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from GRIDO muto (podcast)

🌙 Quando non riesci a dormire 😴, e ti discriminano per questo 🚫.

Sembrava che la vita mi stesse abbandonando. In treno, qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme. Figurati come potevo sentirmi.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 12), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto le luci e le ombre del mio momento di massima evoluzione musicale e anche alcuni miei pensieri sul sonno.

Ti è mai capitato di pensare al sonno? Quella cosa che da giovane dai per scontata, ma andando avanti con gli anni ti ritrovi a desiderarlo e a trovarlo con difficoltà? Secondo me viviamo in una società che ha un rapporto molto conflittuale con il sonno: da un lato tutti abbiamo sempre più problemi di sonno e, dall'altro, chi dorme viene criticato. Se ci pensi, dormire ha un significato metaforico abbastanza brutto nella nostra lingua, nella nostra società.

Quando diciamo che qualcuno dorme, in tanti casi stiamo dicendo che è poco sveglio, che non è una persona intelligente. Quando abbiamo qualcosa di importante da fare, invece, diciamo che non dobbiamo “dormirci sopra”, dando automaticamente un significato negativo al sonno. Quando una persona vive nel mondo dei sogni, significa che non sta coi piedi per terra, non è una persona concreta. Pensaci bene: quanti modi di dire conosci che sono legati al sonno come cosa negativa? Quanti ne ho dimenticati? Se ne conosci altri, fammelo sapere con un commento e lo leggerò davvero con molto piacere.

Quindi, dicevamo, da un lato tutti vorremmo dormire e, dall'altro, chi dorme tanto viene giudicato come poco intelligente o sfaticato. Poi ci siamo noi, malati invisibili che, per non sbagliarci, riusciamo sia a non dormire sia a dormire. Non dormiamo di notte per i motivi più strani e fantasiosi e poi dormiamo di giorno, essendo stravolti dalla notte in cui abbiamo fatto di tutto tranne che riposare. Anzi, usiamo pure il plurale: le notti sono tutte così per noi. Il giudizio della società nei nostri confronti, quindi, è una cosa abbastanza automatica, vista la nostra cultura di partenza. Anche questo è un modo per essere malati invisibili: la carenza di sonno non si vede, provoca effetti che non saltano all'occhio e l'insonnia è una brutta bestia, che sia l'ansia, o la psoriasi, o l'artrite a tenerti sveglio, qualsiasi cosa. Quindi, in sostanza, per noi non solo non c'è mai pace neanche da questo punto di vista, ma non veniamo visti di buon occhio se mostriamo sonnolenza o stanchezza.

Ti raccontavo della mia situazione negli episodi precedenti: praticamente quasi ogni notte è un incubo per me, immagino anche per te se soffri delle mie stesse patologie, perché, nonostante io sia stanchissimo, spesso non riesco a chiudere occhio prima dell'una del mattino. Questa cosa è inspiegabile, ma è così. Dovendo andare al lavoro e con tutta la trafila che devo fare per svegliarmi, che ti raccontavo nell'episodio 2 del podcast, diventa impossibile svegliarsi più tardi delle 6 per essere al lavoro alle 8:00/8:15 e considera che vivo a 20 minuti di bici dall'ufficio. Ormai sono così sregolato che non ci sono bioritmi che tengano: nei fine settimana mi sveglio comunque prestissimo e, anche quando faccio qualcosa di particolarmente stancante, non c'è nulla da fare, fino all'una non se ne parla.

Come ti dicevo, se hai ascoltato il secondo episodio del podcast, ricorderai che il mio problema, come quello degli altri malati invisibili, non è tanto ansiogeno, ma è causato da mille fattori: dolore, prurito, bassissima soglia di tolleranza al rumore e così via. E quindi qui mi rivolgo in particolare agli amici e conoscenti che, in totale buona fede, mi dicono se ho già provato con la melatonina o con qualche ansiolitico. Sì, abbiamo già provato con la melatonina e anche con gli ansiolitici, ma dormire bene resta un sogno per noi, che a volte si avvera, almeno per me, e ti racconterò come, ma non è così frequente. Il fatto è che i nostri non sono problemi di ansia, o almeno non solo quelli, la situazione è molto più complessa di così.

Ricordo, però, momenti della vita in cui non era così, anzi era molto più facile dormire. Ci sono stati momenti in cui per me dormire era ancora una cosa bella, piacevole, naturale. Quando mi avvicinavo ai 30 anni, ad esempio; erano gli anni tra il 2004 e il 2007 più o meno, dopo varie peripezie acrobatiche per distribuire il mio curriculum vitae in tutto l'emisfero nord del pianeta, finalmente avevo trovato un buon impiego, ma c'era un problema: era a Bologna e dalle colline di Parma, dove vivevo in quegli anni, fino al centro del capoluogo emiliano, beh, c'era tanta strada. Mangiare bisogna pur mangiare e, alla fine, senza un diploma [universitario] era difficile pretendere di meglio. Accettai dunque il lavoro e iniziai a fare il pendolare: in un'ora arrivavo alla stazione di Reggio Emilia, dove prendevo il treno e poi un'altra ora fino a Bologna in treno e poi un'altra mezz'ora a piedi fino all'ufficio, vicinissimo alle Due Torri, in centro. Una lunghissima tirata sia all'andata che al ritorno, che mi stancava moltissimo, di notte, però, dormivo beatamente. In quegli anni ne approfittavo, anzi, per dormire anche in treno, sia all'andata che al ritorno, mettendo una sveglia sul mio cellulare nuovo di zecca per evitare di rimanerci sopra.

