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from Solarpunk Reflections

A meno di un anno dal debutto di Clair Obscur: Expedition 33, sono esplose le controversie sul primo titolo di Sandfall, lo studio francese la cui opera ha quasi vinto molti premi annuali del settore videoludico.

Le lodi ruotano intorno alla potente componente estetica, dalla fotografia alla motion capture, dal sound design alla colonna sonora, dalla scrittura dei dialoghi ai personaggi vividi e realistici; aspetti su cui molti videogiochi moderni fanno affidamento come colonne portanti, e sui quali Expedition 33 ha seminato la competizione durante il 2025. E metto subito le mani avanti dicendo che tutte queste componenti hanno il loro merito, ma non è quello di cui voglio discutere in questo articolo (che non è una recensione!).

Le critiche recenti ovviamente si concentrano sull'uso di IA, pratica che viene ormai universalmente vituperata sia dai giocatori che dagli sviluppatori. Eppure credo che criticare questo titolo sulla base dell'uso di strumenti antietici sia superficiale e manchi di considerazione verso altre fallacie, ben più gravi e moralmente pericolose. Vi espongo sei problemi narrativi che tolgono al gioco molta più umanità di quanto l'ausilio di asset generati possano mai fare.

Per discutere approfonditamente di questi difetti avrò bisogno di includere molti SPOILER, anche e soprattutto sui colpi di scena e sui finali del gioco. Leggete dunque a vostro rischio e pericolo, e solo se avete già giocato tutti i finali e la sidequest di Clea!

Cercherò di essere il più analitico possibile e fazioso, anche se qua e là sarò costretto a usare metafore colorite e iperboli per trasmettere accuratamente quanto questo gioco mi abbia fatto bestemmiare.

Fatte le dovute premesse, entriamo nel Dipinto.

1 — L'Offerta Ingannevole, la Promessa Rubata

Sin da subito, il gioco ci colpisce con due dritti emotivi in pieno volto: Gustave che perde l'amata Sophie davanti ai suoi occhi e la partenza della Trentatreesima Spedizione alla volta del Monolito, la titanica struttura che indica gli anni rimanenti agli abitanti di Lumière prima che la Pittrice faccia svanire l'intera popolazione.

I temi portanti non vengono nascosti da una blanda e generica introduzione: si parla del terrore di perdere i propri cari in un futuro incerto e del lutto collettivo nel vedere un mondo che muore senza alcuna soluzione in vista. Ma si parla anche di speranza e ingegno: la prossima spedizione ha a sua disposizione un nuovo strumento (il Lumina Converter) che potrebbe aiutare i lumieresi a porre fine all'ecatombe di cui sono stati vittime per quasi settant'anni.

Il cuore della storia è una comunità disperata che si lancia in un ultimo, disperato volo verso l'ignoto per evitare la condanna all'oblio.

Eccetto che... non è così.

Le premesse dell'Atto Uno vengono messe da parte, e i conflitti magistralmente introdotti dal Prologo vengono dirottati e bastardizzati dall'entrata in scena di Verso. Dall'inizio dell'Atto Due, gli obiettivi della Spedizione vengono sempre più diluiti e sostituiti dal dramma familiare dei Dessendre, la famiglia che ha dato origine al dipinto e che ora se ne contende le sorti.

Lungo l'Atto Due questa mancanza tematica affiora principalmente nei Diari delle precedenti spedizioni: se all'inizio i resoconti dei lumieresi sacrificatisi per la propria comunità sono testamenti di uno sforzo collettivo di cui la Trentatreesima Spedizione raccolgono i frutti, proseguendo diventano sempre più giustificazioni a posteriori (“perché non si può fare questa cosa?” “Eh, ci ha provato la Spedizione 41 e sono morti tutti...”) o morti assurdamente stupide, ai limiti del comico. Inoltre, nonostante la Trentatreesima disponga di uno strumento rivoluzionario, al giocatore non viene mai chiesto di lasciare alcunché per la Trentaduesima Spedizione, rivelando maldestramente che non sarà necessaria.

Tornando ai Dessendre (che purtroppo sono l'elemento centrale di questa storia), il finale ci porta a chiederci da quale parte della famiglia spezzata decidiamo di stare, riducendo l'intero mondo che abbiamo esplorato per cinquanta ore di gioco a una mera pedina di scambio, una parte secondaria della trattativa. Uno scenario in cui pochi attori con poteri sovrumani decidono delle sorti del mondo in base alle proprie sofferenze e rancori.

Il lutto collettivo e la speranza di Lumière, incarnati dai membri della Spedizione, vengono sostituiti dai lutti individuali e dalle vendette personali dei membri della famiglia; Atto Uno e Atto Tre sembrano quasi due storie scorrelate, con temi e messaggi così diversi che è difficile riconciliarli.

Personalmente, ho adorato come l'Atto Uno potesse essere interpretato in chiave ecoclimatica: la Frattura e il Gommage sono potenti analogie della crisi climatica, e una storia che interpretasse queste minacce globali in chiave fantastica e allegorica sarebbe stata un toccasana nell'attuale panorama culturale. Ovviamente non è stato così, e ho dovuto mettere da parte le mie aspettative per sopportare l'ennesimo dramma familiare. Beautiful, ma in una Belle Époque dark fantasy.

2 — Il Dirottatore

Al centro dell'opera di deragliamento narrativo e tematico c'è Verso, il carismatico e tormentato kamikaze simulacro del primogenito Dessendre. Nonostante appaia solo nell'Atto Due, Verso è chiaramente il protagonista di questo gioco; chi sostiene che “il protagonista è la Spedizione intera” si è probabilmente fermato all'Atto Uno.

Verso mente agli altri membri della Spedizione (per ingraziarseli o portarseli a letto), nasconde informazioni critiche al successo della missione (notevole quelle sugli Axon e sulla Barriera), gaslighta e manipola tutti i personaggi con cui interagisce. Più avanti nel gioco, viene mostrato che Verso ha lasciato che Gustave morisse per poter approfittare del dolore di Maelle e far sì che si fidasse di lui.

Nonostante questo, non solo il giocatore è costretto a giocare nei suoi panni per l'atto più lungo del gioco, ma il gioco stesso ne giustifica continuamente le azioni senza mai metterlo di fronte ai propri misfatti. I personaggi che potrebbero contraddirlo (Lune, Maelle, Sciel; casualmente tutte donne!) si piegano come sedie a sdraio ogni volta che sono di fronte a lui. L'esempio più eclatante è quello di Lune: logica, curiosa e persistente, in Atto Uno era il contraltare razionale a Gustave (più emotivo, carismatico e impulsivo), mentre in Atto Due si fida quasi ciecamente di Verso e raramente lo interroga su tutto ciò che potrebbe dire al resto della Spedizione.

A ogni possibile occasione, il gioco mette al centro i traumi e la sofferenza di Verso e li usa come giustificazione per tutto ciò che compie, lasciando in secondo piano la caratterizzazione di ogni altro personaggio.

