visions of Mana” non si limita a cavalcare l’onda della nostalgia; si reinventa, ci sorprende e, soprattutto, ci emoziona.

L’Albero e la Dea: un Eterno Ritorno

Nel cuore della storia, come da tradizione, troviamo l’Albero del Mana e la sua rappresentante divina, la Dea del Mana. Sono simboli immutabili di vita e speranza, minacciati da un male che si insinua come una crepa nella quiete di un quadro idilliaco. Ciò che rende speciale “Visions of Mana” è il modo in cui rielabora questa formula consolidata. Non è solo una lotta tra bene e male, ma un viaggio nei legami tra i personaggi, tra passato e presente, tra sogno e realtà.

Una foresta incantata illuminata da luci soffuse.

Mentre i protagonisti affrontano sfide titaniche, si percepisce un senso di vulnerabilità. Non sono eroi invincibili; sono esseri umani (o quasi), con dubbi e paure. Questo aggiunge una profondità emotiva che raramente si vede in giochi di ruolo tradizionali.

Arte e Atmosfera: Dipingere un Sogno

“Visions of Mana” è, senza mezzi termini, un capolavoro visivo. Ogni ambiente sembra uscito da un libro di fiabe dipinto a mano, con colori che esplodono in mille sfumature. Passeggiare nei boschi luminosi o tra le rovine immerse nella nebbia è un piacere per gli occhi, ma anche per l’anima. Ti senti davvero trasportato in un altro mondo, uno dove la bellezza non è solo estetica, ma parte integrante dell’esperienza narrativa.

Cammino lentamente tra gli alberi, avvolto in una luce dorata che sembra quasi magica. Le foglie danzano al vento, e ogni passo mi porta più vicino al cuore del Mana.

Il design dei personaggi è altrettanto ispirato. Ogni protagonista ha un’identità visiva che racconta una storia: dal giovane idealista con il mantello consunto, alla guerriera dagli occhi fieri e il passato tormentato. Si percepisce una cura quasi maniacale nei dettagli, dal ricamo sui vestiti alle espressioni facciali nei momenti più intensi.

E poi c’è la musica. Ah, la musica! Un misto di melodie orchestrali e brani più intimi che ti entrano dentro e non ti lasciano più. Ogni nota sembra progettata per amplificare l’emozione di una scena, sia essa una battaglia epica o un momento di riflessione silenziosa. Non posso fare a meno di ricordare un momento specifico: un tramonto infuocato, il protagonista che guarda l’orizzonte e un tema musicale che sembra quasi parlarti, ricordandoti la bellezza e la fragilità della vita.

Un Gameplay dal Cuore Nostalgico, ma con una Marcia in Più

Se c’è un elemento che mi ha sorpreso, è il gameplay. La serie Mana è sempre stata conosciuta per il suo sistema di combattimento action e la sua semplicità accattivante. “Visions of Mana” mantiene questa tradizione, ma con alcune aggiunte che lo rendono fresco e coinvolgente.

Un personaggio che osserva un tramonto mozzafiato.

Il sistema di crescita dei personaggi è una delle novità più interessanti. Invece di un semplice accumulo di punti esperienza, il gioco ti invita a prendere decisioni che influenzano lo sviluppo delle abilità. Vuoi che il tuo mago diventi un maestro degli incantesimi distruttivi o preferisci che si concentri su supporto e guarigione? Le scelte sono tue, e ogni decisione ha un peso.

Le battaglie sono fluide e dinamiche, con una sensazione di impatto che mancava nei capitoli precedenti. Eppure, non è tutto azione e adrenalina. Ci sono momenti di calma, enigmi da risolvere e segreti da scoprire che ti fanno rallentare e apprezzare il mondo che ti circonda. È un equilibrio perfetto tra ritmo e riflessione.

Momenti che Restano nel Cuore

Ci sono stati momenti in cui ho dovuto posare il controller e respirare profondamente, sopraffatto dalle emozioni. Ricordo un dialogo tra due personaggi che, senza spoilerare troppo, parlavano di perdita e redenzione. Non era solo una scena scritta bene; era umana, vera. Mi sono rivisto in quelle parole, in quelle emozioni. E credo che molti giocatori faranno lo stesso.

Davanti a me, il sole si tuffa all’orizzonte, tingendo il cielo di arancione e rosso. Il protagonista sembra perso nei suoi pensieri, e io con lui.

E che dire dei colpi di scena? Non è solo la trama principale a sorprendere, ma anche le storie secondarie, che spesso nascondono rivelazioni inattese. Una missione che iniziava come una semplice ricerca di un oggetto smarrito si è trasformata in una riflessione sulla memoria e sull’importanza di non dimenticare chi siamo.

Conclusione: Un Classico Moderno

“Visions of Mana” è più di un videogioco. È un’esperienza, un viaggio che ti porta a riflettere non solo sul mondo fantastico che esplori, ma anche su te stesso. Ha i suoi difetti, certo. Forse alcuni dialoghi avrebbero potuto essere più incisivi, o certe missioni meno ripetitive. Ma nel grande schema delle cose, queste sono piccolezze. Se hai apprezzato questa avventura e cerchi altre esperienze simili senza spendere una fortuna, potresti voler acquistare giochi PS4 economici. Se sei un amante dei JRPG o semplicemente un sognatore in cerca di un’avventura che ti tocchi nel profondo, non posso che consigliarti di immergerti in “Visions of Mana”. Non è solo un gioco; è un ricordo che porterai con te, come una melodia che non smetti mai di canticchiare.

 
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from blistok

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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... https://www.silvanobottaro.it/archives/2369


Ascolta: https://album.link/i/1322730583


 
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from μετανοειτε

di Ken Wilber traduzione dallo spagnolo di @guaspito con il supporto di chatGPT download pdf

Dopo aver letto Lo spettro della coscienza di Wilber ho trovato questa illuminante sintesi di alcuni concetti che egli propone, che condivido a beneficio di ogni ricercatore. Il titolo del blog fa riferimento proprio a considerazioni come queste, che indicano la possibilità e la necessità di una nuova prospettiva sulla realtà.

#filosofia #psicologia #mistica #statidicoscienza #religioni #scienza #spiritualità #metanoeite

L'uroboro in forma di simbolo dell'infinito|200

La Filosofia Perenne è quella visione del mondo condivisa dalla maggior parte dei principali maestri spirituali, filosofi, pensatori e perfino scienziati di tutto il mondo. Viene chiamata “perenne” o “universale” perché appare implicitamente in tutte le culture del pianeta e in tutte le epoche. La ritroviamo tanto in India, Messico, Cina, Giappone e Mesopotamia, quanto in Egitto, Tibet, Germania o Grecia. E ovunque essa si manifesti, presenta sempre gli stessi tratti fondamentali: un accordo universale su ciò che è essenziale.

Per noi, uomini contemporanei, che siamo praticamente incapaci di metterci d’accordo su qualsiasi cosa, ciò risulta difficile da credere. Come ha riassunto Alan Watts: “Siamo appena consapevoli dell’eccezionale singolarità della nostra stessa posizione, e perciò ci risulta assai difficile ammettere il fatto evidente che sia esistito un consenso filosofico unico, di ampiezza universale, sostenuto da molti (uomini e donne) che hanno condiviso le stesse esperienze e trasmesso essenzialmente gli stessi insegnamenti, oggi come seimila anni fa, dal Nuovo Messico nel lontano Occidente fino al Giappone nel lontano Oriente.” Questo è davvero notevole. Credo che queste verità di natura universale costituiscano fondamentalmente l’eredità dell’esperienza universale dell’intera umanità, che in ogni tempo e luogo è giunta a un accordo su alcune verità profonde riguardanti la condizione umana e su come accedere al Trascendente. Questa è una maniera per descrivere ciò che è la Philosophia perennis.

TKW: Dici che la Filosofia Perenne è essenzialmente la stessa in culture molto diverse. Ma oggi si sostiene che siano il linguaggio e la cultura a modellare tutto il nostro sapere. Se questo fosse vero, e dato che le diverse culture e linguaggi sono molto differenti tra loro, sarebbe possibile che emergesse una qualche verità universale o collettiva sulla condizione umana? Da questo punto di vista non esisterebbe una condizione umana, in quanto tale, ma solo una storia umana; e quella storia sarebbe molto diversa in ogni caso. Cosa pensi di tutta questa nozione di relatività culturale?

KW: C'è molta verità in ciò. Esiste, senza dubbio, una diversità di culture che possiedono un diverso “sapere locale”, e lo studio di queste differenze è un’attività molto interessante. Ma sebbene la relatività culturale sia reale, essa non rappresenta tutta la verità.

Accanto alle evidenti differenze culturali, come possono essere il tipo di alimentazione, le strutture linguistiche o le usanze di accoppiamento, esistono anche molti altri fenomeni dell’esistenza umana che sono, in larga misura, universali o collettivi. Il corpo umano, per esempio, possiede duecento otto ossa, un cuore e due reni, sia che si tratti di un abitante di New York che di uno del Mozambico, e tanto oggi quanto migliaia di anni fa. Queste caratteristiche universali sono ciò che viene chiamato “strutture profonde”, perché sono essenzialmente le stesse ovunque.

Tuttavia, le diverse culture utilizzano queste strutture profonde in modi molto differenti: come i cinesi che fasciavano i piedi delle loro donne, o i popoli Ubangi che allungavano le loro labbra, oppure attraverso l’uso di tatuaggi, di abiti, nei giochi, nel sesso e nel parto, tutte pratiche che variano considerevolmente da una cultura all’altra. Tutte queste variabili vengono chiamate “strutture superficiali”, perché sono locali anziché universali.

Lo stesso avviene anche nell’ambito della mente umana. La mente umana possiede strutture superficiali che variano tra le diverse culture, e strutture profonde che restano essenzialmente identiche indipendentemente dalla cultura considerata. Ovunque la si trovi, la mente umana ha la capacità di formare immagini, simboli, concetti e regole. Le immagini e i simboli particolari possono variare da una cultura all’altra, ma la capacità di creare tali strutture mentali e linguistiche – e le strutture stesse – è sostanzialmente la stessa ovunque. Così come il corpo umano produce capelli, la mente umana produce simboli. Le strutture mentali superficiali variano ampiamente tra loro, ma le strutture mentali profonde sono, al contrario, straordinariamente simili.

Ebbene, allo stesso modo in cui il corpo umano produce universalmente capelli e la mente produce universalmente idee, anche lo spirito umano genera universalmente intuizioni sul Divino. E queste intuizioni e barlumi costituiscono il nucleo delle grandi tradizioni spirituali di tutto il mondo. Ancora una volta, sebbene le strutture superficiali delle grandi tradizioni sapienziali siano, ovviamente, molto diverse tra loro, le loro strutture profonde sono invece molto simili, e talvolta identiche.

La Filosofia Perenne si occupa fondamentalmente delle strutture profonde dell’incontro umano con il Divino. Perché quelle verità sulle quali induisti, cristiani, buddisti, taoisti e sufi si trovano in completo accordo, tendono a riguardare qualcosa di profondamente importante, qualcosa che ci parla di verità universali e di significati ultimi, qualcosa che tocca l’essenza fondamentale della condizione umana.

TKW: A prima vista, è difficile vedere su cosa potrebbero essere d’accordo il buddismo e il cristianesimo. Quali sono, dunque, i principi fondamentali della Filosofia Perenne? Potresti elencare i suoi temi principali? Quante sono queste verità profonde e questi punti fondamentali di accordo?

KW: Sono molti, ma consideriamo i sette che ritengo più importanti:

  1. Lo Spirito esiste.

  2. Lo Spirito è dentro di noi.

  3. Nonostante ciò, la maggior parte di noi vive in un mondo di ignoranza, separazione e dualità, in uno stato di caduta illusoria, e non si accorge di quello Spirito interiore.

  4. Esiste una via d’uscita da questo stato di caduta, di errore o di illusione; esiste un Cammino che conduce alla liberazione.

  5. Se percorriamo questo Cammino fino in fondo, arriveremo a una Rinascita, a una Liberazione Suprema.

  6. Questa esperienza segna la fine dell’ignoranza fondamentale e della sofferenza.

  7. La fine della sofferenza conduce a un’azione sociale amorevole e compassionevole verso tutti gli esseri senzienti.

TKW: Hai detto molte cose! Procediamo passo dopo passo. Dici che lo Spirito esiste.