Quel cellulare mi aiutava tantissimo a passare il tempo: era un modello tutto blu a conchiglia ed era uno dei primi a basso costo in grado di leggere gli MP3 e usarli come suoneria: avanguardia pura per quegli anni. La cosa che preferivo, però, era il mio iPod, uno dei primi, dove iniziai ad innamorarmi dei podcast. Con un piccolo sforzo, potevo ascoltare la musica e cose nuove per ore su questo dispositivo facilmente trasportabile che per me aveva qualcosa di magico. Naturalmente c'erano anche i libri a tenermi compagnia, ma, come dicevo, tanta, tanta musica. In quegli anni uscirono molti album di un paio di chitarristi che in poco tempo erano diventati i miei preferiti. Si trattava di Joe Satriani e Steve Vai, entrambi statunitensi, ma con radici italiane. Negli episodi precedenti del podcast ti ho già fatto i loro nomi. Se sei un chitarrista, senz'altro li conoscerai perché sono due dei pezzi grossi del nostro tempo per quanto riguarda la chitarra elettrica. Quei due signori sono individui molto influenti che, se non ci fossero stati, la chitarra moderna non sarebbe la stessa cosa.

Come dicevo, entrambi hanno lontane origini italiane pur essendo statunitensi. Te ne parlerò brevemente perché è importante per la mia storia farti capire chi siano. Joe Satriani, nel corso degli anni, ha insegnato a molti altri chitarristi di grande successo, come quello dei Metallica, ad esempio, cioè Kirk Hammett, e lo stesso Steve Vai ha portato nel mondo della chitarra moderna uno stile che è semplice soltanto all'apparenza: melodie canticchiabili con la voce, ma suonate divinamente e, a ben guardare, proprio difficili da suonare, quantomeno come le suona lui. Uno dei suoi brani famosi, ad esempio, è un pezzo iconico che tutti ricordiamo: la colonna sonora del film Top Gun.

Avendo ascoltato Satriani, il passo per conoscere Steve Vai è stato brevissimo. Nonostante Satriani sia stato il suo maestro, Steve Vai ha uno stile completamente diverso. Nei suoi dischi trovano posto suoni tremendamente elaborati, ma che sembrano quanto di più naturale esista. La sua chitarra sembra quasi possederlo, piuttosto che il contrario. È capace di velocità supersoniche, ma anche di avere un timbro speciale che lo distingue da chiunque altro e, naturalmente, una grande capacità di comporre brani e melodie. Steve sa leggere e scrivere perfettamente la musica fin dalla tenera età e il suo cervello, come ti raccontavo anche del mio, anche se non vorrei fare paragoni azzardati, ha la capacità di gestire note anche senza suonarle; ha la capacità di gestirle, diciamo, di sentirle nella sua testa. Nella sua carriera ha scritto pezzi per intere orchestre senza toccare neanche uno strumento, ma la sua musica di solito è quanto di più lontano dal genere orchestrale si possa immaginare. Come il sonno, la sua musica può essere delicata e inquietante, a volte nello stesso tempo. Prova a cercare qualche suo pezzo su internet e capirai di cosa parlo. A volte sembra ascoltabile e un disco intero, in effetti, si ascolta a fatica tutto in una volta, ma lentamente, almeno da chitarrista, ti chiedi: “Ma come fa a fare quei suoni? Cioè, com'è possibile che quella sia una chitarra?”. Sentire per credere.

Per me era naturale che, a forza di ascoltare la musica di Steve Vai, mi venisse voglia di suonarla. Con la mia chitarra del '94, che si prestava molto bene a quel tipo di musica, il passo fu ancora più breve. Le cose che ascoltavo sui dischi dello “zio Steve” mi erano sembrate subito inarrivabili e lo erano. Era frustrante, in un certo senso. Mi chiudevo nel garage della mia casa di Reggio Emilia, dove mi ero trasferito...cioè nella casa, non nel garage...e alla fine suonavo, suonavo, suonavo davanti al mio computer, dove la musica veniva artificiosamente rallentata per cercare di renderla più facilmente suonabile per me. Mi ricordo che mi sedevo alla scrivania spesso alle due del pomeriggio, magari in estate, nei giorni liberi, suonavo e, quando guardavo fuori dalla finestra, mi rendevo conto che era arrivato il buio, era buio pesto e stavo suonando lì da solo al buio da ore. Proprio come mi capitava quando vivevo coi miei nelle montagne. Suonare mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ecco quanto era importante per me.

Nonostante questo, nonostante questo impegno, la musica di Steve Vai restava irraggiungibile per le mie dita. Suonavo bene i Led Zeppelin e anche tante cose dei Pink Floyd, ero felicissimo di questo, ero al settimo cielo per le capacità che avevo appreso tutto sommato da solo, ma Steve Vai...niente da fare, era proprio di un altro livello e mi frustrava moltissimo non poterlo suonare.

