Sermone narrativo su Geremia 20,7-13
Mi chiamo Geremia, figlio di Chilchia, della città di Anatot, un piccolo villaggio nel territorio di Beniamino, non molto lontano da Giuda e Gerusalemme. Anatot è un nome che forse pochi di voi hanno sentito, eppure, è proprio da qui, da questa terra umile e tranquilla, che la mia vita è stata sconvolta.
Non sono nato in una famiglia di profeti né di uomini potenti, mio padre era un semplice sacerdote e abituato ai rito al tempio di Gerusalemme. Forse sapete che il Tempio era il nostro punto di culto centrale e unico per quanto riguardava i sacrifici. Credevamo che proprio nel Tempio Dio avesse la sua abitazione qui in Terra. C’erano molti riti, tutti circolavano attorno al sacrificio, infatti giorno e notte dal Tempio si vedeva la stele di fumo salire verso il cielo e portare l’odor soave degli sacrifici verso Dio per calmarlo.
Tutto era rituale e perfetto. Il nostro contatto con Dio, così mi insegnava mio padre, si limitava a portare dei sacrifici per purificarci e poter sussistere davanti a Dio. Ma avere contatto con Dio oltre ai riti nel Tempio non era previsto.
Perciò, nel giorno in cui la voce di Dio si fece sentire, la mia esistenza cambiò per sempre. Non chiesi di essere scelto. Anzi, avrei voluto tutto fuorché questo. Ma Dio ha scelto me, e con la Sua chiamata, ha cominciato a scrivere una storia che avrei dovuto vivere, una storia che non avevo mai immaginato, al di fuori del modo in cui vivevo prima la mia religione.
Quando il Signore mi rivolse la sua vocazione, non ero preparato. Ero solo un giovane, un ragazzo senza esperienza, che non aveva mai pensato a grandi cose, che non aveva mai avuto ambizioni particolari.
Mi trovavo nel pieno della mia vita, nei miei sogni di adolescente, quando quella voce interruppe tutto. Il Signore mi chiamò nel tredicesimo anno del regno di Giosia, figlio di Ammon, e subito la Sua parola mi fece tremare. «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni» mi disse.
Non riuscivo a credere a ciò che stavo udendo. Era come se il mio mondo fosse stato capovolto in un istante, come se una realtà che avevo sempre conosciuto fosse improvvisamente scomparsa, lasciando al suo posto solo una grande confusione, perché finora Dio per me era relegato al tempio e basta. Non pensavo che potesse parlare a me. Certo, nei rotoli sacri Mosè aveva contatto diretto con Dio, ma erano altri tempi. Oramai eravamo liberati dalla schiavitù e avevamo la nostra terra promessa e sacra. Avevamo, in fondo siamo solo noi, le tribù di Beniamino e Giuda, perché le altre sono state deportate dagli Assiri oltre 100 anni fa e non sono mai tornate.
In quel momento in cui Dio mi parlò, il mio cuore era un groviglio di emozioni e di pensieri. Sentivo un peso enorme sulle spalle, una chiamata che non mi faceva sentire speciale, ma piuttosto schiacciato, spaventato.
Non c'era nulla di glorioso in questo compito. La mia mente non riusciva a concepire come un ragazzo come me, senza esperienza, senza forza, potesse portare il peso di un messaggio così grande.
Come avrei potuto annunciare la fine di Gerusalemme? Come avrei potuto dire al popolo che Dio li avrebbe giudicati e che la loro rovina era imminente? Io, così giovane, senza autorità, senza supporto, come avrei mai potuto farlo? Cosa avrebbe detto mio padre che di Dio si sarebbe dovuto intendere?
Il dubbio mi assaliva. Mi sentivo insignificante di fronte a quella chiamata. «Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo» dissi, con la voce tremante, tentando di respingere quella responsabilità che mi stava schiacciando. Mi sembrava di essere inadeguato, fragile, incapace.
La paura mi divorava, e la sensazione di non essere all’altezza di una simile missione mi paralizzava. Come potevo andare avanti con questa chiamata? Come potevo affrontare la violenza del mondo con la mia voce tremante e il cuore pieno di incertezze?
Ma la risposta che mi diede il Signore non fu un conforto nel senso che mi aspettavo. Non mi disse che sarebbe stato facile, non mi promise che sarei stato compreso. Mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò e dirai tutto quello che io ti comanderò. Non li temere, perché io sono con te per liberarti»
Non c'era spazio per le mie giustificazioni. Non c'era spazio per le mie paure. C’era solo la Sua volontà, che mi spingeva ad obbedire.