KW: Lo Spirito esiste, Dio esiste, esiste una Realtà Suprema, sia che la si chiami Brahman, Dharmakaya, Yahweh, Aton, Kether, Tao, Allah, Shiva: “Molti sono i nomi che riceve l’Uno”.

TKW: Ma come fai a sapere che lo Spirito esiste? I mistici dicono che esiste, ma su cosa basano questa affermazione?

KW: Sull’esperienza diretta. Le loro affermazioni non si basano su mere credenze, idee, teorie o dogmi, bensì sull’esperienza diretta, sull’esperienza spirituale reale.
Questa è la differenza tra i veri mistici e i religiosi dogmatici.

TKW: Ma cosa dire del fatto che si sostiene che l’esperienza mistica non sia una conoscenza valida perché è ineffabile e dunque incomunicabile?

KW: Certamente, l’esperienza mistica è ineffabile e non può essere tradotta completamente in parole, ma lo stesso vale per qualsiasi altra esperienza, che si tratti di un tramonto, del gusto di una fetta di torta o dell’armonia di una fuga di Bach.
In ognuno di questi casi, dobbiamo aver vissuto l’esperienza reale per sapere di cosa si tratta. Ma questo non significa che il tramonto, la torta o la musica non esistano o che siano esperienze non valide. Inoltre, anche se l’esperienza mistica è in gran parte ineffabile, può comunque essere comunicata o trasmessa. Ad esempio, così come la danza può essere insegnata anche se non può essere descritta compiutamente a parole, è possibile anche apprendere una determinata pratica spirituale sotto la guida di un maestro spirituale.

TKW: Ma quell’esperienza mistica che al mistico sembra così vera potrebbe essere semplicemente sbagliata. I mistici possono affermare di fondersi con Dio, ma ciò non garantisce affatto che ciò che affermano sia ciò che accade realmente. Nessuna conoscenza è assolutamente certa.

KW: Sono d’accordo che l’esperienza mistica non sia più certa di qualsiasi altra esperienza diretta. Ma questo argomento, lungi dal minare le affermazioni dei mistici, le eleva in realtà allo stesso livello che io, personalmente, accetto pienamente. In altre parole, lo stesso argomento che si può usare contro la conoscenza mistica può essere applicato a qualsiasi altra forma di conoscenza basata sull’esperienza evidente, inclusa l’esperienza empirica.
Credo di stare guardando la luna, ma potrei sbagliarmi; i fisici credono nell’esistenza degli elettroni, ma potrebbero sbagliarsi; i critici ritengono che Amleto sia stato scritto da un personaggio storico di nome Shakespeare, ma potrebbero essere in errore, e così via.
Come possiamo essere sicuri della veridicità delle nostre affermazioni?
Attraverso ulteriori esperienze.

Ebbene, questo è esattamente ciò che i mistici hanno fatto storicamente nel corso di decenni, secoli e millenni: verificare e affinare le proprie esperienze, un primato di costanza storica che fa impallidire persino la scienza moderna. Il fatto è che questo argomento, invece di screditare le affermazioni dei mistici, conferisce loro — a mio avviso — in modo estremamente adeguato, lo statuto di autentici esperti e conoscitori della loro disciplina, e di conseguenza, gli unici realmente qualificati per formulare affermazioni in materia.

TKW: Molto bene. Ma spesso ho sentito dire che la visione mistica potrebbe in realtà trattarsi di una patologia schizofrenica. Come risponderesti a questa accusa?

KW: Non credo che qualcuno metta in dubbio che certi mistici presentino tratti schizofrenici, o che ci siano schizofrenici che vivono intuizioni mistiche. Ma non conosco alcuna autorità in materia che creda che le esperienze mistiche siano fondamentalmente e primariamente allucinazioni schizofreniche.
È chiaro che conosco anche molte persone non qualificate che la pensano in questo modo, e sarebbe difficile convincerle del contrario nello spazio limitato di questa intervista. Dirò soltanto che le pratiche spirituali e contemplative utilizzate dai mistici – come la preghiera contemplativa o la meditazione – possono essere molto potenti, ma non abbastanza da attrarre un gran numero di uomini e donne normali, sani e adulti e, nel giro di pochi anni, trasformarli in schizofrenici deliranti.
Il Maestro Zen Hakuin trasmise il suo insegnamento a ottantatré discepoli che si incaricarono di rivitalizzare e organizzare lo Zen giapponese. Ottantatré schizofrenici allucinati non riuscirebbero nemmeno a mettersi d’accordo per andare in bagno... Che ne sarebbe stato dello Zen giapponese se fosse stato così?

TKW: (Risate) Un'ultima obiezione: non è forse possibile che la nozione di “essere uno con lo Spirito” non sia altro che un meccanismo di difesa regressivo per proteggere una persona dal panico davanti alla morte e all’impermanenza?

KW: Se “l’unità con lo Spirito” fosse semplicemente qualcosa in cui si crede, e quindi un’idea o una speranza, allora certamente potrebbe far parte della “proiezione d’immortalità” di una persona, cioè di un sistema di difesa progettato – come ho cercato di spiegare nei miei libri Dopo l’Eden e Un Dio socievole – per proteggersi in modo magico o regressivo dalla morte, sotto la promessa di un prolungamento o una continuazione della vita.
Ma l’esperienza di unità atemporale con lo Spirito non è un’idea né un desiderio; è una percezione diretta. E possiamo considerare questa esperienza diretta solo in tre modi diversi:
– affermare che si tratti di un’allucinazione, a cui ho appena risposto;
– sostenere che sia un errore, cosa che ho pure già confutato;
– oppure accettarla per ciò che dice di essere: un’esperienza diretta del nostro Sé Spirituale.

TKW: Da quello che dici, il misticismo genuino, a differenza della religione dogmatica, è scientifico, perché si basa sull’evidenza e sulla verifica sperimentale diretta. È così?

KW: Esattamente. I mistici ti chiedono di non credere in nulla in modo cieco, e ti offrono una serie di esperimenti da verificare nella tua stessa coscienza.
Il laboratorio del mistico è la propria mente, e l’esperimento è la meditazione.
Tu stesso puoi verificare e confrontare i risultati della tua esperienza con quelli di altri che abbiano svolto lo stesso esperimento.
Da questo insieme di conoscenze sperimentali, validate in modo consensuale, si giunge a certe leggi dello spirito, o a certe “verità profonde”, se preferisci chiamarle così.

TKW: E questo ci riporta di nuovo alla filosofia perenne, alla filosofia mistica e ai suoi sette grandi principi. Il secondo principio era: lo spirito è dentro di te.

KW: Lo spirito è dentro di te, c'è un intero universo dentro di te. Il messaggio sorprendente dei mistici è che, al centro stesso del tuo essere, tu vivi la divinità.
Strettamente parlando, Dio non è né dentro né fuori – poiché lo Spirito trascende ogni dualità – ma lo si scopre cercando profondamente dentro, fino a quando quel “dentro” finisce per diventare un “al di là”.
Il Chandogya Upanishad ci offre la formulazione più nota di questa verità immortale quando dice:

“Nell’essenza stessa del tuo essere non percepisci la Verità, ma in realtà essa è lì.
In ciò che è l’essenza sottile del tuo essere, tutto ciò che esiste È.
Quell’essenza invisibile è lo Spirito dell’intero universo.
Quella è la Verità, quello è l’Essere. E tu? Tu sei quello.”

Tat Tvam Asi – Tu sei Quello.
È superfluo dire che il “tu” che è “Quello”, il tu che è Dio, non è la tua identità individuale e separata, l’ego, questa o quella personalità, il Signor o la Signora Tal dei Tali.
Anzi, il sé individuale o ego è precisamente ciò che ci impedisce di prendere coscienza della nostra Identità Suprema.
Quel “tu”, al contrario, è la nostra essenza più profonda, o se preferisci, il nostro aspetto più elevato: l’essenza sottile – come la descrive l’Upanishad – che trascende il nostro ego mortale e partecipa direttamente al Divino.
Nel giudaismo viene chiamato Ruach, lo spirito divino e la supraindividualità che si trova in ognuno di noi, e che si distingue dal nefesh, l’ego individuale.
Nel cristianesimo, invece, è il pneuma, lo spirito che dimora in noi e che è della stessa natura di Dio, e non la psiche o anima individuale che, nel migliore dei casi, può solo adorare Dio.
Come ha detto Coomaraswamy, la distinzione tra lo spirito immortale ed eterno di una persona e la sua anima individuale e mortale (cioè l’ego) è un principio fondamentale della filosofia perenne.

TKW: San Paolo disse: “Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me.” Stai dicendo che San Paolo ha scoperto la sua vera Identità, che era uno con Cristo, e che Cristo ha sostituito il suo vecchio piccolo ego, la sua anima o psiche individuale?

KW: Esattamente. Il tuo Ruach, o fondamento, è la Realtà Suprema, non il tuo nefesh, il tuo ego.
Se credi che il tuo ego individuale sia Dio, allora sei chiaramente nei guai. In effetti, soffriresti di una psicosi, una schizofrenia paranoide.
Non è certo questo ciò che intendevano i più grandi filosofi e saggi del mondo.

TKW: Ma allora, perché non c’è più gente consapevole di questo? Se lo spirito è davvero dentro di noi, perché non è evidente a tutti?

KW: Ottima domanda. E questo ci porta al terzo punto.
Se davvero sono uno con Dio, perché non me ne rendo conto?
Qualcosa mi separa dallo Spirito. Perché questa Caduta? Dov’è stato l’errore?

Le diverse tradizioni danno risposte differenti a questa questione, ma tutte fondamentalmente convergono su un punto:

“Non riesco a percepire la mia Vera Identità, la mia unione con lo Spirito, perché la mia coscienza è ottenebrata e ostruita da una certa attività; anche se riceve nomi diversi, si tratta semplicemente dell’attività di contrarre e concentrare la coscienza sul mio io individuale, sul mio ego personale.
La mia coscienza non è aperta, rilassata e centrata su Dio, ma chiusa, contratta e centrata su me stesso.
Ed è proprio l’identificazione con quella contrazione in me stesso e la conseguente esclusione di tutto il resto che mi impedisce di trovare o scoprire la mia identità originaria, la mia vera identità con il Tutto.”

La mia natura individuale – “l’uomo naturale” – è caduta e vive nell’errore, separata e alienata dallo Spirito e dal resto del mondo.
Sono separato e isolato dal mondo “là fuori”, un mondo che percepisco come completamente esterno, estraneo e ostile al mio essere.
Quanto al mio essere interiore, di certo non sembra essere uno con il Tutto, con tutto ciò che esiste, uno con lo Spirito Infinito, ma al contrario, resta chiuso e imprigionato tra le mura limitanti di questo corpo mortale.

TKW: Questa situazione viene solitamente chiamata “dualismo”, giusto?

KW: Esattamente. Mi divido in un “soggetto” separato dal mondo degli “oggetti” situati là fuori e, a partire da questo dualismo originario, continuo a dividere il mondo in ogni tipo di opposti in conflitto: piacere e dolore, bene e male, verità e menzogna, ecc.
Secondo la filosofia perenne, la coscienza dominata dal dualismo soggetto-oggetto non può percepire la realtà così com’è, la realtà nella sua totalità, la realtà come Identità Suprema.
In altre parole: l’errore è la contrazione di sé stessi, la sensazione di un’identità separata, l’ego.
L’errore non sta in qualcosa che fa il piccolo io, ma in qualcosa che è.

E c’è di più: quell’essere contratto, quel soggetto isolato “qui dentro”, non riconoscendo la propria vera identità con il Tutto, sperimenta una forte sensazione di mancanza, di privazione, di frammentazione.
In altre parole: la sensazione di essere separato, di essere un individuo separato, dà origine alla sofferenza, dà origine alla “Caduta”.
La sofferenza non è qualcosa che accade a causa della separazione: è qualcosa di intrinseco a quella condizione.
“Peccato”, “sofferenza” e “io” non sono altro che nomi diversi per uno stesso processo, che consiste nella contrazione e frammentazione della coscienza.