A furia di viaggi in treno arrivarono persino i 30 anni, tra mille stress sul lavoro. Mi capitava già di non dormire e la causa allora era semplicemente l'ansia. Il pendolarismo era lungo e pesante e, in più, da qualche anno mi ero anche iscritto in palestra. Adoravo come il mio corpo reagisse agli allenamenti. Sul lavoro ero un punto di riferimento per l'assistenza informatica e anche questo mi rendeva tutto tronfio e sicuro di me; diciamolo pure, presuntuoso su alcune cose. Ero persino un po' dittatoriale e sicuramente i colleghi dell'epoca, se sono in ascolto, potranno darmi ragione. Quando ero convinto che una soluzione fosse la migliore, per esempio adottare un nuovo software in particolare ci mettevo tutto me stesso per implementarlo. E fin qui niente di male, ma, se era il caso e potevo farlo, imponevo le mie scelte. In fondo io ero l'esperto lì, i colleghi avrebbero dovuto imparare. Intendiamoci, trovare soluzioni ai problemi e implementarle è uno dei compiti degli informatici e sì, spesso siamo noi quelli che decidono che cosa implementare e come. Comunque, abbiamo una pesante voce in capitolo nel processo, ma io ci mettevo un po' troppo zelo, spesso mi rendevo antipatico e oggi non ho alcun dubbio su questo, ma allora mi veniva spontaneo a credermi un po' migliore degli altri. D'altra parte, non solo sapevo fare un sacco di cose, ma suonavo sempre meglio, sapevo suonare il basso, la batteria, tante cose. Quanti potevano dire di saperlo fare?

Arrivato, ai 30 anni, decisi di iscrivermi all'università, ingegneria informatica, niente meno. Certamente mi sarebbe stata utile, magari anche per trovare un nuovo lavoro più vicino a casa, magari anche più soddisfacente. Non avevo messo in conto, però, che studiare e lavorare a tempo pieno era pesantissimo. Conoscevo così bene la musica di Steve Vai ormai che in treno me la sparavo in cuffia insieme a Satriani, a Guthrie Govan, un altro grande chitarrista contemporaneo, e a tutti gli altri. Mi faceva l'effetto dei Deep Purple quando tornavo a casa dalle scuole superiori. Mi ci ritrovavo così bene che ormai mi rilassava, mi faceva venire voglia di dormire, ma mi imponevo di stare sveglio e, isolandomi dalla confusione del treno, sceglievo io una confusione che conoscevo e che mi consentiva di studiare per l'università. Le serate e i fine settimana liberi erano interamente dedicati allo studio, ma ogni minuto che avevo libero lo passavo sulla chitarra.

All'improvviso, senza che ci fosse nessun segnale ad avvisarmi, accadde qualcosa di veramente terribile per me. Le mie dita iniziarono ad aprirsi, la pelle delle mani perdeva elasticità, i polpastrelli diventavano duri e si spaccavano come se un coltello li avesse tagliati e, per un chitarrista, i polpastrelli sono tutto. Queste lesioni di cui ti sto raccontando sanguinavano, si infettavano e non guarivano più. Suonare stava diventando impossibile. Toccando le corde sottilissime della chitarra elettrica, spesso queste si incastravano nei tagli sui polpastrelli e li aprivano ancora di più. Non sapevo veramente cosa fare. Suonare con i cerotti era impossibile. Un chitarrista è un tutt'uno con le corde, deve poterle sentire, deve tirarle, deve maltrattarle o accarezzarle sapendo dosare bene la forza per tutti i sentimenti diversi che vuole esprimere attraverso lo strumento. Tentai di tutto, dai cerotti spray ai guanti, a creme varie per fare guarire le dita più in fretta, ma niente, nessun risultato apprezzabile.

In quello stesso periodo, una specie di grande macchia violacea che avevo sulla tibia e che mi prudeva già da qualche anno, prese ad allargarsi fino a ricoprire tutta la tibia e una parte del polpaccio, dal ginocchio alla caviglia. Altre due macchie dello stesso colore comparvero al centro dei palmi delle mani. Anche queste, come le dita, come la tibia, si spaccavano e sanguinavano. Immagina la mia gioia nel girare su e giù per i treni con ferite aperte!

Il medico mi mandò da una dermatologa piuttosto in gamba nella nostra regione e lei, dopo avere fatto qualche test e sentita la mia storia, emise un verdetto: allergia al nichel. Le corde della chitarra elettrica, in effetti, sono di nichel. Nella mia testa tutto cominciava ad avere un senso. Toccavo continuamente del nichel nella chitarra, nelle posate e nei computer che configuravo per lavoro, e anche le monete che tenevo in tasca, in fondo, erano anch'esse di nichel. Questo, a detta della dermatologa, poteva benissimo causare una reazione allergica più giù lungo la tibia e sulle mani, e poi quella era una zona colpita dall'ustione dieci anni prima (la tibia, intendo), e quindi tutto poteva succedere a quella povera pelle.

Cominciai quindi a trattare il problema come se fosse un'allergia.

Localmente mettevo del cortisone e, dopo un po', passai alle cose naturali. L'estratto di ribes sembrava farmi ottenere qualche piccolo risultato, ma solo per qualche mese. Funzionò. Si pensò allora che fosse celiachia e, anche in quel caso, migliorai un pochino con la dieta senza glutine, ma non del tutto. Si pensò all'HIV, ma risultai negativo. Si pensò allo stress, ma niente da fare, niente di tutto questo sembrava essere la risposta.