Non riuscivo a liberarmi di quella sensazione di essere troppo giovane, troppo fragile. La mia mente si riempiva di domande. Come avrei potuto affrontare le dure parole che mi sarebbero state rivolte? Come avrei potuto dire che Dio avrebbe punito il popolo, che la città sacra sarebbe stata distrutta, che tutto ciò che avevamo conosciuto sarebbe crollato?
Il pensiero di affrontare i miei compaesani, i sacerdoti, il re, mi riempiva di orrore. Sapevo che non avrebbero mai voluto ascoltarmi, che avrebbero visto in me solo un ragazzo senza esperienza. Eppure, quella voce non smetteva di risuonare, insistente, imperiosa.
In quei momenti, il mio spirito era dilaniato. Da una parte, sentivo il peso della chiamata. Dall’altra, mi sentivo schiacciato dal timore di non essere capace, di non poter compiere ciò che mi veniva richiesto. Non ero pronto. Non ero forte. Non ero esperto.
C’erano altri, sicuramente, che avrebbero potuto farlo meglio di me. Eppure, Dio mi aveva scelto. Quella consapevolezza mi sovrastava, mi faceva sentire impotente. Le sue parole mi costringevano ad accettare un destino che non avevo scelto, che non desideravo.
Eppure, c’era un fuoco che mi bruciava dentro, una spinta che non riuscivo a fermare. Non potevo più fare a meno di parlare, di annunciare ciò che avevo visto, ciò che il Signore mi aveva rivelato.
Il compito che mi era stato assegnato era difficile, troppo difficile. Dovevo denunciare la corruzione, la falsità, la disobbedienza del popolo. Dovevo predire la rovina di Gerusalemme, il crollo di un mondo che era il mio mondo, quello che avevo sempre conosciuto.
Dovevo dire loro che non c’era speranza, che la fine era vicina, che Dio li avrebbe puniti per la loro infedeltà. E mentre mi preparavo a farlo, il cuore mi si riempiva di tristezza e di paura. Non volevo essere il portatore di una cattiva notizia. Non volevo essere quello che avrebbe segnato il destino del popolo con le sue parole.
Il mio corpo tremava quando dovevo parlare, e la mia mente era tormentata. Ogni volta che annunciai il giudizio di Dio, sentivo le reazioni del popolo: il disprezzo, la rabbia, la negazione. Mi chiamavano profeta di sventura, traditore della nostra terra.
I sacerdoti e i re mi guardavano con odio, cercavano di zittirmi, di farmi tacere. Ma non potevo. Non riuscivo a farlo. La mia bocca, nonostante la paura, non riusciva a fermarsi. Le parole di Dio mi bruciavano dentro, non c’era modo di controllarle. Come un fiume in piena, la verità doveva essere pronunciata, anche a costo della mia vita.
C’era una solitudine che mi avvolgeva ogni giorno di più. Nessuno mi capiva. La mia famiglia mi aveva abbandonato. Mio padre mi ha cacciato di casa, non ero degno di seguire le sue orme e fare sacrifici al tempio. I miei amici mi evitavano, e il popolo mi disprezzava. Ogni passo che facevo mi portava sempre più lontano dal mondo che conoscevo, e mi avvicinava alla solitudine del profeta, alla solitudine di chi ha ricevuto una chiamata che non può sfuggire, ma che lo consuma dall’interno.
Spesso mi chiedevo perché Dio avesse scelto proprio me, perché non avesse scelto qualcun altro, qualcuno più esperto, più potente, più in grado di affrontare la missione che mi aveva dato. In quei momenti di disperazione, mi veniva da urlare: Tu mi hai persuaso, mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, tu mi hai fatto forza e mi hai vinto; io sono diventato, ogni giorno, un oggetto di scherno, ognuno si fa beffe di me.
“Perché, Signore? Perché mi hai scelto per soffrire così tanto? Perché non hai scelto qualcun altro?” Ma, alla fine, una risposta non arrivò. Eppure, nonostante tutte le mie incertezze, nonostante i miei dubbi, non potevo fermarmi. Non potevo.
E allora, mi ritrovavo a parlare, a predicare, a denunciare la malvagità e la falsità del popolo, ma anche a sperare. Sì, sperare, perché sapevo che, nonostante tutto, Dio aveva ancora un piano. La Sua promessa di restaurare Israele non sarebbe mai venuta meno, anche se il cammino sembrava buio e doloroso.
E così, tra il dubbio e la speranza, tra il dolore e la fede, la mia vita è diventata una testimonianza del difficile cammino di chi obbedisce alla chiamata di Dio, senza sapere come finirà, ma con la certezza che quella chiamata è la vera vita, anche quando tutto sembra andare contro di te.
Ecco il mio cammino. E nonostante i dubbi, nonostante la solitudine, continuo a parlare. Perché, in fondo, non posso fare altro.