Per questo è impossibile salvare l’ego dalla sofferenza.
Come disse Gautama il Buddha: per porre fine alla sofferenza, devi abbandonare il piccolo io, l’ego; perché entrambi nascono e muoiono nello stesso momento.

TKW: Quindi questo mondo dualistico è il mondo della Caduta e del peccato originale, è la contrazione dell’essere, l’auto-contrazione presente in ognuno di noi. E stai dicendo che non sono solo i mistici orientali, ma anche quelli occidentali a definire il peccato e l’Inferno come qualcosa di inerente allo stato di identità separata?

KW: Al sé separato e alla sua avidità, al suo desiderio e alla sua fuga priva d’amore.
Sì, senza dubbio.
È vero che l’Oriente – e in particolare il buddismo e l’induismo – mette molto l’accento sull’identificare l’Inferno (o Samsara) con l’ego separato e individualista.
Ma anche negli scritti dei mistici cattolici, dei gnostici, dei quaccheri, dei cabalisti e dei mistici islamici troviamo gli stessi temi.
A tal proposito, il mio scritto preferito è di William Law, uno straordinario mistico cristiano inglese del XVIII secolo. Te lo leggo:

“Ecco la verità riassunta.
Ogni peccato, ogni morte, ogni condanna e ogni inferno non sono altro che il regno del sé, dell’ego.
Le varie attività del narcisismo, dell’amor proprio e dell’egoismo separano l’anima da Dio e la conducono alla morte e all’inferno eterno”.

Oppure le parole del sufi Abi l-Khayr:

“Non c’è Inferno se non nell’individualità, non c’è Paradiso se non nell’altruismo”.

Troviamo lo stesso tipo di affermazioni anche nei mistici cristiani, come dimostra la dichiarazione della Theologia Germanica secondo cui

“L’unica cosa che brucia all’Inferno è l’ego”.

TKW: Sì, capisco. Quindi la trascendenza del “piccolo io” porta alla scoperta del “grande Io”.

KW: Proprio così.
In sanscrito, questo “piccolo io” o anima individuale si chiama ahamkara, che significa “nodo” o “contrazione”; ed è proprio questo ahamkara, questa contrazione dualistica ed egocentrica della coscienza, a costituire la radice stessa dello stato di Caduta.

Arriviamo così al quarto grande principio della filosofia perenne: esiste un modo per superare la Caduta, un modo per cambiare questo stato di cose, un modo per sciogliere il nodo dell’illusione e dell’errore fondamentale.

TKW: Buttare via l’ego individualista.

KW (ride): Esattamente.
Arrendersi o morire a quella sensazione di essere un’identità separata, al piccolo io, alla contrazione su sé stessi.
Se vogliamo scoprire la nostra identità con il Tutto, dobbiamo abbandonare l’identificazione errata con l’ego isolato.
Ma questa Caduta può essere immediatamente dissolta comprendendo che, in realtà, non è mai avvenuta, perché esiste solo Dio e, di conseguenza, il sé separato non è mai stato altro che un’illusione.

Tuttavia, per la maggior parte di noi, questa condizione deve essere superata gradualmente, passo dopo passo.
In altre parole, il quarto principio della filosofia perenne afferma che esiste una Via e che, se la seguiamo fino in fondo, ci condurrà dallo stato di caduta allo stato di illuminazione, dal Samsara al Nirvana, dall’Inferno al Cielo.

TKW: La meditazione è quel Cammino?

KW: Bene. Potremmo dire che esistono diversi “cammini” che costituiscono ciò che io chiamo genericamente “il Cammino”, e ancora una volta si tratta di strutture superficiali differenti che condividono però la stessa struttura profonda.
Nell'induismo, ad esempio, si dice che ci sono cinque grandi cammini o yoga. Yoga significa semplicemente “unione”, l’unione dell’anima con la Divinità.
La parola inglese yoke, lo spagnolo yugo, l’ittita yugan, il latino jugum, il greco zugon e molte altre derivano dalla stessa radice.

In questo senso, quando Cristo dice: “Il mio giogo è leggero”,
sta intendendo dire: “Il mio yoga è facile”.

Ma forse possiamo semplificare tutto dicendo che tutti questi cammini, siano essi induisti o provenienti da qualsiasi altra tradizione di saggezza, si dividono in due grandi vie.

A tal proposito mi viene in mente una citazione per illustrare questo punto. È di Swami Ramdas:

“Ci sono due cammini: uno consiste nell’espandere il tuo ego fino all’infinito, l’altro nel ridurlo al nulla”;
il primo è una via della conoscenza, mentre il secondo è una via devozionale.

Un Jnani (saggio indù) dice: “Io sono Dio, la Verità universale”.
Un Devoto, invece, dice: “Io non sono nulla, oh Dio! Tu sei tutto”.
In entrambi i casi scompare la sensazione di identità separata.

La chiave della questione è che, in qualunque dei due casi, l’individuo che percorre il Cammino trascende o muore al piccolo io, e riscopre, o fa risorgere, la propria Identità Suprema con lo Spirito universale.
E questo ci porta al quinto grande principio della filosofia perenne: quello della Rinascita, della Resurrezione o dell’Illuminazione.
Il piccolo io deve morire affinché, dentro di noi, possa risorgere il grande Io.

Le varie tradizioni descrivono questa morte e rinascita con nomi molto diversi.
Così, ad esempio, nel cristianesimo si parla di Adamo – che i mistici chiamano l’“Uomo Vecchio” o “Uomo Esteriore”, colui che ha aperto le porte dell’Inferno – e di Gesù – l’“Uomo Nuovo” o “Uomo Interiore”, colui che apre le porte del Paradiso.
Secondo i mistici, la morte e resurrezione di Gesù rappresentano l’archetipo della morte dell’io separato e la rinascita a un destino nuovo ed eterno nel flusso della coscienza, ovvero l’Essere Divino o Crístico e la sua Ascensione.
Come disse Sant’Agostino:

“Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse farsi Dio”.

Nel cristianesimo, questo processo di ritorno dalla condizione “umana” alla condizione “Divina”, dalla persona esterna alla persona interna, si chiama Metanoia, una parola che significa sia “pentimento” che “trasformazione”.
In questo caso, ci pentiamo del piccolo io (l’ego individualista) e ci trasformiamo nell’Essere (o in Cristo), così che, come affermava San Paolo,

“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.

Allo stesso modo, l’Islam chiama tawbah (che significa “pentimento”) e anche galb (che significa “trasformazione”) questa morte e resurrezione, che Al-Bistami riassume così:

“Dimenticare sé stessi è ricordare Dio”.

Sia nell’induismo che nel buddhismo, questa morte e rinascita viene sempre descritta come la morte dell’anima individuale (jivatman) e il risveglio alla vera natura della persona, che gli induisti descrivono metaforicamente come Totalità dell’Essere (Brahman) e i buddhisti come Apertura Pura (Shunyata).
Il momento in cui avviene questa rottura o rinascita si chiama illuminazione o liberazione (Moksha o Kaivalya).
Il Lankavatara Sutra descrive l’esperienza dell’illuminazione come

“una trasformazione completa nella stessa essenza della coscienza”.

Questa “trasformazione” consiste semplicemente nel disattivare la tendenza abituale a creare un io separato e sostanziale dove, in realtà, esiste solo una coscienza chiara, aperta e vasta.
Il Zen chiama Satori o Kensho questa trasformazione o Metanoia.

Ken” significa vera natura e “sho” significa “vedere direttamente”.

Vedere direttamente la nostra vera natura è diventare un Essere pienamente autorealizzato.
E come disse il Maestro Eckhart:

“In questa trasformazione ho scoperto che Dio e io siamo la stessa cosa.”

TKW: L'illuminazione si sperimenta realmente come una morte vera o si tratta solo di una metafora?

KW: In realtà, si tratta della morte dell’ego individualista.
I racconti di questa esperienza — che possono essere molto drammatici, ma anche estremamente semplici e per nulla spettacolari — affermano chiaramente che, all’improvviso, ti svegli e scopri che, tra le altre cose, e per quanto possa sembrare strano, il tuo vero essere è tutto ciò che hai osservato fino a quel momento, che letteralmente sei uno con tutto ciò che è manifestato, uno con l’universo.
E che, in verità, non è che diventi uno con Dio e con il Tutto, ma che prendi coscienza del fatto che da sempre sei stato quella unità, senza essertene mai accorto prima.
Ma accanto a questa percezione, insieme alla scoperta dell’Essere che tutto permea, si sperimenta anche una sensazione molto concreta: quella che il tuo piccolo ego è morto. Che è morto veramente.

Il Zen chiama il Satori “la Grande Morte”.
Eckhart era altrettanto categorico: “L’anima – diceva – deve donare se stessa”.
Coomaraswamy affermava: “Solo quando il nostro ego muore, comprendiamo finalmente che non c’è nulla con cui possiamo identificarci, e solo allora possiamo trasformarci realmente in ciò che già siamo”.

TKW: Trascendendo il piccolo ego, si scopre l’eternità?

KW (Lunga pausa): Sì, a condizione però di non intendere l’eternità come un tempo che non finisce mai, bensì come un momento senza tempo, il presente eterno, l’adesso atemporale.
L’ESSERE non risiede per sempre nel tempo, ma nel presente senza tempo, che è anteriore al tempo, alla storia, al cambiamento, alla successione.
Lo Spirito, l’Essere, è presente nel senso di Pura Presenza, non nel senso di essere immerso in un “ora” infinito — che è un concetto piuttosto inquietante.

In ogni caso, il sesto grande principio fondamentale della filosofia perenne afferma che l’illuminazione, o liberazione, pone fine alla sofferenza.
Ciò che causa la sofferenza è l’attaccamento e il desiderio della nostra identità separata;
e ciò che pone fine alla sofferenza è il cammino meditativo che trascende il piccolo io, il desiderio e l’attaccamento.
La sofferenza è intrinseca a quel nodo o contrazione chiamato ego, e l’unico modo per superarla è trascendere l’ego.

Non significa che dopo l’illuminazione — o dopo la pratica spirituale in generale — non si provino più dolore, angoscia, paura o ferite.
Si provano ancora, sì.
Ma ciò che cambia è che queste emozioni non minacciano più la tua esistenza, e quindi smettono di costituire un problema per te.
Non ti identifichi più con esse, non le drammatizzi più, non hanno più energia, non ti sembrano più minacciose.
Da un lato, non c’è più alcun ego frammentato che possa sentirsi minacciato;
dall’altro, nulla può minacciare quel grande Io dell’Essere originario e autentico, poiché, essendo il Tutto, non esiste nulla di esterno che possa fargli del male.

Questa consapevolezza produce un profondo rilassamento e una distensione del cuore.
Per quanto dolore possa sperimentare l’individuo, il suo vero Sé non si sente minacciato.
La sofferenza può sorgere e può svanire, ma ora la persona è saldamente radicata e sicura nella “pace che supera ogni comprensione”.
Il saggio sperimenta la sofferenza, ma questa non lo “ferisce”.
E poiché è consapevole della sofferenza, è spinto dalla compassione e dal desiderio di aiutare chi soffre e crede nella realtà della sofferenza.

TKW: Il che ci porta al settimo punto, la motivazione dell’illuminato.

KW: Sì. Si dice che la vera illuminazione sfoci in un’azione sociale ispirata dalla misericordia e dalla compassione, in un tentativo di aiutare tutti gli esseri umani a raggiungere la Liberazione Suprema.
L’attività illuminata non è altro che un servizio disinteressato.
Poiché siamo tutti uno nello stesso Essere, allora, servendo gli altri, sto servendo il mio stesso Sé.

 
Continua...

from From Balvano to the Plain of Jars

DeoVanLongHouse Las ruinas de la casa del hijo del “saqueador” de Luang Prabang, provincia de Lau Chau, noroeste de Vietnam

Para los más empáticos, la ciudad de Luang Prabang podría resultar un descubrimiento placentero. Al sumergirse en su escucha, sus calles revelan campos magnéticos seductores, como si la comunidad que las habita estuviera atravesada por una fuerza femenina capaz de hechizar al viajero de paso. A primera vista, se nota inmediatamente que se trata de una ciudad “instagrameable”, llena de marcos perfectos para ser capturados en el “relato de Mí en el mundo” de las redes sociales. Al revisar YouTube, Instagram, WhatsApp, TikTok o Facebook, emerge un componente narcisista de los lugares que describe algunos aspectos de las fuerzas femeninas de las que quiero hablar.