Un po' frustrato, pensai che l'unica soluzione possibile era quella di suonare ancora di più, sacrificando le dita. Vivevo quindi con i cerotti perché le dita sanguinavano sempre. Penso di avere alimentato da solo l'industria dei cerotti fino a pochi anni fa. Me li toglievo soltanto per suonare, i tagli si aprivano, sanguinavano e a quel punto io smettevo di suonare, ma non mi importava, appena potevo ricominciavo. Ogni nota era un bruciore infinito, con le corde che spesso mi penetravano nei polpastrelli. Chi ha visto suonare un chitarrista avrà notato che le corde spesso vanno percorse con il dito lungo tutta la loro lunghezza. Un martirio. Mi ero abituato a suonare in tanti nuovi modi. Se il polpastrello aveva un taglio a destra, mi abituavo a spostare il dito e a usare la parte sinistra del dito e viceversa, se invece era spaccato ai lati, cercavo di usare la punta quando possibile oppure direttamente l'unghia. A un certo punto dovetti rallentare perché capii che avrei perso le dita a furia di infezioni. Ti racconto tutto questo non per disgustarti, ma per farti capire quanto fosse importante per me lo strumento. Non mi fermavo di fronte a niente. Non so se anche tu nella tua vita hai trovato qualcosa che ti piace e che ti completava così tanto da non farti sentire i problemi. Questo per me era la chitarra.

Ma nel 2010 accadde un altro evento terribile, come se non fossero bastati i precedenti.

All'improvviso non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ma intendo letteralmente, non ne avevo la forza né le energie. È difficile spiegarti come mi sentissi, ma tutto partì dalla palestra. Un bilanciere con 80 kg che solitamente alzavo come se fosse uno scherzo mi parve all'improvviso pesante come una montagna, non c'era modo di gestirlo. Peccato che in quel frangente l'avessi già sollevato e fosse direttamente sopra la mia testa e in qualche modo avrei dovuto riportarlo in basso. Ci provai, ma ci rimasi sotto e, per fortuna, senza danni gravi quella volta. Chi era lì mi vide in difficoltà e mi aiutò immediatamente, ma io non riuscivo a spiegarmelo il motivo.

Qualche giorno dopo non riuscivo a risvegliarmi al mattino come se fossi drogato, fare una scala era un'impresa, dovevo fermarmi due volte ogni 10 gradini, mantenere la concentrazione sembrava qualcosa di impossibile, mi addormentavo a volte anche guidando e anche mentre parlavo con i colleghi al lavoro. Immaginati cosa avranno pensato di me. Sembrava che la vita mi stesse abbandonando in treno. Qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme; figurati come potevo sentirmi.

In tutto questo, per i miei familiari più o meno stretti era impossibile che io avessi qualcosa di serio. Più o meno esplicitamente mi stavano comunicando che, secondo loro, mi stavo inventando tutto, stavo fingendo per non mettere a posto la legna nella cantina, era chiaro, per non andarli a trovare, era evidente, per non andare alle tanto pubblicizzate riunioni dei gruppi spirituali che continuavo a frequentare. Mi sentivo tremendamente confuso, non capivo cosa stesse succedendo. Non c'era una risposta e io avevo solo 30 anni. Com'era possibile tutto questo? Era questa la vecchiaia?

I miei amici mi chiedevano di uscire e accettavo sempre, poi all'ultimo non potevo presentarmi alle cene, alle uscite, ero già esausto alle 7:00 di sera. Se tu che mi ascolti sei sano, ti ricordi com'erano i tuoi 30 anni? Ti chiederei la gentilezza di farmelo sapere con un commento perché io non ho conosciuto i 30 anni come tutti gli altri e quindi per me è importante sapere qual è, diciamo, la normalità.

Non ci volle molto prima che mi venisse l'ansia. Come potevo impegnarmi con i miei amici se poi non potevo uscire con loro? Iniziai quindi a non programmare più nulla, evitavo il problema direttamente. Conoscevo solo il lavoro e il sonno, il sonno e il lavoro. Mi ero completamente ritirato dalla mia vita sociale, sabati e domeniche interminabili a letto. Il mio era un sonno malato, innaturale, narcotico. Studiare era diventato impossibile, tentavo di suonare qualcosa, ma riuscivo a malapena a stringere il manico e le dita erano lente, non rispondevano alla velocità che io avevo in testa.

Chiesi consiglio a più di un medico, ma nessuno riusciva a unire i puntini. Alla fine, un otorinolaringoiatra mi disse che la causa di tutto questo poteva essere nei denti del giudizio: erano in brutte condizioni e sarebbero stati da togliere, ma un dentista non ce l'avrebbe fatta.

Strano, perché in generale sono stato così fortunato con la salute!

Più di un dentista mi confermò che non sarebbe stato in grado di toglierli, quella era cosa per un reparto di maxillo-facciale, una vera e propria mini-chirurgia. Mi feci togliere il primo e, dopo tante altre settimane di sonno, di gelato e di dolore, circa tre, finalmente mi sentivo un po' meglio. Stranamente le spaccature sulle dita e la mia chiazza viola sulla gamba e sui palmi si erano molto attenuate. Che fossero state le massicce dosi di antibiotici? Ma allora il mio era un problema battereico? Cosa c'entrava l'allergia al nichel? Non riuscivo più a capirci veramente nulla.

Dopo molte altre settimane tornai in palestra e in un giorno come tanti vidi un annuncio che mi lasciò di stucco: Steve Vai stava per venire a Reggio Emilia. Non potevo aver letto bene. Steve Vai a Reggio Emilia? Il mio idolo, la mia ispirazione, qui vicino a me? No, non era vero.