3 — Testa Vinco Io, Croce Perdi Tu

Siccome il gioco adora Verso e odia ogni altro personaggio, i finali sono ingannevoli e deludenti: al giocatore viene chiesto di scegliere se stare dalla parte di Maelle/Alicia, e preservare il Dipinto, i lumieresi e i Gestral, o da quella di Verso, per distruggere il Dipinto e costringere Maelle/Alicia e Aline a tornare a Parigi.

È uno scenario da “testa vinco io, croce perdi tu”, in cui se il giocatore sceglie Verso salva la famiglia (sacrificando tutti gli abitanti del Dipinto), e se sceglie Maelle/Alicia condanna tutti a un futuro di falsa felicità che nasconde un dolore inevitabile (la depressione di Verso, il jumpscare di Maelle/Alicia sfigurata alla fine). Questo discende dal fatto che il gioco si rifiuta di considerare gli scenari in cui Verso non ha ragione (e se Aline e Maelle/Alicia non restassero nel Dipinto in eterno ma dopo qualche mese/anno, grazie allo sfogo artistico, guarissero e decidessero di tornare a Parigi di loro sponte? E se rimanendo nel Dipinto avessero davvero una vita più felice, anziché essere costrette a tornare a Parigi e soffrire in una famiglia abusiva e contro rivali spietati? E se Verso non fosse automaticamente depresso ma imparasse a godersi la vita a Lumière con la sorella che dice di amare?). Ce ne sono molti altri, ma il gioco non può prenderli in considerazione perché dà per scontato che restare nel Dipinto sia una scelta sbagliata, che in principio è solo l'opinione di Verso ma viene presentata come deterministica e unica opzione realistica.

In entrambi i finali, il gioco dà ragione a Verso: se si segue il suo piano, lui si sacrifica (eroicamente e tragicamente) e la famiglia Dessendre “guarisce” dal trauma (non viene chiarito come); se si segue il piano di Maelle/Alicia, a tutti i membri della famiglia è impedito di guarire (non viene chiarito perché). Persino il titolo è un inganno: “chiaroscuro” implica più prospettive, luci e ombre che cambiano a seconda dei punti di vista, ma non c'è alcun chiaroscuro, nessuna prospettiva; il punto di vista è solo uno, quello di Verso, in entrambi i finali.

Un falso dualismo di questo tipo è, a mio parere, un affronto verso il giocatore e un inganno narrativo spregevole.

4 — Il Lutto (?)

Expedition 33 è un gioco che parla di lutto” è, come si dice dalle mie parti, un par di palle.

L'intera trama si regge sulle dinamiche di una famiglia abusiva, la cui inabilità di comunicare è esacerbata dal controllo su una dimensione alternativa e, in un secondo momento, dalla morte del figlio maggiore. Non a caso i personaggi dipinti (Alicia Dipinta, Renoir Dipinto) non parlano tra loro e solo raramente col giocatore (Clea solo durante la sua sidequest) e i duali dei personaggi nel Dipinto (Renoir/Curatore e Aline/Pittrice) non hanno nemmeno una bocca né linee di dialogo.

Fatemi sfogare su Renoir Dipinto per un momento: questo personaggio è fondamentalmente inutile alla storia. Capisco l'intenzione degli sviluppatori di volerlo presentare come inizialmente malvagio per poi rivelare che avesse buone intenzioni (la famosa Sindrome di Itachi), ma siccome il gioco non può rivelare troppo presto il colpo di scena dell'Atto Due, è costretto a farlo parlare per enigmi come lo zio ubriaco alle feste di famiglia che nessuno sa se stia scherzando o meno, con dialoghi tra il vago e l'attivamente frustrante. Tutti gli incontri tra Verso e Renoir Dipinto sono interazioni in cui entrambi parlano da soli, senza ascoltarsi a vicenda. D'altronde, se avessero comunicato chiaramente tra loro e ai membri della Spedizione, il giocatore avrebbe immediatamente capito che Verso intendeva distruggere il Dipinto e Lumière. E questo il gioco non può permetterlo.

Gli sviluppatori pensano di rappresentare con profondità una famiglia spezzata dal lutto per la morte di un membro, quando in realtà è l'esatto opposto: nessuno dei Dessendre riesce a elaborare il lutto a dovere perché sono una famiglia disfunzionale a prescindere dalla morte di Verso.

Non solo questa contestualizzazione manca totalmente, ma l'analisi delle dinamiche è fatta di carta velina e viene sfruttata solo per massimizzare l'effetto tragico e accrescere la risposta emotiva nel giocatore (“queste persone sono tristi e soffrono quindi compiono cattive azioni! Non è triste?”).

Il gioco non parla di lutto, non esplora davvero il tema di come superare i traumi emotivi. Se volesse farlo, i membri dei Dessendre parlerebbero tra loro e avrebbero compassione vicendevole, si aiuterebbero e sosterrebbero a vicenda per superare un ostacolo comune. Invece il lutto è solo un espediente narrativo, un pretesto che viene spremuto a ogni occasione per invischiare i personaggi (e il giocatore, vicariamente) nelle faide interne di questa fottuta famiglia e far avanzare la storia nella direzione decisa dagli sviluppatori.

5 — Ai Lumieresi è Negata l'Umanità

E arriviamo infine al vero punto nevralgico che connette i quattro precedenti: ai lumieresi non è concesso di esistere.

Nonostante il gioco ci chieda per due atti interi di empatizzare con i personaggi che ci accompagnano, mostrandoci i loro traumi, i loro sogni, le loro storie e i loro problemi (in breve: la loro umanità), essi diventano cartonati di loro stessi nel momento in cui viene rivelato che si trovano in un dipinto. Da quel momento in avanti, tutti i personaggi che provengono da fuori o danno per scontato che i lumieresi sono troppo ignoranti per comprenderne la natura (nonostante abbiano inventato indipendentemente il Lumina Converter, che in teoria nullifica il potere del Curatore di attuare il Gommage!), o sono disposti a sacrificarli in massa per il bene di una persona amata. Un gioco di prestigio emotivo e narrativo che ci chiede di empatizzare con i personaggi solo finché serve alla trama, solo per accrescere la risposta emotiva del giocatore alla tragedia che inevitabilmente affronteranno.

Il gioco presenta una narrativa manipolativa perché invece di risolvere la mancanza di informazioni (come ho discusso sopra, avendo Verso o Renoir che rivelano alla Spedizione il ruolo della Pittrice sin da subito), la usa come giustificazione per deumanizzare. La trama è costruita con l'assunzione che i lumieresi non possono salvarsi da soli, che lasciati a se stessi sarebbero un pericolo (per chi, poi?).

In quest'ottica, i due finali sono un indoramento del Dilemma del Tram, bastardizzato però in modo da far sì che le rotaie siano connesse e che il tram ritorni a travolgere i lumieresi anche quando si sceglie il finale di Maelle/Alicia; ma questo è moralmente giustificato dal gioco in quanto i lumieresi “sono solo dipinti”, finti. Non umani. Sacrificabili.