De hecho, los habitantes de Luang Prabang pasan largos momentos de su jornada laboral manteniendo inalterado el paisaje, es decir, cuidando físicamente los espacios exteriores e interiores para limpiar continuamente los entornos donde se desarrolla y se teatraliza la experiencia “social” de los turistas en la ciudad. Las restauraciones vintage y las antiguas casas coloniales son imagen de una belleza que se auto-observa y se auto-relata en una narrativa social que posiciona la ciudad en un nicho del capitalismo postindustrial. El producto que se compra es un estar allí documentado digitalmente entre sus calles ordenadas y sobriamente coloridas. Esto ocurre en una región, el sudeste asiático, donde el turismo se está consolidando rápidamente como una de las principales industrias, tanto desde el punto de vista laboral como por sus sólidas conexiones con el sector de la construcción.

Existe además una estratificación adicional de las fuerzas femeninas que atraviesan los lugares. Este cuidado de los espacios es también cuidado del “sí mismo”, entendido aquí como cuerpo. En Luang Prabang, como ya sucede en muchas otras partes de la región, proliferan las llamadas economías de la intimidad o, en palabras de Foucault, del “cuidado de sí”. Entre estas, lo primero que salta a la vista para quienes observan con rapidez son los centros de masaje, que emplean principalmente a mujeres jóvenes. Pero una mirada más atenta no puede dejar de incluir en la categoría del “cuidado” también al “Templo Budista”. Aquí son acogidos jóvenes varones. Ambas instituciones están centradas en la hospitalidad y, aunque viven dentro de una clara división de género, parecen cumplir funcionalmente propósitos similares. Junto a miles de monjes, existen miles de masajistas. Así, aunque sigan trayectorias distintas, ambas instituciones se ocupan de la pacificación de los sentidos y de las fatigas existenciales.

Incluso históricamente, el templo budista y el centro de masajes estuvieron indisolublemente ligados. El masaje tailandés es hoy el más reconocido y recientemente ha sido incluido en el patrimonio cultural inmaterial de la humanidad. Se cuenta que nació precisamente en los templos budistas de Bangkok y Chiang Mai, donde se sistematizó un saber que provenía directamente del Buda, quien al parecer era masajeado por expertas masajistas durante sus peregrinaciones. Masajes “tradicionales” existen en toda la región, desde Birmania hasta Vietnam, desde el sur de China hasta Tailandia. Junto al templo budista, los centros de masajes forman una alianza de los sentidos en la que el cuidado de sí mismo se refiere a modos y formas de subjetivación.

Sucede entonces que, en el espacio público del encuentro entre visitantes, trabajadores y habitantes, además de la experiencia estética del paisaje para contemplar y dentro del cual “ser contemplado” o “instagrameado”, hay una dimensión igualmente importante, más íntima y subjetiva, en la que los empresarios locales están desarrollando servicios enfocados a la producción de bienestar. Existen, por ejemplo, hoteles “conscientes” y centros de masaje “energéticos” donde los trabajadores son formados para generar una profunda capacidad empática con el turista, hasta el punto, en algunos casos de excelencia local, de producir una experiencia de relajación total: desde el café de la mañana hasta la infusión antes de dormir. El desarrollo de este tipo de servicios se ha convertido en un auténtico factor competitivo, tanto a nivel regional como local, y abarca rutas de formación para la fuerza laboral que debe saber captar los matices más ocultos de los deseos del cliente. El objetivo del marketing es siempre vender una experiencia de acogida irrepetible y/o especial, y para sobresalir en esta tarea, algunos hoteles quieren que sus trabajadores vivan dentro de las mismas instalaciones en lugar de regresar a los barrios dormitorio donde normalmente se alojarían. Esta vida en común, obligatoria o altamente recomendada para quienes deseen trabajar en el sector de la hospitalidad, tendría como objetivo precisamente la incorporación del “servicio total”, es decir, una comprensión más completa de la experiencia de acogida que permita al trabajador responder a las necesidades de cuidado del turista casi con una mirada.

Sin embargo, para quienes, como yo, provienen de culturas marcadamente machistas además de patriarcales, en estos campos de fuerza también podría vislumbrarse algo más, como si esta magia de las calles fuera también el producto de organizaciones políticas y sociales peculiares cuyas raíces se hunden en épocas históricas muy anteriores al encuentro colonial. Intentaré en las próximas páginas aclarar mejor esta tercera estratificación de las fuerzas femeninas del lugar. Me parece importante describirlas antes de adentrarme en la “cuestión étnica laosiana”. Para ello, me moveré en un campo distinto de los que he recorrido hasta ahora. Me ocuparé del estudio de los mitos, tal como emergen tanto en el relato local como en la producción artística y literaria religiosa. El objetivo es mostrar la existencia en estas tierras de un matriarcado nunca completamente sometido a las estructuras políticas coloniales y neocoloniales. Mostraré entonces cómo el uso de las mujeres como “objeto diplomático” pero también como “objeto sacrificial” para establecer alianzas y fundar linajes y derechos de propiedad ha sostenido desde siempre sistemas políticos plásticos y altamente adaptables a las diversas condiciones del mundo. A partir de ahí, observaré el actual devenir-queer del liderazgo ciudadano como una continuidad histórica y como una modalidad política de la ciudad que responde, ayer como hoy, al miedo atávico de una enésima apocalipsis cultural, como quizá la definiría De Martino: el miedo a una invasión tanto ética como material que, según algunos, está amenazando la identidad de Luang Prabang y de Laos en general.

Imperturbabile Buda femenino en posición imperturbable de la escuela de Luang Prabang, Museo del Wat Ho Phra Keo, Vientián, Laos

Los Sistemas Galácticos

Cuando el primer explorador francés llegó al actual Laos, atravesó la meseta de Korat, en el norte de Tailandia, acompañado por dos elefantes y una pequeña caravana que le había sido proporcionada por el virrey de dicha región. Llevaba consigo una carta de salvoconducto que debía mostrar a los distintos jefes de clan laosianos. Además, se le habían entregado unos tambores con los que debía anunciar su llegada antes de ingresar a los poblados, a fin de asegurarse una acogida y hospitalidad apropiadas.

En 1846, Henri Mouhot, quien aún hoy es considerado por muchos europeos como el “descubridor” de los templos de Angkor, cruzó por primera vez el Mekong, probablemente sin saber que, veinte años antes de su llegada, la ciudad que se extendía por las tierras que ahora pisaba —más allá de la meseta de Korat y del Mekong—, Vientián, había sido completamente arrasada por el ejército de Siam, es decir, por el mismo virrey que le había entregado el salvoconducto. En sus diarios, Mouhot describe con asombro cómo los “primitivos” se alineaban dócilmente al oír los sonidos reales del Siam, y cómo los jefes de clan se prosternaban ante él tras recibir la misiva del virrey de Korat. En pocas semanas logró remontar el gran río hasta descubrir una ciudad, Luang Prabang, de la cual probablemente se enamoró, pero en la que poco después encontró la muerte a causa de la picadura de un mosquito.

Tras él, otros exploradores franceses llegaron a Luang Prabang y describieron su fascinante belleza. Entre todos ellos, el más destacado fue sin duda quien más tarde se convertiría en su vicecónsul: Auguste Pavie. En sus diarios, describió su ingreso a la ciudad como si se encontrara en algún lugar del lago de Como o del de Constanza, e incluso se imaginaba embellecer el paisaje con alguna que otra villa “francesa”. Pavie tardó diez días en reunirse oficialmente con el rey. Para la ocasión, se construyó una puerta de madera y bambú bajo la cual fue conducido, tras haber pasado los días anteriores “fuera” de la ciudad. Se alojó en una casa en la orilla derecha del Mekong, frente a la ciudad, en tierras que los reyes usaban para la caza y donde, desde la primera mitad del siglo XIX, también solían retirarse a meditar. Se le asignaron guías locales que se ocuparon de él mostrándole las aldeas de los alrededores, sin permitirle nunca acercarse al centro. También fue llevado a visitar la tumba de su predecesor, situada en una curva de un afluente del Mekong, accesible en aquella época únicamente por vía fluvial. En sus escritos, Pavie no parece consciente de todas las implicaciones rituales de su llegada a la ciudad. Sin embargo, la recepción que se le ofreció representaba, con toda probabilidad, un clásico rito de purificación o de paso, que culminó con una ceremonia pública frente a toda la población, en un espacio habilitado a lo largo de la calle principal de la ciudad, justo al lado de la residencia del rey.

En ese momento, ciertamente, ni el Rey Oun Kham ni Pavie sabían que, unas dos décadas después, ese tipo de encuentros “diplomáticos” se adecuarían a las normas “internacionales” y se realizarían en privado, en la sala del trono del Palacio Real, concebido por arquitectos franceses a principios del siglo XX. El edificio fue el primero de su tipo en la historia de la ciudad, pero también en toda la región del Mekong medio. Nunca antes una estructura arquitectónica de carácter civil había superado en imponencia y “eternidad” a los templos de la ciudad. El edificio se elevaba hacia el cielo como lo hacían las residencias imperiales de Huế en Vietnam, la Ciudad Prohibida de Pekín o los palacios reales del Siam. Sin embargo, en el Reino del Millón de Elefantes, el rey no cumplía esta función cosmológica. El rey de Luang Prabang, aunque procuraba representarse como Indra (divinidad) y como Bodhisattva (futuro Buda), coexistía con otros poderes locales y regionales que no permitieron que su institución se teocratizara ni que se indianizara de forma plena. La estupa que fue construida en el techo del palacio, justo sobre la posición del trono y que idealmente elevaba al rey de Luang Prabang hacia el cielo, era una decoración religiosa que jamás se había utilizado para la residencia de una persona, incluso una tan importante como el rey. Este y otros elementos arquitectónicos fueron introducidos por los franceses y marcaron una ruptura con el pasado de los sistemas políticos del Mekong central. Ciertamente, los reyes de Luang Prabang siempre estuvieron comprometidos con la creación de monasterios que pudieran elevar su estatus hacia la divinidad. Sin embargo, tal aspiración estaba dirigida principalmente hacia un reconocimiento local, donde los reyes competían con otros potentados y clanes. Otras familias influyentes del actual Laos, como por ejemplo el rey de Xieng Khouang (en la Llanura de las Jarras), que atravesaba procesos igualmente importantes de construcción de un “budismo estatal”, no reconocieron el nuevo “poder soberano” del rey de Luang Prabang. En sus diarios, Pavie no es consciente de estas implicaciones, y probablemente los administradores coloniales nunca se preocuparon por comprenderlas en profundidad. No menciona tampoco si, durante la fase de “purificación” en la que fue mantenido, se le permitió fumar opio o tener damas de compañía, como solía ofrecerse a los invitados más ilustres. Las mujeres de Luang Prabang cumplían, de hecho, múltiples funciones vitales para el reino y determinaban la propia capacidad de poder del rey.

El intercambio de “vírgenes” fue la base de alianzas entre pueblos prácticamente desde los tiempos más antiguos de la historia local. Los mitos fundacionales que he escuchado en torno a la ciudad coinciden casi todos en un detalle: para ocupar legítimamente tierras, los jefes debían ofrecer como prenda a una hija suya, o en otras versiones, a la mujer más hermosa del poblado, al rey de Luang Prabang. En la base de la alianza propuesta había, por tanto, un “derecho de propiedad” madurado mediante el sacrificio/donación de una mujer. La alianza también sancionaba la aceptación de una fuerza superior a la cual se solicitaba protección. Algunos textos redactados en los años setenta que investigan los cultos animistas de la región del Mekong central mencionan una tercera modalidad fundacional de un núcleo urbano: el sacrificio de una mujer embarazada, no al rey sino a los dioses (véase Condominas). Este tercer caso presenta varios elementos de interés, ya que podría evidenciar la existencia de centros urbanos organizados en torno a un matriarcado. El sacrificio/donación producía un espíritu imperecedero, llamado Phi, que permanecía para siempre ligado a los lugares donde ocurría el sacrificio. Aunque en formas distintas, tal culto subsiste aún hoy.