E invece lo era. Il mio sogno di avvicinarlo stava per avverarsi. Non si trattava di un concerto, ma di una masterclass. In poche parole, un incontro in cui si suppone che il maestro insegni i suoi trucchi e i suoi segreti. Non credo di poterti raccontare cosa provai in quel momento, un misto di gioia e senso di colpa per la spesa che si doveva affrontare, ma dovevo assolutamente andarci, anche se quei soldi me li sarei cavati dalla pelle. L'occasione era davvero allettante. L'incontro non era in una grande città, anzi era un piccolo paese di provincia. Steve non era molto conosciuto come lo è oggi e, in più, non era neanche un concerto. In quanti saremmo mai potuti essere interessati in zona? In quanti avremmo potuto partecipare? Pochi, e l'avrei quindi visto da vicino finalmente.

Nell'episodio precedente ti dicevo che ho perso fiducia nelle entità superiori, l'unica entità superiore che sono certo che esista oggi è l'inquilino del secondo piano, ma nel 2010 ero ancora certo che qualcuno vegliasse su di me e quindi ancora una volta...per me era evidente: cose terribili in quell'anno, cose inspiegabili che non avevano neanche un nome, ma ricompensate da una gioia immensa.

“Grido Muto” nasce per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili in una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è una sfida in termini di tempo, energia e competenza, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi nella descrizione di questa puntata del podcast, quel posto dove nessuno guarda mai. Ti aspetto martedì prossimo con un nuovo episodio in cui ti racconterò il mio incontro con il mio idolo Steve Vai.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Imparare a resistere

Segnaliamo il libro “Imparare a resistere, per una pedagogia della resistenza” di Raffaele Mantegazza.

Il libro esplora i seguenti percorsi di riflessione:

  • Pedagogia della resistenza come pratica educativa

  • Modalità di apprendimento della resistenza

  • Analisi delle forme di sopraffazione e oppressione

  • Strategie per contrastare l'annientamento individuale e collettivo

  • Riflessioni sulle esperienze storiche di resistenza

 
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A Padova: no atomiche

Vi invitiamo a partecipare all’iniziativa promossa dalle Associazioni padovane riunite sotto la sigla “Uniti per la Pace” e aderenti alla Rete Italiana Pace e Disarmo. L’evento consiste in un sit-in che si terrà domani, mercoledì 22 gennaio, dalle ore 12:00 alle ore 13:00, di fronte a Palazzo Moroni, in occasione del 4° anniversario dell’entrata in vigore del Trattato TPNW (Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari).

Contatti: Denis Cagnoli Ufficio Pace, Diritti Umani e Cooperazione Internazionale – Settore Gabinetto del Sindaco – Comune di Padova Via del Municipio, 1 – 35122 Padova​ Tel. 049 820 5629 Email: cagnolid@comune.padova.it;

 
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Trump/2

Uscita dall’OMS: la salute globale abbandonata

Trump ha ribadito la sua posizione di sfida alle istituzioni multilaterali annunciando il ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). In un mondo ancora vulnerabile a pandemie e crisi sanitarie globali, questa decisione rischia di indebolire la cooperazione internazionale e lasciare scoperti milioni di individui, soprattutto nei paesi in via di sviluppo che beneficiano del supporto statunitense in ambito sanitario.

Fine dello ius soli: un’America più chiusa

L’addio allo ius soli segna un colpo duro ai principi fondamentali dell’inclusività e dei diritti civili. Negare la cittadinanza automatica ai nati sul suolo statunitense trasforma gli Stati Uniti in una nazione ancora più ostile nei confronti dell’immigrazione e delle minoranze.

Emergenza nazionale al confine: una cortina di ferro a sud

La dichiarazione di emergenza nazionale al confine con il Messico rappresenta un ritorno al nazionalismo sfrenato e alla militarizzazione delle frontiere. Una strategia che non risolve le cause strutturali delle migrazioni, ma che invece alimenta divisioni e disumanizza intere popolazioni.

Clima e ambiente: un colpo al futuro

L’uscita dagli Accordi di Parigi per il clima, già avviata durante il primo mandato, sarebbe un passo indietro devastante nella lotta globale contro il cambiamento climatico. Con gli Stati Uniti fuori dai giochi, gli sforzi internazionali per ridurre le emissioni di gas serra perderebbero uno dei principali attori, compromettendo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C.

Grazia ai rivoltosi di Capitol Hill: l’erosione della democrazia

Tra i provvedimenti più inquietanti c’è la promessa di graziare i rivoltosi responsabili dell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Questo atto rappresenta un chiaro segnale di legittimazione della violenza politica e un pericoloso precedente per il futuro della democrazia statunitense.

 
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Trump/1

Trump e il ritorno dell’”America First”: l’impatto su ambiente, diritti e politica globale

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca significa un’accelerazione drastica di politiche già ampiamente contestate nel suo primo mandato. Sin dal primo giorno di insediamento, Trump ha dichiarato la sua intenzione di ribaltare le principali riforme del suo predecessore, firmando oltre 100 decreti esecutivi in tempi record.

Le decisioni anticipate lasciano intravedere un’America sempre più protezionista sul piano internazionale, meno attenta ai diritti umani e all’ambiente, e orientata a una gestione autoritaria del potere.