A questa deumanizzazione contribuisce anche il linguaggio usato dai fan in molte discussioni online: termini come “Alicia vera” e “Alicia finta” o “la famiglia nel mondo reale” rivelano l'implicito che alcuni personaggi valgano meno di altri, nonostante il gioco stesso dichiari (in una missione secondaria, attraverso l'Anima di Verso Bambino) che anche i personaggi dipinti hanno un'anima.

Il gioco non dà ai lumieresi la possibilità di difendersi e di far valere il loro diritto all'esistenza; esistenza che è in principio sullo stesso piano di quella dei Dessendre, ma che viene retrocessa in quanto non più importante per raccontare le diatribe infantili dei Dessendre. D'altronde, il finale di Maelle/Alicia, che in teoria restituisce umanità ai lumieresi, lo fa in modo superficiale e surrettizio, chiarendo molto bene che si tratta di un'inganno, un'illusione, una recita il cui solo scopo è fuggire da una realtà dolorosa.

Sarebbe stato molto più aderente e rispettoso (verso i lumieresi, verso Maelle/Alicia, ma anche verso i giocatori che hanno apprezzato l'Atto Uno) se la scelta finale fosse stata fra Verso e i lumieresi, con Maelle/Alicia (che ha vissuto sedici anni a Parigi e sedici a Lumière, e quindi conosce entrambi i mondi) a fare da arbitro e facilitatrice tra i due lati. Ma orchestrare un compromesso non è un finale abbastanza tragico per un videogioco, né metterebbe al centro il punto di vista di Verso, quindi il gioco si rifiuta di considerarlo.

6 — Se si parla di genocidio...

Chiariamo subito un elemento cardine: il Gommage è, in termini moderni, un genocidio. Abbiamo una comunità intrappolata in una città i cui abitanti vengono decimati di anno in anno; il gioco (questa volta giustamente) sa bene che non serve spiegarne la crudeltà, e il giocatore comprende perfettamente la gravità dell'evento. Questo sarebbe stato efficace anche senza mettere Sophie in frigo, ma tant'è. Ai francesi piace fredda.

Il gioco di prestigio retorico ed emotivo però è sempre lo stesso: il genocidio iniziale è vile perché non ha un volto, ma quando a esso viene data una giustificazione sulla base di sofferenze pregresse e mentendo e manipolando ogni altro personaggio (“Renoir/Curatore e Verso lo fanno per il bene della famiglia”), allora diventa accettabile, necessario persino.

Questa narrazione non è solo problematica di per sé, ma lo è doppiamente nell'anno 2025 in cui gli occhi di tutti, pure dei gamers, sono puntati sulle manifeste tattiche di deumanizzazione operate da Israele al fine di eliminare i gazawi.


In conclusione, Expedition 33 tradisce consistentemente i temi che cerca di portare alla luce e sacrifica una narrativa organica ogni volta che può prendere la strada che rende il giocatore più triste. E in un mondo in cui distorcere le emozioni del proprio pubblico per giustificare atti atroci, questi errori sono secondo me assai più gravi dell'uso dell'IA. È una mancanza di rispetto nei confronti del proprio pubblico.

Non a caso, l'aspetto preoccupante di tutta la debacle dell'IA è che in un primo momento Sandfall ha negato di averla usata; poi, dopo essere stati scoperti, sono passati a dichiarazioni del tipo “sì, l'abbiamo usata, ma solo un po'” e poi, dopo essere stati privati dei premi, “sì, ci sembrava sbagliato, non la useremo più”. Mentire alla fanbase, gaslightare, spostare i paletti, promesse vaghe; va tutto bene finché il prossimo gioco sarà altrettanto ben accolto. Dove abbiamo già visto queste mosse?

Se siete videogiocatori di lunga data, vi esorto a fare attenzione a questi tipi di narrative in ogni videogioco che uscirà da qui in avanti, e a osservare la storia da lati diversi da quelli che propongono gli sviluppatori. Non accontentatevi che il gioco “abbia un bel vibe” un bel sistema di combattimenti o una bella colonna sonora; chiedetevi cosa vuole dire la storia e cosa vogliono dire gli artisti che stanno provando a raccontarla. Chiedetevi se poteva essere raccontata in un altro modo.

Dall'altra parte, mostra anche quanto sia poco rilevante per un videogioco avere una trama narrativamente e tematicamente consistente per raccogliere premi a destra e a manca; l'importante per ottenere il plauso globale della fanbase è avere bella musica, begli sfondi, un MC tenebroso, una minorenne rossa e tante, tante lacrime. Il resto è secondario.

 
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from ᗩᐯᗩIᒪᗩᗷᒪᗴ

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C’era una volta un pianoforte. Uno Steinway Vertegrand del 1912, nobile e austero come quello che troneggiava negli studi di Abbey Road. Per un secolo è appartenuto alla stessa famiglia, in una villa da qualche parte nel Connecticut. Joseph Arthur l'ha comprato da un restauratore di Brooklyn, l'ha fatto portare nel suo studio, l'ha salvato dagli allagamenti quando l'uragano Sandy si è abbattuto su New York. E appena si è messo a suonarlo, le canzoni di “The Family” hanno cominciato a sgorgare come un torrente in piena... https://artesuono.blogspot.com/2016/06/joseph-arthur-family-2016.html


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from fgdsagdsfag

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from 📖Un capitolo al giorno📚

Giosuè e gli Israeliti a Gàlgala 1Quando tutti i re degli Amorrei, a occidente del Giordano, e tutti i re dei Cananei, lungo il mare, vennero a sapere che il Signore aveva prosciugato le acque del Giordano davanti agli Israeliti, al loro passaggio, si sentirono venir meno il cuore e rimasero senza coraggio davanti agli Israeliti. 2In quel tempo il Signore disse a Giosuè: «Fatti coltelli di selce e fa' una nuova circoncisione agli Israeliti». 3Giosuè si fece coltelli di selce e circoncise gli Israeliti al colle dei Prepuzi. 4La ragione di questa circoncisione praticata da Giosuè è la seguente: tutto il popolo uscito dall'Egitto, i maschi, tutti gli uomini atti alla guerra, erano morti nel deserto dopo l'uscita dall'Egitto. 5Tutti coloro che erano usciti erano circoncisi, mentre tutti coloro che erano nati nel deserto, dopo l'uscita dall'Egitto, non erano circoncisi. 6Quarant'anni infatti avevano camminato gli Israeliti nel deserto, finché non fu estinta tutta la generazione degli uomini idonei alla guerra, usciti dall'Egitto; essi non avevano ascoltato la voce del Signore e il Signore aveva giurato di non far loro vedere quella terra che il Signore aveva giurato ai loro padri di darci, terra dove scorrono latte e miele. 7Al loro posto suscitò i loro figli e Giosuè circoncise costoro; non erano infatti circoncisi, perché non era stata fatta la circoncisione durante il viaggio. 8Quando si terminò di circoncidere tutti, rimasero a riposo nell'accampamento fino al loro ristabilimento. 9Allora il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l'infamia dell'Egitto». Quel luogo si chiama Gàlgala fino ad oggi. 10Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. 11Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. 12E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell'anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. 13Quando fu presso Gerico, Giosuè alzò gli occhi e vide un uomo in piedi davanti a sé, che aveva in mano una spada sguainata. Giosuè si diresse verso di lui e gli chiese: «Tu sei dei nostri o dei nostri nemici?». 14Rispose: «No, io sono il capo dell'esercito del Signore. Giungo proprio ora». Allora Giosuè cadde con la faccia a terra, si prostrò e gli disse: «Che ha da dire il mio signore al suo servo?». 15Rispose il capo dell'esercito del Signore a Giosuè: «Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo». Giosuè così fece. _________________ Note