El Phi, es decir, posee una característica fundamental: es inmanente a los lugares y, al no tener una naturaleza ética —ni buena ni mala—, los eventuales ritos de “purificación” realizados por chamanes, exorcistas o magos no logran eliminarlo ni transformarlo. “El olvido” de ese Phi no tiene efectos concretos. Sin embargo, su recuerdo ayuda a mantener la paz y el equilibrio en los lugares. En otras palabras, el Phi de un lugar se asemeja a una memoria compartida del pasado mítico de los territorios. Su interpretación, como su olvido, es sin duda un acto político. Un poco como me ocurre a mí, que escribo sobre ello: los habitantes, en algún momento de sus vidas, simplemente “saben que allí hay un Phi” y actúan en consecuencia, llevando ofrendas o evitando esos lugares. Según los creyentes budistas, los Phi forman parte de un mundo supersticioso en el que los eventos pueden verse influidos por poderes ocultos de todo tipo. No obstante, una de las peculiaridades más notables del budismo de Luang Prabang es precisamente su persistencia en las prácticas religiosas cotidianas de la población (véase Holt). Lo que resulta especialmente interesante para los fines de este escrito es que algunos mitos fundacionales de los principales centros urbanos de la región tenían espíritus tutelares femeninos, como si se tratara de reminiscencias ancestrales de un matriarcado originario sobre el cual se organizaba la vida entre los pueblos antes de ser sustituido por el patriarcado real.

WatSimuang Chao Mae Simuang, culto del espíritu tutelar femenino en el Wat Simuang, Vientián, Laos.

En el Reino de Lan Xang, varios edictos prohibieron expresamente el culto a los Phi e iniciaron campañas para su erradicación y sustitución, que incluyeron la construcción de altares y templos budistas sobre los lugares donde se recordaban a los Phi. Es importante subrayar, sin embargo, que a menudo el culto a un Phi estaba asociado a líderes carismáticos de diverso tipo que, en distintas fases históricas, podían aspirar a sustituir o competir con la familia real. En torno a los Phi podían surgir grupos que compartían un conjunto de ritos y cultos que daban origen a mitos totémicos y clanes ancestrales, frecuentemente en conflicto o competencia con aquellos celebrados por la familia real. Se trataba de verdaderas batallas cosmológicas libradas mediante rituales y creencias que, cuando no eran absorbidas por el budismo, podían desembocar en rebeliones y sublevaciones.

En los estudios antropológicos regionales existe una categoría política específica, la del “Big Man”, que describe organizaciones jerarquizadas en torno a estas figuras de poder, a menudo paralelas o entrelazadas con las más formales del rey budista. En la cúspide de estas estructuras se encontraban hombres que, además de riquezas, se decía poseían capacidades curativas y por ello eran considerados “hombres de poder”. En la historia local, muchos de estos líderes carismáticos terminaron por apoyar y organizar rebeliones que, aunque esporádicas, constituyen hasta hoy los únicos momentos conocidos de oposición pública masiva al poder político de las comunidades lao.

Los procesos de indianización del rey estaban dirigidos principalmente a ordenar estos cultos menores y subordinarlos a una religión que debía ser considerada verdadera y justa, es decir, el budismo. Por ello, el rey debía encarnar todos sus preceptos éticos. Sin embargo, durante largos períodos históricos, el budismo fue la religión de la nobleza, que distinguía a la familia real del resto del pueblo, el cual mezclaba animismo y budismo.

En esta conflictividad cosmológica probablemente se oculta la sustitución del matriarcado originario, del cual aún hoy persisten huellas en los sistemas hereditarios de las comunidades lao. A un patriarcado carismático se añadió, para luego imponerse, un sistema de leyes kármicas budistas que encontraba su culminación en el rey indianizado. Pero como se ha señalado anteriormente, en Luang Prabang esta asimilación nunca fue completa; fue más bien la Colonia francesa la que intentó completar el proceso por evidentes razones de control territorial.

Lo que sí sucedió con certeza fue que, en el paso del matriarcado al patriarcado, la mujer, de centro focal de la estructura organizativa, asumió un valor tanto económico como de intercambio y simbólico. El rey de Luang Prabang, para ser considerado “rey”, debía poseer muchas mujeres, y estas debían provenir de todos los reinos y de las principales casas nobles de la región: las acumulaba y las intercambiaba. Cuando Pavie llegó a Luang Prabang, escribió que el rey Oun Kham tenía al menos 60 concubinas, con las cuales había tenido un número difícil de cuantificar de hijos e hijas, todos ellos residiendo en lo que hoy se conoce como la “Península UNESCO”. Sin embargo, poseer mujeres no era solo una medida del poder. El rey de Luang Prabang desempeñaba también una importante función reproductiva: debía garantizar la supervivencia eterna de su pueblo en una región que a menudo había conocido el aniquilamiento de aldeas y ciudades. Representaba así la continuación de una genealogía mítica que algunas leyendas totémicas remontaban a Khoun Boulom, el fundador de un reino legendario que abarcaba desde el río Rojo y el Dai Viet hasta el Irrawaddy y Pegu, pasando por el Mekong central. En los hechos, el rey era por tanto el padre fundador de una ciudad-aldea de poco más de 3000 habitantes, que entre ellos eran, ante todo, consanguíneos. Por esta razón, la ciudad UNESCO estaba poblada por una estirpe “real”, los lao, donde la palabra “lao” no definía una homogeneidad sanguínea o “étnica”, sino que establecía una relación dinástica y regia por la cual todos los habitantes de Luang Prabang estaban ligados al primer líder totémico, Khoun Boulom, cuyas gestas continuaba el rey.

Un aspecto significativo de estos relatos es que la primera “Reina” nunca era originaria de Luang Prabang. Se trataba, más bien, de la esposa que el rey recibía como obsequio por parte de la familia real más influyente en un determinado momento histórico. Así, por ejemplo, el primer rey del Lan Xang, Fa Ngum, tuvo como primera reina a una princesa Khmer nacida y criada en Angkor. Pero junto a ella, había mujeres provenientes de Chiang Mai, Chiang Rai, Sukhothai, del Dai Viet, de Pegu, etc., además de otras regiones y aldeas del actual Laos. El hecho de que las esposas del rey procedieran de todo “el mundo” constituye un elemento característico de las estructuras políticas de estos territorios, y se refleja en diversos mitos de carácter también religioso. La historia de la penúltima encarnación del Buda antes de alcanzar la iluminación, esculpida en la fachada de uno de los templos más importantes de Luang Prabang, el Wat Mai, narra un momento culminante en el que el príncipe Vissanthara se despoja definitivamente de todas sus posesiones y se convierte finalmente en “pueblo” sólo después de haber regalado a su esposa y a sus hijos a un comerciante. Nos encontramos en territorios donde el tráfico de personas ha constituido, desde hace siglos, una de las principales actividades económicas. El ejército del Siam fue uno de los mayores saqueadores de estas tierras, y en Phnom Penh se hallaba el principal mercado de esclavos de la región. Por ello, el acto de desposesión más alto posible para un rey era precisamente entregar su propia dinastía a un mercader. De manera especular, en las paredes del Wat Sisaket en Vientián, construido en la segunda década del siglo XIX, está pintada la historia del Buda Balasankaya, es decir, del mítico fundador de una ciudad cuyo ejército estaba compuesto por 30.000 monjes (exguerreros) y por 94.000 mujeres, todas ellas esposas del Buda.

El Balansakaya no es exactamente un Jataka, aunque afirma relatar una vida anterior del Buda. Podríamos decir que se trata de un “tipo de Jataka” que forma parte de tradiciones literarias budistas profundamente locales. Una copia del manuscrito fue hallada en la zona de Chiang Mai, en el norte de Tailandia, y su desciframiento se convirtió casi en una historia de espionaje en los círculos de la arqueología laosiana. De hecho, su contenido fue divulgado por una publicación de tirada muy limitada producida con ocasión de la última restauración del Wat Sisaket. El texto no se limita a describir cuestiones técnicas del trabajo de restauración, sino que publica por primera vez los resultados de una investigación llevada a cabo durante varios años por la EFEO de Vientián. Sin embargo, dicha divulgación se realizó sin su consentimiento y a partir de datos sustraídos. Lo cierto es que la historia del Buda Balansakaya no forma parte del currículum monástico. Por eso no se la considera un Jataka. No se encuentra en las bibliotecas de los templos y no es mencionada en ninguna de las ediciones en inglés o francés de los Jataka disponibles actualmente. Parece más bien pertenecer a una tradición budista muy localizada, emanación de alguna escuela de Chiang Mai. Para comprender las dimensiones a las que nos referimos, podríamos afirmar que el texto podría formar parte de una auténtica secta budista que, durante un determinado período, llegó a convertirse en el “Budismo del Reino de Lan Xang”. Esta afirmación se basa en el hecho de que la historia de este Buda fue representada en el sim del templo más importante construido por el rey de Vientián y de Luang Prabang, Chao Anouvong, cuando el Reino de Lan Xang era un protectorado del Imperio del Siam. Probablemente, su construcción tenía como objetivo afirmar una autonomía cósmica respecto al budismo siamés y, al mismo tiempo, reivindicar una forma local de budismo no subordinada a la de Bangkok. Lo que ahora resulta relevante destacar es que la pintura narra la historia de un reino mítico de más de dos mil años que vivió en una condición de paz mientras a su alrededor reinaban las guerras y las luchas por el poder. Esta paz fue posible gracias a la voluntad de los dioses, pero sobre todo mediante un arte diplomático sutil, fundamentado en el “budismo del Reino”, o mejor dicho, en la figura del Rey-Buda, en las relaciones de parentesco y en el intercambio de mujeres.

De hecho, estas zonas centrales del Mekong se caracterizaban por una debilidad estructural que durante mucho tiempo ha fascinado a los historiadores. El Mekong, si bien constituía una vía de comunicación esencial, nunca fue completamente navegable debido a las cataratas de Khone Phapheng, actualmente situadas entre el sur de Laos y Camboya. Por esta razón, la región del Mekong central permaneció, en cierto modo, aislada. Las tecnologías bélicas que hacían de las zonas costeras espacios más habituados a las guerras y a las conquistas llegaban a estas regiones con cierto retraso. La supervivencia de las formas locales de gobierno dependía, por tanto, no solo de aspectos económicos y comerciales —como el ciclo de las estaciones agrícolas o la capacidad de desarrollar productos manufacturados de cierto interés—, sino también del desarrollo de una forma sofisticada de soft power.

Para distinguir las categorías políticas de esta región de las europeas, suele utilizarse la expresión “sistemas galácticos” (para una discusión más detallada véase Tambiah). Así se designan aquellos reinos y estados que no ejercían un poder soberano sobre territorios delimitados, sino que operaban dentro de un sistema relacional en el cual, además del pago de tributos y de las alianzas militares, se mantenían vínculos religiosos y de parentesco. De este modo, cada centro urbano funcionaba como una fuerza gravitacional en torno a la cual se generaban fenómenos de urbanización y de homogeneización cultural. Más allá de un radio aproximado de 70 kilómetros, la influencia del centro cambiaba de forma y se inscribía en un mundo simbólico entre la mitología y la religión, cuya credibilidad dependía de los distintos momentos históricos. Por lo tanto, las alianzas y tratados requerían para su validación un intrincado intercambio diplomático basado en creencias, en reyes que se asemejaban a Budas, y en mujeres ofrecidas como dones.

Tomados en conjunto, los elementos organizativos delineados producían un sistema político plástico que, más que elaborar estructuras para garantizar su perpetuidad (más allá de la filiación), encontraba modos de adaptarse continuamente a los cambios. Esto ocurría a partir de una consciencia clara de la debilidad estructural que impedía a los habitantes del Lan Xang incluso imaginar grandes campañas militares de conquista y saqueo. Al menos hasta la llegada, primero, de la colonia francesa y, después, de las fuerzas paramilitares estadounidenses, las ciudades de Luang Prabang y Vientián fueron reiteradamente saqueadas y destruidas, y se sabe poco sobre expediciones militares exitosas que no se limitaran a territorios cercanos. Sin embargo, las dificultades logísticas derivadas de comunicaciones y transportes extremadamente lentos impedían que los ejércitos extranjeros se convirtieran en fuerzas de ocupación permanente.