 
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from ᗩᐯᗩIᒪᗩᗷᒪᗴ

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Johnny Cash at Folsom Prison è il primo album dal vivo del cantautore americano Johnny Cash, pubblicato dalla Columbia Records il 6 maggio 1968. Dopo la sua canzone del 1955 “Folsom Prison Blues”, Cash era interessato a registrare un'esibizione in una prigione. La sua idea fu messa in attesa fino al 1967, quando i cambiamenti di personale alla Columbia Records misero Bob Johnston a capo della produzione del materiale di Cash. Cash aveva recentemente controllato i suoi problemi di abuso di droga e stava cercando di dare una svolta alla sua carriera dopo diversi anni di scarso successo commerciale. Sostenuto da June Carter, Carl Perkins e i Tennessee Three, Cash tenne due spettacoli alla Folsom State Prison in California il 13 gennaio 1968. L'album è composto da 15 canzoni dal primo spettacolo e due dal secondo. Nonostante il piccolo investimento iniziale da parte della Columbia, Johnny Cash at Folsom Prison fu un successo negli Stati Uniti, raggiungendo il primo posto nelle classifiche country e la top 15 della classifica nazionale degli album. Il singolo principale, una versione live di “Folsom Prison Blues”, è stato un successo nella top 40, il primo di Cash dal “Understand Your Man” del 1964. At Folsom Prison ha ricevuto recensioni positive e ha rivitalizzato la carriera di Cash, diventando il primo di una serie di album live registrati nelle prigioni che includono At San Quentin (1969), På Österåker (1973) e A Concert Behind Prison Walls (1976). L'album è stato ripubblicato con tracce aggiuntive nel 1999, un set di tre dischi nel 2008 e un cofanetto di cinque LP con prove bonus nel 2018 per il Record Store Day. È stato certificato triplo disco di platino nel 2003 per vendite negli Stati Uniti superiori a 3,4 milioni.


Ascolta: https://album.link/i/825516828


 
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from 📖Un capitolo al giorno📚

Il timore del Signore, questo è sapienza 1 Certo, l'argento ha le sue miniere e l'oro un luogo dove si raffina. 2Il ferro lo si estrae dal suolo, il rame si libera fondendo le rocce. 3L'uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all'estremo limite, fino alle rocce nel buio più fondo. 4In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano sospesi lontano dagli uomini. 5La terra, da cui si trae pane, di sotto è sconvolta come dal fuoco. 6Sede di zaffìri sono le sue pietre e vi si trova polvere d'oro. 7L'uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo scorge neppure l'occhio del falco, 8non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone. 9Contro la selce l'uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici. 10Nelle rocce scava canali e su quanto è prezioso posa l'occhio. 11Scandaglia il fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto porta alla luce. 12Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 13L'uomo non ne conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. 14L'oceano dice: “Non è in me!” e il mare dice: “Neppure presso di me!”. 15Non si scambia con l'oro migliore né per comprarla si pesa l'argento. 16Non si acquista con l'oro di Ofir né con l'ònice prezioso o con lo zaffìro. 17Non la eguagliano l'oro e il cristallo né si permuta con vasi di oro fino. 18Coralli e perle non meritano menzione: l'acquisto della sapienza non si fa con le gemme. 19Non la eguaglia il topazio d'Etiopia, con l'oro puro non si può acquistare. 20Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 21È nascosta agli occhi di ogni vivente, è ignota agli uccelli del cielo. 22L'abisso e la morte dicono: “Con i nostri orecchi ne udimmo la fama”. 23Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, 24perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. 25Quando diede al vento un peso e delimitò le acque con la misura, 26quando stabilì una legge alla pioggia e una via al lampo tonante, 27allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno, 28e disse all'uomo: “Ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza”“. _________________ Note

_28,1 A questo punto si interrompe il monologo di Giobbe e l’autore stesso dell’opera interviene, presentando in un inno la sua riflessione sulla sapienza.

28,16-19 Nei libri sapienziali è frequente il paragone tra il valore della sapienza e il valore delle pietre preziose (vedi ad es. Sap 7,9).