5,1 si sentirono venir meno il cuore: Dio paralizza con lo spavento gli avversari del suo popolo. Parlando di Amorrei e Cananei, l’autore vuole indicare tutte le popolazioni che allora esistevano nella terra di Canaan. Il tema della paura ha un posto notevole nel libro (vedi 2,9-11; 2,24; 6,1).

5,4-5 tutti coloro che erano nati nel deserto: il testo intende spiegare perché Mosè non avesse più praticato la circoncisione. Probabilmente si riallaccia a Nm 14, che parla di una defezione generale d’Israele.

5,9 l’infamia dell’Egitto: forse la non circoncisione della generazione del deserto. Segue l’eziologia che dà una nuova spiegazione del nome di Gàlgala, facendolo derivare dal verbo ebraico galal, che significa “far ruotare”, “girare” (vedi nota a 4,20).

5,10 La celebrazione della Pasqua ha segnato l’uscita dall’Egitto (Es 12) e ora segna l’inizio del possesso della terra. Questo parallelismo era stato già abbozzato dall’episodio precedente: la circoncisione è il presupposto per celebrare la Pasqua (Es 12,44.48).

5,12 Una volta entrati nella terra, gli Israeliti, invece della manna, incominciano a mangiare i frutti della terra. Iniziano così una nuova pagina della loro storia.

5,13 alzò gli occhi e vide un uomo: l’apparizione divina a Giosuè si determina gradualmente. Si tratta di una replica dell’apparizione di Dio a Mosè sul Sinai (Es 3,5).

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Approfondimenti

1-9. Anche questo brano non è molto coerente. Perché nel deserto Mosè non ha fatto circoncidere i figli d'Israele? I profeti parlano del periodo del deserto come di un tempo ideale, di familiarità con JHWH (Os 2,17; 13, 4; Ger 2,2). Probabilmente, l'autore qui si ricollega a Nm 14, dove si racconta di una apostasia generale d'Israele. Giosuè si preoccupa di rinnovare nel popolo il segno esterno dell'alleanza. La circoncisione è per il codice sacerdotale (Gn 17, P) il segno dell'alleanza ed è prescritta da Es 12,44-49 come condizione per consumare la Pasqua. Il legame tra la circoncisione e la Pasqua, presente anche qui, crea un ulteriore parallelismo con l'esodo. Per guarire dalla febbre provocata dalla circoncisione occorrevano alcuni giorni. Il momento più doloroso si aveva il terzo giorno. «l'infamia d'Egitto» (v. 9) può essere un'allusione al fatto che l'epoca dell'Egitto e delle sue conseguenze è definitivamente tramontata. La circoncisione (e la Pasqua) di Galgala segnano un nuovo inizio, nella libertà della terra promessa. L'etimologia di Galgala (v. 9) è artificiosa. Il verbo gll significa far ruotare, girare, rimuovere, in riferimento al rito della circoncisione praticato in questa località.

10-15. Il brano narra la celebrazione della Pasqua (vv. 10-12), anche questa volta sul modello della celebrazione avvenuta dopo il passaggio del Mar Rosso. Si parla quindi di una teofania a Giosuè (vv. 13-15), che richiama le antiche teofanie ai patriarchi, e soprattutto l'apparizione di JHWH a Mosè nel roveto ardente (Es 3).

10-12. In origine la Pasqua era una festa pastorale, nella quale si celebravano le nascite primaverili del gregge. In seguito è stata storicizzata come celebrazione dell'esodo. La festa degli Azzimi era inizialmente una ricorrenza agraria, di ringraziamento per l'inizio del raccolto. Le due celebrazioni furono ben presto unificate (Lv 23,5-6; Es 12; Nm 28,16-17; Dt 16,1-8), nell'associazione con l'accadimento fondante dell'esodo. Qui l'autore le presuppone già unite. La fine della manna è indizio della fine di un periodo nella storia d'Israele. Ha inizio l'era dell'esistenza nel paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8.17; 13,5, e soprattutto Dt 11,10-17).

13-15. L'angelo appare a Giosuè in veste di guerriero (cfr. per apparizioni similari 1Cr 21,16; Es 23,20), come «capo dell'esercito del Signore», affermando: «Giungo proprio ora». Anche qui si può scorgere un tratto parallelo all'esodo, dove l'angelo sterminatore aveva dato avvio a una notte di salvezza per Israele. A quel primo atto salvifico ne segue ora un secondo, correlativo: l'introduzione nella terra, per iniziativa dell'angelo di JHWH e del suo esercito. In questo senso l'apparizione introduce anche l'episodio di guerra santa che segue, al c. 6. Il v. 15 crea un nuovo punto di contatto con le vicende dell'esodo, questa volta ancor più esplicito. L'angelo ripete a Giosuè le parole dette da JHWH a Mosè al roveto ardente (Es 3,5). Il paese in cui Israele sta per entrare, è sacro. Anche ciò costituisce un tratto introduttivo al c. 6.

(cf. VINCENZO GATTI, Giosuè – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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from lucazanini

[stime]

di un romanzo fugge lo] stanno con un congegno su misura lo stanno termina lo [stimato sulle prime con il punto capovolto la rettifica o di una] cittadina media si tralascia nel teresiano è una bozza l'umido] [non conserva forma chiazze [urbis fuori] portata

 
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from differxdiario

appena ora mi sono assai immalinconito e (paradossalmente) divertito rileggendo questa notilla del 2023: https://slowforward.net/2023/09/10/ma-adesso-mg-2023/

e all'elenco che precede le buffe domande finali si potrebbero aggiungere dozzine di cose accadute e libri usciti nel tempo che ci separa da oggi.

dunque la domanda finale, qui, è sul cambiamento? su “cosa sembra essere mutato dal '23 in poi”? è questa?

ecco che arriva l'irritazione, con un tot di nausea. non resta malinconia, né divertimento.