El mito (o pesadilla) de la invasión extranjera —que desde siempre representa la experiencia traumática por excelencia de estas áreas geopolíticas— tomó históricamente en Luang Prabang la forma de saqueos, ocupaciones súbitas, generalmente resueltas mediante intercambios de dones, estatuas y mujeres ofrecidas como esclavas. Estos eventos reducían ciertamente el poder del rey, pero no lo anulaban. En parte, estas tierras parecen confirmar lo que Edmund Leach describía en los estados Kachin de Birmania, donde las organizaciones sociales locales oscilaban constantemente entre formas políticas autoritarias y modelos más abiertos e incluyentes. Esto podía suceder en periodos breves, como si las poblaciones hubiesen aprendido el arte de adaptarse a los encuentros, las cosechas y la buena fortuna.

No obstante, estos procesos de adaptación nunca hacían desaparecer los elementos profundamente localistas. Como en el caso del Jātaka “apócrifo”, tales localismos podían, en determinados momentos históricos, convertirse incluso en “religiones oficiales de los Lao”, o ser preservados bajo la forma de espíritus del lugar —los Phi—, custodiados por algunas casas nobiliarias que habrían mantenido soterradamente su propio poder carismático. Por tanto, reminiscencias y memorias sobrevivían tanto a los edictos reales que los prohibían como a saqueos repentinos, conquistas de pocos años, o al constante trabajo de borrado activado por la difusión del budismo Theravāda “oficial” y por la llegada de la modernidad.

El Encuentro Colonial

Laos e Annam Mapa político de Laos y del norte de Vietnam en la década de 1930

En resumen, Luang Prabang estaba gobernada por formas decididamente peculiares, y de algún modo estas rarezas le permitieron convertirse en un centro regional de importancia media, reconocido en todas partes. Sin embargo, la historiografía colonial centró sus investigaciones no en la plasticidad de los sistemas políticos locales, sino en la debilidad inherente, tanto militar como burocrática, de los reinos del Mekong central. Las estructuras político-administrativas encontradas eran en su mayoría descritas como el resultado de procesos de imitación y asimilación (para más detalles, véase Lieberman). Todo impulso innovador —tanto económico-cultural como político u organizativo— se consideraba marginal y en cualquier caso inestable. La sustancial oralidad de las poblaciones y su escaso uso de sistemas sofisticados de recolección de información que protegieran los archivos estatales tanto de desastres naturales como de saqueos, contribuyó ciertamente a reforzar esta atmósfera intelectual general. Y, como en muchas otras partes del mundo, la ausencia de una historia escrita autóctona pareció confirmar la existencia de sistemas políticos fragmentarios e incapaces de construir una imagen coherente y duradera de sí mismos (véase al respecto Lorillard). Indochina —nombre dado por el gobierno francés a los protectorados que había conquistado en los actuales Laos, Camboya y Vietnam a finales del siglo XIX— representa bien esta idea “colonialista” de lugar “débil”, definido por el encuentro de culturas milenarias —China e India— pero sin capacidad propia para influir en las trayectorias políticas y comerciales de la época.

La llegada de los franceses al Laos parece además paradigmática de una visión salvadora de la Colonia. En los textos de aquella época puede leerse, por ejemplo, que la “Colonia” había pacificado tierras marcadas por el caos y las disputas, que a menudo culminaban en el aniquilamiento total de los adversarios políticos; o que “el hombre blanco”, el falang, había devuelto la seguridad a ciudades que eran periódicamente saqueadas por bandas de asaltantes y bandidos; o incluso que había construido y perfeccionado las vías de comunicación, permitiendo un renovado crecimiento del comercio. La “Colonia”, en otras palabras, “trajo paz y bienestar”, pero al hacerlo redujo esencialmente la variedad de entidades políticas que existían a lo largo de los principales ríos de la región, sometiéndolas a un orden bien definido y jerarquizado, en cuya cúspide se encontraban las estructuras burocrático-militares y las empresas comerciales gestionadas generalmente por un pequeño grupo de falang. El relato del encuentro que vinculará de manera indisoluble a la familia real de Luang Prabang con el gobierno francés describe de forma casi paradigmática este ambiente intelectual.

El vicecónsul Auguste Pavie, en la historiografía colonial, desempeñó un papel esencial al salvar al rey Ounkam, en 1887, de una “banda de saqueadores chinos” conocida como el ejército de las “Banderas Negras”, comandada por un “señor de la guerra chino”, Deo Van Tri. Según relatos de este tiempo, la banda entró en Luang Prabang destruyendo gran parte de las estructuras arquitectónicas de la ciudad, pero el rey fue salvado por una embarcación que Pavie había preparado para trasladarlo a una ciudad más al sur, Paklay, también a orillas del Mekong, pero a más de 200 km de distancia. Como resultado de este acto heroico, a los franceses se les permitió reemplazar al reino de Siam como “protectores” del reino de Luang Prabang. Y aunque el nuevo protectorado no fue reconocido por otros reinos laosianos —especialmente por el Reino de Xiengkhouang— al menos hasta finales de los años 30, los franceses establecieron una nueva nación subordinada a la familia real de Luang Prabang, es decir, a sus aliados más fieles.

Estudios más recientes (véase aquí y aquí) han mostrado que podrían existir otras perspectivas sobre aquellos acontecimientos. En la historiografía laosiana, la época de anarquía y bandidaje que encontraron los franceses se denomina genéricamente como las “Guerras Ho” (Ho Wars), es decir, una serie de rebeliones, guerras civiles y saqueos que se originaron en el norte del país como consecuencia de amplios procesos migratorios en China durante la segunda mitad del siglo XIX. Por lo tanto, se refieren a un Otro general —los Ho— que eran poblaciones de origen chino, aunque con historias y procedencias muy diversas entre sí. Por esta razón, el término “Guerras Ho” tiende a representar, desde el punto de vista “laosiano”, una serie de trastornos económicos y demográficos profundos iniciados en China, resultado tanto del encuentro colonial (la difusión del cristianismo y el comercio con Inglaterra y Francia), como de las rebeliones locales contra las burocracias imperiales Qing. En los estados del sur y sureste de China, en un lapso de treinta años, de 1839 a 1873, murieron más de 30 millones de personas. Esta cifra —probablemente subestimada— se calcula sumando las víctimas de las dos Guerras del Opio contra Inglaterra (1839-42 y 1856-60), la Rebelión Taiping (1849-61), la guerra entre los clanes Punti y Hakka (1855-68) y la Rebelión Panthay (1856-1873). El impacto de estos eventos sobre las regiones del interior y las montañas de Vietnam y Laos ha sido escasamente estudiado. Por esta razón, el saqueo de Luang Prabang de 1887 ha sido considerado un producto periférico de transformaciones mucho más amplias. La narrativa colonial lo interpretó como una simple manifestación de bandidaje vinculada a la época de “anarquía”, es decir, a las Guerras Ho que precedieron la llegada de los franceses. En realidad, la historia era considerablemente más compleja.

Lo que hoy sabemos sobre el saqueo de Luang Prabang es que, en 1887, la Banda de las Banderas Negras ya no existía desde al menos cinco años atrás y, según algunos historiadores, era imposible considerarlos una banda: más bien se habían convertido en un cuerpo militar del ejército imperial vietnamita. La fusión definitiva con el ejército oficial se produjo durante la guerra de conquista de la Bahía de Tonkín por parte de los franceses (1884-85), pero ya desde antes habían estado al servicio de la administración imperial, gestionando diversos territorios alrededor del río Rojo, es decir, en la vía fluvial que conectaba China con Hanói. Tras la derrota vietnamita, su capitán, Liu Yungfu, junto con otros miembros de la Banda, se dispersaron. Algunos de ellos se refugiaron en las montañas del noroeste de Vietnam, lo cual podría haber confundido a Pavie y con él a toda una generación de historiadores franceses. Lo que probablemente confundió a Pavie fue la guardia personal de Deo Van Tri, compuesta efectivamente por soldados de la etnia Zhuang, algunos de los cuales procedían del cuerpo militar vietnamita y, en un pasado relativamente lejano, habían formado parte de las “Banderas Negras”.

Es interesante observar que, antes de enfrentarse a los franceses, la banda había formado parte del heterogéneo ejército de los Taiping, es decir, un ejército evangélico de carácter mesiánico que se rebeló contra la dinastía Qing y que, en poco tiempo, logró reunir un vasto conjunto de actores armados ajenos al ejército imperial chino. Su comandante supremo, Hong Xiuquan, tras haber estudiado con misioneros británicos, llegó a considerarse una especie de reencarnación china de Jesucristo. Los comandantes militares se reunían con él en asambleas de oración durante las cuales dialogaban con Dios y definían las estrategias militares a seguir. Su objetivo, más allá de la liberación respecto a la dinastía Qing, era la creación del “Reino Celestial” en China. La noción de “Reino Celestial” es de suma importancia para comprender los movimientos militares mesiánicos del sudeste asiático que acompañaron la construcción colonial en la región. No obstante, me detendré más en este punto en otra ocasión. Por ahora, baste decir que la derrota de la rebelión Taiping, junto con la muerte de millones de personas, generó movimientos migratorios a gran escala y presiones sin precedentes sobre la organización de la tierra. Todo esto ocurrió mientras la liberalización de la producción de opio, impuesta por los británicos, provocaba una igualmente inédita conversión productiva de los campos agrícolas hacia el cultivo de la adormidera. En pocos años, esta planta y su derivado, el opio, se convirtieron en la producción predominante en todo el sur de China. Evidentemente, los territorios fronterizos como Vietnam y Laos también se vieron profundamente afectados por esta rápida transformación. Por ende, resulta evidente que la categoría macrohistórica de las llamadas “Guerras Ho” aún está pendiente de una comprensión más profunda en la historiografía regional.

Deo Van Tri e Auguste Pavie En la foto se puede ver a Deo Van Tri junto a Auguste Pavie y la escolta Zhuang

Volviendo al saqueo de Luang Prabang, y una vez aclarada la naturaleza militar —y no meramente bandolera— de la expedición que atacó la ciudad, resulta pertinente redefinir también la narrativa en torno a la figura del “señor de la guerra chino”. Deo Van Tri, si bien descendía de chinos —su padre era un comerciante chino que se había casado con una princesa Tai Dam—, había nacido en Hanói y era considerado en aquella época como un rey Tai Dam. Por tanto, no puede ser clasificado estrictamente como un señor de la guerra chino. Además, su papel político fue, desde un inicio, de vital importancia para la colonia francesa. La amistad entre Deo Van Tri y Pavie, documentada, por ejemplo, en el reciente trabajo de Le Founnier, constituye probablemente uno de los vínculos más estrechos que desarrolló el vicecónsul de Luang Prabang durante la expedición colonial en la llamada “Indochina”. El clan Deo sería tan crucial para la administración colonial francesa precisamente por su capacidad para controlar el tráfico de opio en la región. Cuando, en 1954, los franceses fueron expulsados de Vietnam, el hijo de Deo Van Tri, Deo Van Long, fue trasladado con toda su familia a Francia, concretamente a Marsella, donde aún hoy residen sus descendientes.

Sin embargo, esta particular intimidad entre el clan Deo y ciertos emisarios coloniales no fue bien vista por todos en Luang Prabang. En particular, despertó sospechas en el virrey Phetsharat, quien, en diversos memoriales redactados por él mismo en la década de 1940 y basados en testimonios directos de personas que presenciaron los acontecimientos de 1887, cuestionó el papel desempeñado por Pavie en el saqueo de Luang Prabang. Según su interpretación, Pavie salvó al rey no porque estuviera previamente informado de los hechos, sino porque, de alguna manera, él mismo había contribuido a crear las condiciones que los hicieron posibles. Para no complicar aún más la narraciòn, bastará decir aquí que, antes del saqueo de Luang Prabang, el ejército de Siam había iniciado una operación militar a gran escala, apoyada por los británicos. Su objetivo era consolidar el control sobre el Mekong central y algunos de sus principales afluentes, como el Nam Ou, con el fin de gestionar más eficazmente la distribución del opio y, al mismo tiempo, establecer una zona de amortiguamiento que limitara el avance de las migraciones que caracterizaron aquella época. Luang Prabang fue utilizada como base de apoyo para la expedición militar que ascendió el río Ou hasta llegar a las regiones de Lao Cai, de las cuales Deo Van Tri, junto con su padre, era señor por derecho dinástico, tras los matrimonios con las mencionadas princesas. Allí, tras varios meses de guerra y la captura de al menos cinco miembros de la familia de Deo Van Tri, el ejército siamés se replegó y regresó a Bangkok. Según el testimonio del virrey Phetsharat, Pavie habría sugerido a Deo Van Tri que sus familiares capturados se encontraban precisamente en Luang Prabang, ciudad que Deo Van Tri conocía muy bien, ya que su padre lo había enviado a estudiar allí cuando era adolescente, en uno de sus templos principales. No por casualidad, los asesinados por Deo Van Tri no fueron los civiles que transitaban por las calles, sino precisamente aquellas personas que lo habían traicionado, es decir, aquellos más cercanos a él en la ciudad, como el entonces virrey Souvhanna Poumma, acusado de no haberle advertido a tiempo del peligro inminente.