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Approfondimenti

Il timore del Signore, questo è sapienza 28,1-28 Questo poema presenta una sua peculiare configurazione e pertanto suscita sempre diversi interrogativi. Lo stile e soprattutto lo sviluppo originale del tema pongono la questione dell'origine dell'inno. Infatti si parla della sapienza, della ḥokmâ, non come patrimonio e conquista dell'uomo, ma come evento divino. L'inno celebra la sapienza di Dio inaccessibile all'uomo, e di fatto rappresenta una tappa iniziale nella riflessione che ha portato, all'interno della singolare tradizione di Israele, alla personificazione della sapienza e alla sua identificazione con il dono della torah (cfr. Prv 8; Sir 24; Bar 3,9-4,4). Si tratta di un itinerario che, dalla conoscenza esperienziale dell'ordine del mondo, ha portato in Israele a riconoscere la sapienza dapprima come l'ordine della creazione operata da Dio, e infine a identificarla con l'evento della rivelazione di JHWH al suo popolo, con il piano salvifico di Dio. Diversi commentatori hanno notato non solo che il tema dell'inno contrasta con le argomentazioni precedenti, non presentando alcuna connessione ovvia né con la Disputa, né con il Prologo, ma che l'inno in bocca a Giobbe anticipa anche, e dunque rende vani, i discorsi di Dio (cc. 38,1-40,2; 40,6-41,26). Essi pertanto lo considerano un'aggiunta posteriore. Altri studiosi, pur ammettendo l'originaria appartenenza del poema al libro di Giobbe, lo reputano un intermezzo o interludio, di carattere riflessivo, pronunciato dall'autore o da un altro locutore anonimo (per es. un coro), che, dopo l'intensità drammatica della Disputa, consente al lettore una pausa e un riposo. È indispensabile prendere sul serio il fatto che, dal punto di vista narrativo, l'elogio della sapienza si presenta come una continuazione del discorso di Giobbe (c. 27). Il narratore apre il discorso di Giobbe in 27,1, e il suo successivo intervento ricorre in 29,1, con una nuova introduzione. Dunque tra la fine del c. 27 e l'inizio del c. 28 non c'è alcuna cesura da parte del narratore, ma uno straordinario cambio di argomento nel discorso di Giobbe. Peraltro la particolare struttura del c. 28 e la modalità con cui il tema viene progressivamente sviluppato, conferiscono al poema un forte carattere unitario in sé compiuto. Nondimeno, il poema ha una finalità evidentemente didattica, sottolineata dal messaggio conclusivo indirizzato all'uomo (cfr. 28,28), e pertanto si accorda con l'intenzione di Giobbe che ha dichiarato (in 27,12) di voler istruire gli amici sull'azione di Dio. Inoltre il poema presenta un significativo tratto di stile che si ritrova in altre parti del corpo poetico dell'opera. Consiste in una forma particolare della tecnica dell'espansione, ed è caratterizzata da una serie di versetti in cui l'autore elenca delle copie di parole che significano a grandi linee la stessa cosa, o che hanno qualcosa a che fare con lo stesso argomento, o presentano una qualche attinenza con esso (cfr. 4,10-11; 18,8-10; 19,13-15; 41,18-22). Compare all'inizio del poema in 28,1-2 e più avanti in 28,15-19, dove ben dieci linee consecutive sono organizzate secondo questa tecnica. Anche la sorpresa che in tale caso il poema suscita, per la novità con cui l'argomento della sapienza viene proposto, appartiene alla raffinata creatività dell'autore. Un altro esempio emblematico in questo senso, e al quale rimandiamo, è riscontrabile nel contenuto, così originale, dei discorsi di JHWH nella teofania finale. Pertanto, la collocazione del poema appare particolarmente congruente con la dinamica della narrazione. Ponendo la questione del “luogo” della sapienza (28,12.20), Giobbe contesta la pretesa degli amici che spesso inutilmente si sono appellati all'esperienza (cfr. 4,8; 5,27; 8,8; 15,17-18) e che sono convinti di essere depositari della sapienza divina (cfr. 11,6; 15,8-9). D'altra parte Giobbe nei suoi discorsi ha ripetutamente affermato l'ignoranza dell'uomo al quale sfugge il senso di ciò che accade, e nel poema ribadisce che la sapienza resta inaccessibile all'uomo, ma appartiene al dominio di Dio (28,21-27). Le precedenti critiche di Giobbe a Dio pertanto non negano, ma suppongono un piano di Dio. E la sapienza sembra essere per Giobbe il piano di Dio su tutte le cose, che sorpassa infinitamente l'intelligenza umana. I discorsi di Dio confermeranno questa prospettiva che ora Giobbe sostiene contro le presunzioni degli amici e nel contesto dei molteplici interrogativi a Dio. Per queste ragioni siamo propensi a ritenere che questo poema (c. 28) sia stato composto per il libro di Giobbe dallo stesso autore che ha dato la fondamentale impostazione e consistenza all'opera (cfr. Introduzione), e che in modo pertinente lo ha posto a conclusione della Disputa. Il poema sulla sapienza presenta un'organizzazione tripartita, in relazione al motivo conduttore che pone la questione del “luogo” della sapienza, dove l'uomo può trovarla (28,12), poi ripresa più avanti (28,20) con la significativa variante sulla provenienza della sapienza.

vv. 28,1-11. In questa prima parte ricorre l'elogio dell'homo faber che con la sua investigazione e la sua tecnica sa trarre dalle oscure profondità della terra tutto ciò che è prezioso: metalli e pietre di grande valore (vv. 1-6). L'immagine della miniera sottolinea l'intraprendenza, l'impegno dell'uomo che va in cerca e carpisce alla terra il suo tesoro. L'uomo non ha antagonisti in questa attività. Infatti gli animali, per quanto feroci o perspicaci, non ne conoscono, né scorgono il sentiero (vv. 7-8). Solo l'uomo con il suo ingegno riconosce e porta alla luce quei materiali pregiati che la terra nasconde (vv. 9-11).

v. 12. Giunge a questo punto l'interrogativo fondamentale del poema (che sarà ripreso nel v. 20). L'uomo, di sua iniziativa e con la sua intelligenza conosce, recupera e si appropria di quanto è prezioso nella terra, ma dove si trova il luogo della sapienza, da dove egli può ricavarla?

vv. 13-19. La seconda parte del poema si apre con la risposta negativa, per l'uomo, alla questione sollevata. Infatti Giobbe sostiene che la sapienza non si trova sulla terra dei viventi (v. 13b), e non si raggiunge neanche nel mare o nelle sue profondità, nell'abisso (v. 14; cfr. 38,16; Prv 8,28-29). La sapienza non ha una fonte fisica, così che distruggendo la fonte anch'essa venga distrutta. La sapienza, inoltre, non solo non ha un luogo nel mondo, ma essa non ha alcun termine di confronto e di paragone; l'uomo non ne conosce il valore (v. 13a), né può procurarsela con lo scambio, il commercio, il mercato (vv. 15-19). Una prima conseguenza è dunque la sottile distinzione per cui l'uomo dispone della conoscenza tecnica e dell'abilità nello scambio delle risorse, ma non della sapienza.