 
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from differxdiario

l’incipit di questa pagina di Luca Sossella https://www.facebook.com/share/p/1AjnziXnQR/ mi porta al pensiero della scomparsa del figlio di Jacques Derrida, Pierre Alferi – di cui l’italia sommersa e diafana (https://t.ly/H4vrG) niente sapeva e niente continuerà a voler sapere.

https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/08/17/la-mort-de-pierre-alferi-ecrivain-singulier_6185726_3382.html

(le eccezioni sono ovviamente gammm, Nazione indiana, slowforward e pochissimi altri spazi)

 
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from CASERTA24ORE.IT dal 1999 on line

Liberare l’uomo dal ricatto del lavoro è la più grande rivoluzione dell’umanità contemporanea

Dagli albori della Storia del mondo, il lavoro è stato considerato una punizione. Adamo ed Eva furono condannati a lavorare sulla Terra per aver disobbedito. Nella Genesi si legge: “Perciò l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra donde era stato tratto”. Adamo ed Eva sicuramente non sono mai esistiti, ma vero è il contenuto della loro storia. Lo è per il semplice fatto che qualcuno si è posto il problema del concetto di lavoro come punizione, fatica. E l’ha tramandato!

Probabilmente sin dai tempi della comparsa dell’homo sapiens, il genere umano è riuscito a sostenersi perché c'erano risorse, intelligenza e cooperazione. Con l’intelligenza l’uomo ha sempre escogitato strumenti ed è sempre andato alla ricerca di scoperte che rendessero la vita meno faticosa. Non si sa quali vicende siano accadute agli uomini di quel tempo, di sicuro qualcosa di importante, che ha introdotto nell’uomo il concetto che ci portiamo dietro da millenni: la fatica del lavoro, la possibilità di far lavorare altri, la schiavitù e lo sfruttamento.

Anni dopo la presunta cacciata dell’uomo dal giardino d’Eden, vediamo gli schiavi impegnati a lavorare faticosamente nella costruzione delle Piramidi proprio nei pressi di quei territori dove per la Genesi tutto ha avuto inizio.

Si sono poi susseguiti anni ed anni di divisioni sociale e sempre c’era chi lavorava e chi traeva il frutto del lavoro semplicemente controllando il lavoro degli altri. Prima degli schiavi, poi dei braccianti quando la schiavitù fu abolita, in epoca industriale degli operai e ai giorni nostri dei lavoratori precari, cioè di tutte quelle persone costrette a lavorare per vivere.

Viviamo oggi in un’epoca post industriale dove l’automazione ha raggiunto una tecnologia tale che il lavoro è in esubero un po’ in tutti i settori e chi controlla i mezzi di produzione ha il controllo di tutti. Il costo del lavoro non più pagato ai lavoratori è andato a finire negli ultimi decenni nelle borse delle strutture che controllano i mercati finanziari globali come multinazionali e gruppi di pressione politica transnazionali. Queste strutture, speculando su crisi e con il controllo delle politiche monetarie, hanno impoverito gradualmente i lavoratori ai quali non sono più garantiti in nessun posto nel mondo il diritto a curarsi, all’istruzione, alla vecchiaia.

Ecco perché il reddito di base universale svincolato dal concetto di lavoro è la più grande rivoluzione dell’umanità contemporanea dei paesi civili. Lo è sopratutto nei contesti dove il voto non è libero.

Il voto in Italia non è libero per vari fattori, tra i quali l’influenza soffocante delle mafie politiche. La politica nell’ultimo quarto di secolo ha fatto proprio il sistema mafioso. Storicamente chi governa ha sempre usato bande criminali per conservare il potere. Dai tempi dei briganti, del banditismo fino ai patti della Mafia siciliana negli anni ‘90 dello scorso secolo. Ma nel ventennio del nuovo Millennio la politica sembra essere diventata essa stessa mafia. Tentativi di ridimensionare il sistema mafioso italiano, disorganizzando la criminalità al fine di poterla controllare, sono stati fatti, ma il risultato ottenuto è quello del consolidamento di potentati politici diventati clan trasversali ai partiti.

Le Mafie oggi, come la politica, si basano sul consenso sociale piuttosto che sulla paura. Per avere consenso su una società sempre più povera si dà ai poveri un po’ di reddito sotto forma di elargizione, regalie, privilegio rispetto ad altri poveri. Ecco così che il reddito di cittadinanza, che pure era diventato una forma di elargizione o una sorta di voto di scambio ai 5 stelle, torna a essere pensione di invalidità, piccola regalia, bonus sociale, contribuzione di stato.

In questo contesto, sguazzano avvocati, patronati, mediatori, facilitatori e chi ha realmente bisogno dei sussidi non riesce ad accedervi e viene lasciato solo.

L’alternanza di clan politici a governare, incentrata sugli interessi di una minoranza dominante, ricatta la maggioranza della popolazione, svantaggiata da condizioni sociali indotte proprio da questa minoranza.

Questa alternanza ha eroso il rapporto politico sociale ottenuto in mezzo secolo di rivendicazioni sociali e ha rimodellato, grazie al controllo, le relazioni politico sociali, per consolidare un rapporto di subalternità sulla cittadinanza lavoratrice.

La ricattabilità su chi versa in condizioni sociali di dipendenza è garanzia di subordinazione!

Gli organismi preposti alla tutela del lavoro sono stati spinti a diventare associazione di iscritti, fornitori essenzialmente di servizi, al posto di ruolo di organizzatore del conflitto con chi detiene i mezzi di produzione e il padronato, così liberi di sfruttare il bisogno di lavoro per accumulare profitti.

Gli equilibri geopolitici mondiali degli Stati dominanti spingono a determinare condizioni di vita della popolazione al di sotto dei livelli di sussistenza. Questi Stati sostengono i propri interessi militarmente oppure con la propria capacità di ricatto economico-politico.

Le conseguenti emigrazioni rendono più confacente la realizzazione di livelli di sfruttamento profittevoli globali.

Storicamente il conflitto tra classi sociali economicamente distanti, è stato governato con l'intervento dello Stato nell'economia intensificando l'intervento alla bisogna, stabilizzando ogni paese economicamente avanzato e sfruttando quelli del cosidetto Terzo Mondo.

La presenza stabile di forze armate dei paesi dominanti nei paesi dominati ha garantito il funzionamento di questo sistema fino al primo ventennio del nuovo Millannio, quando il controllo sociale di massa ha svuotato le istanze di autonomia delle classi economicamente svantaggiate depotenziandone le rivendicazioni e spezzando la mediazione politica. Il rischio che stiamo correndo in questi anni è che venendo meno gli equilibri politici consolidati, avanzano movimenti, partiti qualunquisti, personalistici controllati da chi detiene i mezzi i produzione e forti capitali.

La frattura tra la classe politica dominante e le classi popolari con conseguente mobilitazione non controllata di queste ultime mina gli equilibri politici generali esistenti.

Viviamo in un periodo storico di rimodulazione dei rapporti tra potenze vecchie, in ascesa e in declino.

Il sistema economico globale sta percorrendo nuove strade di sfruttamento per mantenere intatto il processo di accumulazione dei fondi capitali. In questo contesto il ruolo delle classi subalterne fatte di precari, di lavoratori in nero, di pensionati con misera pensione, di contadini potrebbe essere quello di riprendere in mano il proprio destino visto che le classi dirigenti si stanno dimostrando di non essere in grado di gestire i grandi cambiamenti di questa nostra epoca.