La reconstrucción de otras perspectivas historiográficas sobre este episodio nos permite proponer algunas conclusiones lo suficientemente generales como para no forzar las evidencias históricas disponibles. En primer lugar, más que tratarse de un grupo de bandidos, el saqueo de Luang Prabang fue una expedición militar en toda regla, cuyo objetivo consistía en castigar a las altas autoridades políticas de la ciudad por su traición y por el apoyo brindado al ejército siamés. En segundo lugar, el asesinato de los aliados de Lao Cai provocó una fractura irreparable que impidió restablecer el statu quo mediante el cual Luang Prabang solía mantener relaciones tanto con Bangkok como con Lao Cai. Sin embargo, en lugar de acercarla más al Siam, esta fractura facilitó la instalación del poder colonial francés. Es decir, la división produjo el más clásico de los “divide et impera”. Al desconectar entre sí las zonas montañosas del norte y los vínculos históricos entre el río Ou y el río Negro, los franceses lograron gestionar con mayor facilidad los ingresos procedentes del tráfico de opio en esa región, sin necesidad de compartirlos con intermediarios demasiado poderosos, salvo el clan Deo en el río Negro y la familia real de Luang Prabang en el Nam Ou.

Los más perjudicados fueron sobre todo los pueblos dedicados al cultivo de adormidera, en particular los Hmong. A pesar de haber intentado en repetidas ocasiones rebelarse contra los nuevos acuerdos comerciales y contra los precios de venta más bajos, los Hmong quedaron divididos entre las dos zonas de influencia creadas por los franceses (véase Mai Na Lee). En efecto, esta fragmentación impidió que los líderes Hmong se consolidaran como intermediarios de referencia en la distribución del “petróleo de la época”, es decir, el opio, al menos hasta la llegada de la CIA. En tercer lugar, la necesidad estratégica de “cortar” las relaciones comerciales y políticas entre estas dos regiones geográficas constituyó una constante tanto en la época colonial como durante las dos guerras de Indochina. Los acontecimientos de Dien Bien Phu en 1954 podrían demostrarlo con bastante claridad, aunque este no es el objetivo del presente texto. Baste señalar, por ahora, que las fronteras impuestas entre ambas regiones impactaron directamente en el control del Mekong central, ya que impidieron la formación de poderes locales suficientemente ambiciosos y autónomos con respecto a los aliados del poder colonial. En otras palabras, los flujos de los sistemas galácticos fueron interrumpidos en beneficio de los intereses franceses.

En cuarto lugar, la “pequeña” mentira de Pavie tuvo un impacto considerable en la historiografía oficial de la Colonia. Sobre este punto conviene detenerse un poco más. A raíz de los acontecimientos de 1887, todos los textos franceses de la época colonial sustentan una idea fundamental para la legitimidad de la administración de París: la supuesta aceptación generalizada por parte de la población local. Podría entonces afirmarse que nos encontramos ante una situación antropológica comparable a la del Capitán Cook, tal como fue formulada por uno de los referentes de la antropología poscolonial, Marshall Sahlins. Sin embargo, de esta presunta benevolencia derivó una larga serie de hipótesis historiográficas que no solo sirvieron como justificación ideológica del proyecto colonial, sino que también establecieron las bases jurídicas y políticas para las posteriores intervenciones militares francesas en la región. Por esta razón, resulta necesario dar un pequeño salto temporal hasta la Segunda Guerra Mundial con el fin de retomar algunas cuestiones aún no resueltas del encuentro colonial.

LaLiberazione Portada de un texto (1985) de propaganda militar durante la Guerra Fría en Laos

En síntesis, si la población local era feliz con la presencia francesa y las crónicas de la época apenas lograban registrar episodios de revuelta o rebelión, incluso en las zonas más remotas del país, ¿por qué surgió entonces un movimiento antifrancés? El nacionalismo lao y los sentimientos antifranceses de los años treinta, organizados en torno al movimiento (también armado) del Lao Issara, fueron reducidos por la administración colonial a un proyecto político elitista con escasa difusión entre la población. En aquellos años, en la cúspide del movimiento se encontraba el virrey de Luang Prabang, Phetsarat. No por casualidad, su cargo fue suprimido por la administración colonial. Su figura conservaba un valor simbólico dentro de la ciudad, pero ya no poseía ningún valor “nacional”. En efecto, el virrey habría sucedido al rey en caso de fallecimiento, pues existía un sistema de transmisión del poder que seguía líneas de consanguinidad también horizontales y no exclusivamente por filiación directa.

Entre los miembros del Lao Issara se encontraba también el llamado “Príncipe Rojo”, Souphanouvong, nacido de la relación furtiva entre el padre de Phetsarat y una empleada doméstica de su residencia, y gran amigo de Ho Chi Minh. El conflicto entre las dos facciones alcanzó su punto más dramático el 12 de octubre de 1945, fecha simbólica para el indigenismo mundial, cuando Phetsarat, en calidad de Primer Ministro, declaró la independencia de Laos con respecto a Francia. El rey Sisavang Vong no ratificó la declaración y, por el contrario, emitió una orden de arresto contra Phetsarat y Souphanouvong, acusándolos de traición a la monarquía. Ambos permanecerían en prisión por muy poco tiempo, ya que las mismas guardias les permitieron escapar hacia Tailandia. Allí, junto a otros miembros del Lao Issara, comenzaron a organizar la resistencia armada contra los franceses y contra la familia real de Luang Prabang.

En pocas semanas, lograron reconquistar dos ciudades clave del centro-sur del país, Thakhek y Savannakhet. En estas localidades, junto a restos del ejército ocupante japonés y voluntarios vietnamitas, construyeron barricadas para defenderse de las represalias del ejército francés, que para entonces había salido de la esfera de influencia alemana y recibido armamento y suministros de los británicos.

Según diversos textos de historia militar francesa —citados en la ya mencionada obra de Mai Na Lee— las alianzas en clave antifrancesa y “anti-hombre blanco” que el Lao Issara forjó, especialmente con los remanentes de las fuerzas japonesas y con el grupo armado Viet Minh de Ho Chi Minh, proporcionaron a los franceses y a mercenarios hmong el mandato “histórico” de llevar la guerra contra el nazi-fascismo también en Laos. En otras palabras, las campañas militares de 1945-46 —durante las cuales se cometieron un número aún impreciso de masacres— fueron inscritas en la historiografía oficial como parte de la cruzada global contra el nacionalsocialismo y como operaciones para la “liberación de Laos”.

Entre dichas acciones, la más significativa fue la masacre de Thakhek (vease el reciente trabajo del historiador Vattana Polsena, donde, en pocas horas, la aviación franco-británica exterminó a varios miles de personas que, sin haber visto nunca antes un avión, intentaron refugiarse en el Mekong, convirtiéndose en blanco fácil. El general francés Jean Boucher de Crèvecœur —quien ocuparía importantes cargos militares en Europa hasta la década de 1980 y que comandaba aquella expedición— calificó la masacre como una victoria fundamental contra el nazi-fascismo. La matanza de Thakhek, ocurrida el 21 de marzo de 1946, es considerada hoy por los historiadores del Partido Comunista Laosiano como el acontecimiento que dio inicio a la Primera Guerra de Indochina en Laos, y que marcó de forma decisiva el apoyo popular a las guerrillas.

Lo que, sin embargo, debe subrayarse a modo de conclusión para los fines de este escrito, es que en el relato colonial, la gendarmería francesa llegó a estas tierras primero como salvadora y luego como liberadora, al menos hasta 1954, cuando fue finalmente expulsada.

Asimismo, es necesario aclarar que en Laos tuvo lugar, ante todo, una larga guerra civil que comenzó el 12 de octubre de 1945 y concluyó el 3 de diciembre de 1975 con la proclamación de la República Democrática Popular Lao. Inmediatamente después, se inició una fase de “limpieza social” que, si bien no desembocó en un genocidio como en la Camboya de Pol Pot, sí provocó un vasto flujo de expulsiones y exilios de todas aquellas personas consideradas colaboradoras de la CIA o de la monarquía de Luang Prabang. La antigua capital del reino de Lan Xang se convirtió en pocos años en una “ciudad fantasma”, como la definió un urbanista francés de la UNESCO cuando pudo ingresar en ella a inicios de la década de 1990.

Junto con el abandono de algunas zonas del país, muchas otras habían sido completamente arrasadas. De ciudades y monumentos no quedaban más que ruinas en todo el antiguo Reino de Xiengkhuang. Lo mismo ocurrió en el centro-sur de Laos. No obstante, la reconstrucción no se benefició de ningún fondo ni capital extranjero. Sus aliados, China y Vietnam, atravesaban también graves dificultades, y la URSS ya había entrado en su fase de declive, presionada por el sostenimiento de un aparato militar sobredimensionado. A excepción del arroz y unos pocos recursos básicos, los aliados de la recién nacida República Popular no pudieron impedir una trágica hambruna debida quizás más a la presencia de minas y bombas sin detonar esparcidas por los arrozales de los valles fluviales que a la colectivización de las tierras, la cual, en todo caso, duró apenas un quinquenio.

La gestión de esta fase extremadamente compleja y dolorosa, marcada tanto por la expulsión de sectores sociales como por la reconstrucción nacional, recayó en el comandante del Ejército de Liberación de Laos, Kaysone Phomvihane, nacido en Savannakhet de padre traductor vietnamita y madre campesina laosiana. Kaysone había participado desde las primeras horas en las revueltas antifrancesas y en el movimiento Lao Issara, y su historya constituye hoy una de las leyendas fundacionales del país.

La excepción de Kaysone

Kaysone Estatua de Kaysone Phomvihane expuesta en el museo dedicado a las guerras de liberación de Laos, Vientián, Laos

Hoy en día, para quienes sostienen posturas marcadamente nacionalistas y nostálgicas del período monárquico, el comandante del Ejército de Liberación de Laos es considerado vietnamita y no laosiano. Esta afirmación posee una doble dimensión. Para algunos, los más radicalizados, Kaysone sería un usurpador del poder de los Lao, que no respetó los acuerdos de paz y accedió al poder mediante un golpe de Estado. Ello ocurrió como resultado de una voluntad política “externa”, atribuida a la Internacional Comunista, y no de una decisión colegiada tomada por la Asamblea Nacional. En efecto, estos sectores no consideran a Kaysone un héroe que, junto a unos pocos compañeros, luchó gran parte de su vida por la independencia política de Laos. Por el contrario, lo ven como el artífice de su sometimiento al comunismo. Esta postura me ha sido reiterada en múltiples ocasiones, de manera informal, por exponentes del movimiento democrático laosiano más radical, es decir, aquellos que aspiran a instaurar una monarquía constitucional en el país, al estilo tailandés.

Existe, sin embargo, una segunda interpretación, más sofisticada, sobre la “impureza” del antiguo comandante guerrillero. El padre de Kaysone era vietnamita y llegó a Savannakhet junto a los franceses, desempeñándose en la administración y la burocracia local en representación de éstos. Durante la época colonial, fueron varios miles los vietnamitas que migraron a Laos por decisión expresa de las autoridades francesas. No poseo elementos suficientes para calificarlas como deportaciones, pero algunos habitantes del centro-sur del país las recuerdan en esos términos. Su fuerza laboral contribuyó sustancialmente a la construcción de la mayoría de las vías de comunicación y residencias coloniales en esa región de Laos. El padre de Kaysone contrajo matrimonio con una mujer laosiana de origen humilde de un poblado cercano a Savannakhet. Además, era profundamente budista, y Kaysone fue educado desde pequeño en un monasterio, viviendo como novicio hasta los 16 años. Posteriormente, su padre decidió enviarlo a estudiar a Vietnam, donde residió varios años en Hanói. A diferencia de las historias anteriores y de las dinastías reales, la biografía de Kaysone se presenta desde el inicio como una excepción.