v. 20. La questione del “luogo” della sapienza rimane ancora aperta e dunque ritorna. Ora però viene ripresa con l'importante variante che pone l'accento sulla provenienza della sapienza. Ma di quale sapienza si tratta? In che cosa consiste la sapienza di cui si parla? Infatti anche qui (come in 28,12) si dice hahokmâ, la sapienza, come un termine determinato con un significato ben conosciuto, mentre la sua definizione, di fatto, va ancora delineandosi. Ciò che intanto si può dire è che essa costituisce una realtà che si impone alla riflessione dell'uomo, ma che ne oltrepassa la capacità conoscitiva, benché dotata di grande ingegno.

vv. 21-28. Nella terza parte del poema la questione ottiene la soluzione. La sapienza si sottrae alla visione di tutti i viventi (v. 21; cfr. 28,7.13), e solo Dio comprende e conosce la via e il luogo della sapienza, perché è il creatore di tutto, perché è il Dio che vede (v. 24), che interviene negli avvenimenti, che compie ciò che è necessario per la vita delle sue creature. La regola e la misura che Dio ha fissato per gli elementi naturali (vv. 25-26) di fatto consentono l'esistenza permanente del mondo, che altrimenti andrebbe distrutto (cfr. Gn 6,13; 9,11; Is 54,9-10) e ricadrebbe nella situazione di informe desolazione delle origini (Gn 1,2). Ebbene, Dio si è avvalso della sapienza quando ha stabilito l'ordine dell'universo (v. 27; cfr. Prv 3,19-20; 8,27-31). La sapienza pertanto corrisponde al progetto della creazione di Dio, è il principio, il fondamento dell'organizzazione e dell'ordine cosmico. Essa è la ragione di essere del mondo, il segreto dell'ordine del mondo. La sapienza appare così concepita come una dimensione distinta da Dio, ma che tuttavia Dio solo conosce, possiede e di cui dispone. Essa, inoltre, è anteriore, preesiste e trascende la creazione, ma anche si realizza nel creato e nella storia umana, manifestando la continua benevolenza e fedeltà di Dio (cfr. Sal 136,5; 146,6). Alle investigazioni e speculazioni umane rimane inaccessibile la sapienza divina, ma essa viene all'uomo come dono di Dio. Infatti Dio, nell'evento della sua parola, rivela all'uomo la via della sapienza: essa non può essere raggiunta se non con il timore del Signore (cfr. v. 28; Sal 111,10; Prv 1,7; 9,10; 15,33; Qo 12, 13; Sir 1,14; 21,11). Peraltro il contenuto e la modalità con cui la sapienza viene proposta come parola rivelata da Dio e come parola vicina a ogni uomo (lā’ādām) richiamano indirettamente il dono sublime della torah (cfr. Dt 4,6-8; 30,11-14). In una fase successiva e più avanzata della riflessione in Israele, giungerà l'esplicita identificazione della sapienza con la torah (cfr. Sir 24,23; Bar 4,1). La sapienza per l'uomo, dunque, consiste nella partecipazione alla sapienza di Dio. Il timore del Signore costituisce infatti un atto di penetrazione in un significato più grande di sé, per cui si diventa capaci di guardare le cose dal punto di vista di Dio (cfr. Ger 9,22-23). Peraltro, ripetutamente, l'espressione «temere Dio ed essere alieni dal male» è stata usata, come un attributo di Giobbe, dal narratore (cfr. 1,1) e da Dio (cfr. 1,8; 2 3), e pur con delle variazioni vi hanno in qualche modo fatto riferimento gli amici (cfr. 4,6; 15,4) e lo stesso protagonista (cfr. 6,14). Tuttavia, solo ora è evidente che si tratta, prima di tutto, di un insegnamento divino che guida l'uomo alla sapienza. Esso attribuisce alla fede in Dio una funzione essenziale per il sapere, quella di porre l'uomo in un corretto rapporto con gli oggetti della sua conoscenza. Una differenza essenziale è che Giobbe aderisce a questo insegnamento in modo dinamico, itinerante, come in relazione a una promessa; per questo osa con Dio l'impensabile, mentre gli amici hanno ridotto ormai la conoscenza e il timore di Dio a un rigido calcolo razionalistico di osservazioni e di comportamenti, con i quali pretendono di stabilire come garantirsi il favore di Dio. Si comprende allora perché Giobbe non intende rinunciare (cfr. 27,2-6) al bene inestimabile della sapienza, per seguire le deviazioni degli amici. La funzione del poema si dispiega ormai chiaramente. A conclusione della Disputa, Giobbe respinge, in modo radicale e definitivo, la pretesa degli amici di essere rappresentanti e depositari della sapienza umana e divina. La sapienza infatti è presso Dio e in Dio, e con essa Dio ha stabilito il mondo. Il riconoscimento della sapienza divina non elimina, tuttavia, le questioni sollevate. Pertanto proprio perché solo Dio conosce il significato pieno degli avvenimenti, Giobbe rivolgerà, ancora, a Dio il suo appello appassionato. Infine, la presenza del poema, a questo punto della Disputa, evidenzia, se ancora fosse necessario, che ciò che è in discussione è il rapporto di Dio con l'uomo e con l'ordine cosmico. Esso tuttavia non può essere ridotto a una semplice questione di giustificazione di Dio di fronte all'esistenza del male (teodicea), o di giustificazione dell'uomo (antropodicea), bensì si propone come un problema innanzitutto gnoseologico, che mette a nudo la finitezza della conoscenza umana, e quindi teologico, che esplora la dialettica inesauribile tra rivelazione e nascondimento di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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