 
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from lucazanini

[escursioni]

il forex a coppie cloruri la] barriera del suono les folies -l'abilità [lo smontano sono] migliaia una decina che passano la rotatoria con gli] arbusti secchi fuori controllo c'è] il cadmio a basso punto di fusione l'aspirante [Icaro del ballatoio ci sono] applausi concede il bis sputa -aghi

 
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from Geocriminalità e Cooperazione Internazionale di Polizia

In Cina arrivano i robot-poliziotto ed i poliziotti veri si dotano di occhiali smart

https://yewtu.be/watch?v=vvDyxYAQiyQ

La città di Hangzhou ha introdotto Hangxing No. 1, un robot poliziotto alto 1,8 metri, progettato per gestire il traffico in uno dei crocevia più affollati della città, all'incrocio tra Binsheng Road e Changhe Road nel distretto di Binjiang.

Il robot è in grado di controllare il traffico, rilevare infrazioni e avvisare verbalmente i trasgressori. Dotato di telecamere ad alta definizione e sensori avanzati, può emettere un fischio e si integra direttamente con i semafori per sincronizzare i segnali di stop e via.

Attualmente, è in grado di individuare ciclisti senza casco, pedoni che attraversano fuori dalle strisce pedonali e altre violazioni stradali. Le autorità locali hanno chiarito che il robot non sostituirà i poliziotti umani, ma li supporterà. In futuro, sarà equipaggiato con un modello di linguaggio avanzato (LLM) per fornire indicazioni più dettagliate e interagire con i cittadini.

Hangxing No. 1 fa parte di una serie di progetti simili in Cina: a Shenzhen, il modello PM01 di EngineAI assiste già gli agenti, mentre a Wenzhou è attivo il robot sferico RT-G. Anche Chengdu ha adottato un robot umanoide per la gestione del traffico a partire da giugno.

L’evoluzione di questi sistemi è rapida: basti pensare al modello AnBot, operativo all’aeroporto di Shenzhen dal 2016, che oggi appare quasi obsoleto rispetto alle nuove soluzioni come Hangxing No. 1, che combinano robotica avanzata e intelligenza artificiale per una gestione del traffico urbano più sicura e tecnologica.

Intanto, a Changsha, nella provincia dell’Hunan, la polizia stradale ha avviato l’uso di occhiali intelligenti basati sull’intelligenza artificiale per identificare veicoli e conducenti in tempo reale, riducendo drasticamente i tempi delle verifiche.

L’annuncio ufficiale, diffuso il 13 dicembre dal dipartimento di gestione del traffico del Changsha Municipal Public Security Bureau, sottolinea che i dispositivi, sebbene esteticamente simili a occhiali normali, offrono un notevole vantaggio operativo. Leggeri e compatti, consentono agli agenti di indossarli per interi turni senza disagi. Non appena un veicolo passa davanti all’agente, le informazioni principali vengono visualizzate direttamente su uno schermo integrato in pochi secondi, senza la necessità di fermarsi o consultare dispositivi esterni.

Il sistema si basa su una fotocamera grandangolare da 12 megapixel, supportata da un algoritmo di stabilizzazione predittiva delle immagini, che garantisce riprese nitide anche in movimento o in condizioni di traffico intenso. Con un’autonomia dichiarata di otto ore, i dispositivi coprono interamente un turno di servizio. Uno dei punti chiave è il riconoscimento automatico delle targhe, che funziona anche offline e raggiunge un’accuratezza superiore al 99%, con tempi di risposta inferiori al secondo. Gli occhiali sono progettati per operare efficacemente sia di giorno che di notte, adattandosi a diverse condizioni di illuminazione.

Una volta identificato il veicolo, il dispositivo si collega in tempo reale ai database della pubblica sicurezza, permettendo all’agente di visualizzare immediatamente dati come la registrazione del mezzo, lo stato delle revisioni, eventuali infrazioni o segnalazioni precedenti. Tutto avviene senza contatto diretto con il conducente, riducendo la necessità di fermare i veicoli per controlli di routine.

Le funzionalità non si limitano al riconoscimento delle targhe: gli occhiali supportano anche il riconoscimento facciale, la traduzione vocale in tempo reale in oltre dieci lingue e la registrazione video sul posto, utile per la documentazione degli interventi e per eventuali verifiche successive. Questi strumenti sono pensati per semplificare il lavoro degli agenti e aumentare la sicurezza durante le operazioni su strada. Secondo le autorità di Changsha, i tempi di ispezione di una singola corsia sono scesi da circa 30 secondi a uno o due secondi, riducendo il carico di lavoro manuale, l’affaticamento degli operatori e rendendo i controlli più rapidi e meno invasivi per gli automobilisti.

 
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from CASERTA24ORE.IT dal 1999 on line

Il racconto della domenica: “La maledizione del tesoro dei briganti”, la pretarella e l'Alzaimer

La pretarella custodiva un segreto: quello dei tesori dei briganti, frutto delle razzie nelle case dei ricchi, nascosti nelle campagne per il timore di essere giustiziati se colti con le mani nel sacco. Le pretarelle erano donne chiamate così perché avevano sempre un prete in famiglia e sopratutto perché realizzavano i loro profitti sempre all’ombra di un campanile. Senza la Chiesa una pretarella avrebbe fatto la campagnola, la donna a servizio. Invece come quel prete che predica bene e razzola male, la pretarella sapeva razzolare. In quei tempi, la calura estiva soffocava le famiglie alle prese con gli insuperabili problemi della sussistenza. La pandemia della Spagnola era ormai alle spalle e cambiamenti politici erano nell’aria: la Marcia su Roma c’era stata a ottobre e il Papa con la “pax Christi in regno Christi” non riusciva a contenere il marcio all’interno della Chiesa. Concetta era una zia zitella di una pretarella, di famiglia patriarcale. Era nata nel 1838, aveva vissuto il periodo del Risorgimento, quello dell’Unità d’Italia, aveva visto i briganti, l’emigrazione, la Grande Guerra, la pandemia. Ora la sua malattia le stava risparmiando di rendersi conto del nuovo ordine che avanzava, che non dava spazio nella società ai malati, ai diversi, ai deboli nel nome della razza sana e pura. Zia Concetta aveva qualche peccatùccio da farsi perdonare: nella sua vita, talvolta, aveva inveito alle spalle delle persone che non l’aggradavano. Aveva imprecato, augurato una sorta di occhio per occhio dente per dente per presunte malefatte che l’ignara persona avrebbe compiuto nella sua vita, ma non ancora commesse, e, che potevano ricadere anticipatamente sui suoi cari. Spesso ci azzeccava, era capace di riconoscere il male in una persona prima ancora che questo venisse fuori. Per questo motivo si era guadagnata fama di fattucchiera e aveva condotto un’esistenza alquanto solitaria. Adesso alla fine dei suoi anni, stava scontando in vita questi peccati, cosicché una corsia preferenziale le si potesse aprire per la porta del Paradiso, senza passare nel Purgatorio. Zia Concetta adesso viveva come in un sogno, dove non c’è più il tempo. Le facce amiche erano quelle dei ricordi lontani. Quando riconosceva una voce familiare subito le domandava dove si trovasse sua madre che non c’era più da anni. Se ne dispiaceva e riviveva una seconda, terza, quarta, quinta volta il lutto. Allora quella voce per non farle rivivere l’ennesima volta il dispiacere di una morte, le rispondeva che in quel momento sua madre non c’era e che presto sarebbe tornata a casa. Zia Concetta si alzava dalla sedia per andare a bere e si risedeva senza aver bevuto. Ingoiava, respirava, camminava, andava in bagno perché gli veniva automatico. Riusciva a vestirsi e svestirsi, a lavarsi da sola. Mangiava quando aveva fame, ma poteva mangiare anche un chilo di fagioli senza accorgersene. Zia Concetta non sapeva fare i conti, non sapeva contare i soldi, non sapeva che giorno della settimana fosse, che mese o che anno. Viveva un perenne presente. Si irritava per nulla, quando non riusciva a fare qualcosa diveniva intrattabile e viveva di fisime. Era malata, ma non era demente. La sua malattia ancora non aveva un nome nel piccolo paese dove zia Concetta e la nipote pretarella vivevano, ma in Germania un dottore di nome Alzheimer qualche decennio prima aveva osservato delle anomalie nel cervello di una paziente morta, che negli ultimi anni della sua vita assomigliava in tutto e per tutto a Zia Concetta.