Se trata de la historia de un laosiano común cuya laocidad, su “sangre lao”, no le proviene del padre, sino de la madre. No estudia en las escuelas coloniales francesas, sino en un monasterio; es padre devoto y esposo enamorado de su única mujer, alejado de cualquier forma de concubinato. Incluso las fotografías que lo retratan ya como Primer Ministro de Laos lo muestran en una vivienda modesta, con una mesa de ping pong y vestido con ropas populares, sin ostentar jamás el poder que había alcanzado. Todo esto se distancia enormemente de la estética del poder real que caracterizó a la monarquía, especialmente tras la llegada de los franceses. Difícilmente una persona como él habría podido acceder a las altas esferas del poder nobiliario de Luang Prabang o Vientián. Y es precisamente este haber venido de “fuera del Reino” lo que lo convierte, a los ojos de los nacionalistas monárquicos, en un “vietnamita” y no en un “laosiano”, una condición de impureza compartida hoy por muchas personas nacidas de relaciones entre falang y mujeres laosianas.

Cabe señalar que no nos hallamos ante un culto al líder típico de los regímenes totalitarios, como suele afirmarse de forma apresurada respecto al Museo de la Resistencia que le fue dedicado. Nos encontramos más bien ante una ruptura con el pasado colonial, en la cual el país es narrado desde otras perspectivas, invirtiendo precisamente ese culto que históricamente había sido reservado a los Reyes-Buda. La historia de Kaysone propone una nueva laocidad: popular, ascética y carismática, dado que su amor patriótico no nace del deseo de poder dentro de un palacio real, sino entre las barricadas de Savannakhet y luego de Thakhek, en su haber vivido diez años en un monasterio y diez años de guerra en una caverna, junto a otras 30.000 personas, en la ciudad secreta de Viengxai. Su trayectoria es, en definitiva, una historia de rebelión que recorre un camino budista. Más que un culto personalista, el retrato que se presenta adquiere los rasgos de un ejemplo a seguir y recuerda a las nuevas generaciones del Partido Comunista —a menudo poco atentas a las lecciones de la historia— los elementos fundamentales del ser guerrillero encarnado por Kaysone.

Comitate Centrale Clandestino Comité Central Clandestino del Ejército de Liberación de Laos, Vienxay, distrito de Huaphan, Laos

Si se pretende ir aún más allá y profundizar la reflexión, es posible vincular este relato sobre Kaysone con una específica producción mítica y literaria laosiana, compuesta por héroes del pueblo que, gracias a la sabiduría adquirida durante sus viajes, logran cumplir hazañas extraordinarias. Estos mitos se distinguen de los budistas o regios por la ausencia de linaje en sus protagonistas. Algunos han sido incorporados a la cosmología budista, otros subsisten como relatos orales. Entre los primeros destaca el de Sieu Savath, representado en la “Capilla Roja”, junto al monasterio más importante de la ciudad, el Wat Xieng Thong. Narra la historia de un joven campesino que decide partir a conocer el mundo y, tras múltiples peripecias, logra convertirse en consejero del rey, a pesar de su ignorancia y de no pertenecer a ninguna casa noble. Lo consigue gracias a una inteligencia innata y una aguda comprensión de las situaciones que enfrenta.

En la segunda categoría de relatos, especialmente en el área de Luang Prabang, puede identificarse otro grupo mitológico, centrado en poblaciones originarias que habitan los bosques y no practican la agricultura. Estas poblaciones son a menudo denominadas “Kha”, término que históricamente designó a pueblos no lao, frecuentemente subordinados o esclavizados. En otros casos, las leyendas tratan sobre los Nyak, demonios del bosque, probablemente así llamados por lo cruento de sus rituales. Como ya se mencionó, con el paso del tiempo estos ritos fueron prohibidos, eliminados o absorbidos por la religión del Reino. En conjunto, estos relatos podrían representar reminiscencias del pasado premonárquico, o bien una pacificación cosmológica nunca culminada en el Mekong central. Desde esta perspectiva, la historia de Kaysone constituiría una auténtica inversión ontológica: marcaría el repliegue de la mitología fundacional de la ciudad sobre un héroe popular que finalmente supera las prácticas monárquicas.

Sin forzar en exceso las conclusiones, la leyenda de las doce hermanas —ya atribuible al período monárquico, aunque con reminiscencias de una época anterior— insinúa la posibilidad de que Luang Prabang posea también un espíritu tutelar femenino. Se trata de una “Reina Indígena”, Nang Kwang Hi, demonio del bosque e hija de la reina del reino de los Nyak, Nang Khong Bhali, cuyo nombre retoma el término “khong”, que en lao contemporáneo significa mono. El mono es un animal recurrente en la mitología local. En la versión laosiana del Ramayana —poema épico indio vinculado, no por casualidad, al rapto de una mujer— no es Hanuman, la deidad hinduista hombre-mono, quien asiste a los héroes, sino un ejército de monos. Además, en esta versión, los dos protagonistas, Phra Lak y Phra Lham, se transforman en monos tras ingerir una raíz venenosa, y durante su búsqueda del demonio y de su amada fundan numerosos poblados a lo largo del Mekong, reclutando así el ejército que derrotará al demonio. En la leyenda de las doce hermanas, en cambio, la princesa nyak se enamora del hijo de la menor de las doce hermanas, Buddhasen, héroe popular laosiano célebre por su éxito en el juego y las peleas de gallos. Ambos mueren de un amor irrealizable que no produce descendencia. En la muerte, son sepultados juntos. La tumba de Nang Kwang Hi sería la montaña situada en la margen derecha del Mekong, frente al centro urbano, conocida como Phu (montaña) Nang (mujer). La tumba de Buddhasen es la montaña adyacente, llamada Phu Thao (hombre). No obstante, la leyenda cuenta que Buddhasen murió a los pies de Nang Kwang Hi, pero que Indra (el dios), al ver en esta superioridad femenina un mal augurio para el futuro del reino —dado que ella era un demonio— decidió invertir sus posiciones, colocando a la mujer a los pies del hombre.

Este mito contiene varios elementos relevantes, sobre todo si se compara con los que conciernen a las familias nobiliarias de Luang Prabang. En primer lugar, a una dinastía de demonios/indígenas que se extingue corresponde la de Khoun Bhulom, el ancestro totémico de la familia real, cuyo hijo, Khoun Lo, conquistó Muang Swa (nombre original de Luang Prabang) en nombre de su padre. Probablemente, Khoun Lo arrebató la ciudad a los Kha o Nyak. En segundo lugar, la historia de Nang Kwang Hi describe claramente el final de un sistema matrilineal por voluntad divina. No sabemos si esto constituye una codificación mítica de la consanguineidad patrilineal como “regla del reino”. Asimismo, este mito no justifica necesariamente el intercambio de mujeres como práctica de gobierno. Tampoco conocemos con certeza si, y cómo, en el caso particular de Luang Prabang, los Kha se convirtieron en Lao. En este sentido, los archivos coloniales de las diversas expediciones posteriores a las de Pavie continuaron utilizando el término “Kha” para referirse a ciertas poblaciones no lao. A inicios del siglo XX, parece que la palabra tenía un valor peyorativo y se empleaba de manera racista para designar a personas que vivían en condiciones de esclavitud de facto (véase Schliesinger). En cualquier caso, en los relatos de la ciudad, ambos mundos permanecen separados cuando uno —el real y budista— no logra imponerse sobre el otro. El relato sobre Kaysone parece entonces reinscribirse en un mundo mítico históricamente sometido o suprimido. Sería interesante reinterpretar la compleja cuestión étnica laosiana partiendo de este campo “indígena” vencido pero redescubierto en el Laos moderno, más allá de la dialéctica entre rey indianizado y líder carismático. De este modo, podríamos volver a apreciar sistemas políticos que no necesariamente se ajustan a las categorías politológicas modernas, y reconsiderar vínculos y relaciones que la prolongada guerra civil del país ha desgarrado profundamente. Escribiré más al respecto en cuanto sea posible.

 
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from sottocutaneo

[dodici]

dovrei un po' staccarmi da queste cose, dodici potrebbe essere il numero perfetto, fare i miei otto pezzi di broccato, passare a quelli, così simili, così diversi, rendersi conto della dimostrazione dei teoremi, prendersi il tempo per pulire le cose con attenzione, per oliarle una a una, nettare tutto, l'uomo prima nomina le cose, poi le lecca, infine le copre con cera protettiva, solcando con il coltello sotto la pelle per fare spazio per piccoli oggetti, il corpo è una sacca, la comunicazione la selezione di un vocabolario base, non ho così tanta voglia di fare, è arrivato il momento in cui fermarsi, prendersi del tempo per non fare niente, un vocabolario base con cui la gente si capisce, con cui si addomestica, con cui si rende comprensibile, iniziando a mentire si rende comprensibile di qualcosa che non è, ricominciamo, una sacrosanta volta emozionale che trasuda dalla periferia dell'immaginario, ecco, siamo piccole cose, io sono una piccola cosa eppure questa piccola cosa che sono è l'ambiente all'interno del quale vivo, vedo attraverso questa piccola cosa, mangio nei fori di questa piccola cosa, soffro e godo con le arterie e le estremità di questa piccola cosa, tutto il mondo creato è allestito nell'ambiente di questa piccola cosa, per quel che ne sappia io, non c'è niente fuori questa piccola cosa – un po' come quando discutevo su cosa ci fosse fuori dall'universo e lui si incazzava e diceva, niente fuori dall'universo, per quanto ne sai dicevo io, niente fuori dall'universo, benissimo dico io, allora anche niente fuori dalla piccola cosa che sono, anche lui è dentro la mia piccola cosa, anche tu sei dentro la mia piccola cosa, tutto è dentro questo ambiente, lo capisco bene seduto sul divano mentre vedo quello che tengo in mano, sulle gambe, tra le dita, giro la testa per guardare la porta, il vano del salotto, la testa azzurra di una ragazza, è tutto lì dentro, qua dentro, all'interno del mio ambiente, cosa c'è oltre l'universo? ma tutti gli altri universi, tutti gli altri ambienti delle altre piccole cose che resteranno per sempre aliene le une alle altre, puoi infilare la lingua sottocutanea alla lingua del tuo fratello, della gemellanza umana, ma quello resterà dalla sua parte dell'ambiente, inchiavardato dentro la sua piccola cosa, e tu dall'altra parte, nel tuo ambiente, tutto dentro la tua piccola cosa, per sempre alieni gli uni agli altri, per questo alla morte tutto viene smembrato e fatto a pezzi, un vocabolario base, vedi, per allestire questo canale di comunicazione, per superare il disturbo, è una cosa di un attimo, questo stupido grosso clitoride che eiacula pozze di linguaggio animale inintellegibile che è lì incastrato dentro da sempre, tra la veglia e il sonno, anche lui comunica, hyke!

 
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from Pollaio Simbolista

Rime in R

Russa un rantolo reale nera razza dei rottami, Roso a riva un remo arreso ride in radica di rana.

Ronza un rospo nella rada D’un ramarro che rampogno, Torvo il Ragno trova trame Rosse Requie di risacca

Fresca rena Risuona resa, Resta in Rotta Raffio in Rada.

Rubo un granchio Ringhia il ratto Resta ritto Il morto astratto

Rido Gratto E m'arrabatto.

 
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from chiaramente

“Words are lies,” the Master said. But I cheated on my wife, With the fingertip of my index. When the house of cards fell, She was gone, and it's over. Maybe I wasn't cut for it. So I went to hell in a handbasket, Settled my own cozy circle. With some work, it's not all bad To be married to my own life: When there's no way out, Compromise is much easier. Finally, I can be faithful here, And hear the dawn chorus sing.

 
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