Don Francesco era il padre di zia Concetta ed era morto all’inizio dell’estate nel 1884. Gli uomini non potevano essere chiamati prietarelli. Fatto sta che don Francesco come la pretarella aveva uno zio prete, ma a lui da giovane lo zio gli aveva lasciato in dote un masseria, un terreno collinare e sopratutto una sorgente d’acqua. Don Francesco divenne un abile contadino, si sposò, ebbe dieci figli, crebbero tutti sani, ebbero tutti una vita agiata anche se il lavoro dei campi era faticoso. Dalla terra riuscirono a ricavare tutto quanto necessitassero per il sostentamento. Con la vendita di prodotti in eccesso e del bestiame compravano quanto non riuscissero a produrre: vestiti, attrezzi. Si sposarono tutti i suoi figli, tranne zia Concetta. Per un’indole innata di vassallaggio don Francesco era stato sempre fedele al Re, ai principi, duca, marchesi, conti, visconti, baroni, nobili, cavalieri sopratutto quando questi nobili erano legittimati dalla Chiesa, che talvolta lasciava qualche briciolo di terra ai popolani. Così nell’autunno del 1862, quando una banda di briganti bussò alla sua masseria nel nome del Re Borbone non ebbe alcuna difficoltà a farli entrare in casa e a nasconderli. Stanchi, sporchi, affamati dissero che erano inseguiti da carabinieri venuti da lontano e che uccidevano per niente. Don Francesco dopo averli sfamati li fece dormire nello stallone, la stalla delle vacche. Sua moglie che fino a quel punto della loro vita non aveva fatto altro che seguire in tutto e per tutto fedelmente il marito, questa volta disse: “Ma sei diventato pazzo?! In tal modo ci farei ammazzare tutti: se vengono i piemontesi?”. Don Francesco non ci dormì la notte e così di prima mattina uscì alla ricerca di un rifugio che sapeva trovarsi in una grotta carsica al guado di un fiumiciattolo adiacente la masseria. Fece nascondere i briganti e si impegnò a portare loro del cibo. Non passò molto che dalla strada sottostante arrivarono i soldati piemontesi. Fece nascondere in fretta nella selva della campagna le figlie non ancora maritate, mandò alla grotta i figli maschi e prese in braccio un nipotino nato da poco. Don Francesco si presentò così ai carabinieri con una folta chioma di capelli completamente bianchi, con in braccio il bambino. Sudò freddo quando i soldati piemontesi, brandendo le armi si fecero consegnare cibo e vino. Si accamparono nell’aia della masseria e vi restarono per tre giorni, il tempo che le loro avanguardie perlustrassero i sentieri e le mulattiere che portavano sulla montagna. Sembravano essere venuti in pace, cosicché il terrore e la paura che arieggiavano negli animi svanirono e i suoi figli tornarono alla masseria. Ma se i piemontesi avessero scoperto i briganti nascosti cosa sarebbe successo loro? Il terzo giorno coi briganti a scarso di cibo, don Francesco si fece preparare un fagotto di viveri dalla moglie che avrebbe portato loro di notte. La moglie lo scoraggiò, ma non ci fu verso e di notte mentre i piemontesi dormivano portò notizie e scorte di cibo ai sei briganti. Il giorno dopo i piemontesi andarono via così i briganti potettero uscire allo scoperto e fuggire a nascondersi sulle vette dei monti circostanti. Non prima di andare via il capo brigante, tale Ciffone riconoscente dei rischi passati da Don Francesco e famiglia lo chiamò in disparte e gli consegnò un sacchetto contenente oggetti e monili in oro e d’argento. Un bel tesoretto! “Sono tuoi, ma ricorda che sono maledetti, portano con sé il male, chi ne godrà della vendita attirerà a sé il male. Possono essere usati solo per curare il male, per curare malattie”.

Don Francesco accettò senza battere ciglio. Non fece parola per anni con nessuno di quel tesoretto che nascose nel tronco di un albero di olivo del suo podere. Nel 1880 i briganti erano ormai scomparsi da anni, si erano spostati dalle montagne in pianura, nascosti nelle zone paludose che davano al mare. Il nuovo Stato si era consolidato e don Francesco era divenuto fedele alla nuova monarchia e al nuovo Re. Diventato vecchio si era reso conto che il tempo per lui stava finendo. Così chiamò la figlia Concetta, che era rimasta sempre con lui e sua moglie e le ricordò dei briganti quando lei poco più che ventenne si dovette nascondere nelle selva per paura dei soldati stranieri. Sopratutto le raccontò del segreto del tesoretto nascosto. Zia Concetta fece suo quel segreto e continuò la vita di sempre accudendo gli anziani genitori. Vide crescere i nipoti e pronipoti, figli dei fratelli e sorelle. Nel 1900 quando morì sua madre e lei non era più giovane ma non ancora troppo vecchia, si trasferì nel borgo montano nella vecchia casa di sua madre ristrutturata. Gli anni passarono tutti uguali, i cognati e i fratelli più anziani morirono uno alla volta; arrivò una nuova guerra, lontana, partirono per il fronte due nipoti: uno tornò, l’altro morì a Caporetto. Poi venne la pandemia della spagnola e quando finì zia Concetta iniziò a non ricordarsi più di nulla. La calura estiva del 1923 non dava tregua, zia Concetta viveva da sola nella sua casa ma i nipoti, tutti oltre i cinquant’anni, la sorvegliavano a vista portando lei il cibo, la svegliavano di primo mattino, l’accompagnavano a letto la sera e qualche notte qualcuno di essi restava a dormire con lei. Una sua sorella poco più grande di lei si era ammalata in primavera e non si vedeva via di guarigione. Zia Concetta in un raro momento di lucidità, al capezzale della sorella che viveva nel suo stesso paesino di montagna e che era la madre della pretarella, disse a entrambe: “Perchè non andiamo negli ospedali dell’Alta Italia, in Europa”?. La pretarella: “Come facciamo, con quali soldi?” Zia C.: “Con i soldi della vendita del tesoro dei briganti!” “Quale tesoro?” disse la pretarella. Zia C.: “Ma che ne so! Quello nascosto da nonno Francesco che serve per le malattie. Andatelo a prendere” La pretarella, abituata ai ragionamenti sconclusionati della zia: “Ma che dici, tu non stai bene con la testa!” Zia C.: “Fregatevi, io non ricordo più dove sta!”, si adirò e divenne taciturna. Passarono altri due mesi e zia Concetta non si rese conto della morte della sorella. Dopo il funerale alla pretarella, rassettando gli oggetti nella stanza dell’anziana madre defunta, rivenne in mente quel vaneggiamento della zia Concetta. “E se esistesse davvero un tesoro?”.

Intanto le condizioni mentali di zia Concetta diventarono sempre più difficili: non riconosceva le sorelle ancora in vita, non accettava i nipoti nella sua casa che considerava estranei. Non accettava più il cibo che i parenti le davano, non beveva e spesso si sentiva male. Lei era sempre stata presente nel bene o nel male delle vite delle famiglie dei suoi nipoti e così nessuno se la sentì di lasciarla sola e a turno facevano del loro meglio per assisterla. Lo fecero fin quando il futuro nuovo podestà clericale del posto, già capo della milizia volontaria per la sicurezza decise di occuparsi delle persone non più autosufficienti. Così nel nome del Re e del principio di solidarietà e per il bene delle persone come zia Concetta, queste dovevano essere portate in monasteri di suore, assistite in attesa della morte. Intanto la masseria dove zia Concetta era nata e vissuta fino alla morte della madre, disabitata andò in rovina e un incendio boschivo arse i terreni circostanti, compreso il piccolo uliveto di famiglia. La pianta centenaria, i cui rami tagliati e conficcati nel terreno da don Francesco avevano dato vita a altrettanti alberi di olivo, era un cumulo di cenere. Quando i carabinieri accorsero a vedere le conseguenze dell’incendio consegnarono al podestà una pentola in rame annerita, trovata tra la cenere. Era chiusa ermeticamente, ma muovendola il rumore faceva presagire all’interno la presenza di metalli. Il podestà la portò nella sua casa, l’aprì e trovò il tesoro. Vendette tutto e comprò una casa nei pressi della colonia estiva “Alessandro Italico Mussolino” nella spiaggia di Serapo a Gaeta. Il giorno prima di prendere possesso della casa, mentre si preparava a partire dal paese si sentì male. Fu messo a letto, gli era venuto quello che i popolani chiamavano il “tocco”. A malapena riusciva a parlare, e quando lo faceva la sua faccia assumeva una smorfia disumana. Non muoveva il braccio e la parte destra del suo corpo. I familiari chiamarono il prete che arrivò accompagnato dalla pretarella. Il podestà farneticava, non si capiva se volesse confessarsi, ma non morì e visse ancora per molti anni. Finì la sua esistenza nello stesso monastero di zia Concetta assistito da suore: era la maledizione del tesoro dei briganti!

 
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from cosechehoscritto

Più tardi posto questo frammento di libro su mastodon e una persona mi scrive, bello, ma – scusami – non devi scrivere “cameriera orientale”, non è educato. Devi scrivere asiatica. Orientale presuppone comunque una visione in cui al centro di tutto c'è l'occidente: il mondo è tondo non c'è nessuno oriente e nessun occidente. Le spiego che il mio romanzo parla proprio di cosa significhi sentirsi occidentali oggi, e lei mi risponde che ragione di più, ragione di più per non usare certi termini. La ringrazio.

Non spero più nelle nuove generazioni, spero nelle nuove idee. Le nuove generazioni saranno come tutte le generazioni del passato, composte di persone con le loro turbe, i loro fantasmi, la pressione del mercato, quella sociale, con tutta l'architettura di valori che hanno succhiato dai loro genitori, chiunque essi fossero. Avranno comunque malattie, faranno errori – alcuni di loro – irreparabili, avranno desideri egoisti e superbi che porteranno avanti il mondo di un'unghia, come di revisioni e generosità inaudite. Saranno fantastici e orribili, come le ragazze e i ragazzi di tutte le generazioni prima di loro.

Diverso per le nuove idee, quelle sono come un virus. Sono trasversali, attecchiscono a qualsiasi età, rendono giovani i vecchi e anziani i ragazzini. Si impiantano senza costrutto nella testa delle persone e poi iniziano a costruire impianti, cercano simpatie; creano connessione, condivisioni. All'inizio sono niente poco più dell'aria ma poi ambiscono a diventare qualcosa di concreto, a mobilitare, a farsi organizzazione e norma. Le nuove idee possono essere devastanti, cambiare il paradigma di come le persone vedono il mondo, le cose che hanno attorno. Gli utensili, l'amore.

Spero nelle nuove idee, in alcune di loro, come – alla finestra del proprio appartamento nella propria palazzina occidentale, al caldo del proprio impianto di riscaldamento – si guarda fuori dalla finestra un ambiente urbano standard e si spera nel vento che non si vede, ma si sa che sta passando tra le strutture in cemento armato, invisibile e insonoro dietro alle finestre doppio vetro. Quelle che mi interessano, che mettono l'uomo al centro per la sua debolezza e alla periferia del mondo per la sua forza distruttiva e cieca, sono tra le più fragili. A volte il mercato se ne impossessa per qualche suo obiettivo, pronto a scaricarle per una nuova folgore del profitto e del privilegio.

In quelle spero quando le vedo emergere con rabbia e ostinazione in qualche frase, in qualche spilletta autoprodotta o in qualche t-shirt stropicciata dei miei figli. Anni fa ero da solo con mia figlia, terzogenita. Stava piagnucolando sul divano, non ricordo più per cosa. Aveva sette anni, lo so perché l'ho scritto su Facebook, ho controllato. Mi sono avvicinato a lei cercando goffamente di consolarla, “dai, non piagnucolare” le ho detto e – in un remoto angolo del mio cervello – è emerso il seguito standard della frase: 'come una femminuccia'. La cameriera orientale.

Abbiamo la testa piena di lemmi e frasario che ci impestano poi le azioni e che trasmettiamo alle nuove generazioni e che usiamo come ping con le vecchie. Ogni frase è un modo di vedere il mondo. Il nostro stesso vocabolario è un agglomerato di vecchie e nuove idee. Sono rimasto così, in bilico tra due ere, due culture. Poi ho riaperto la bocca e le ho detto, improvvisando, “non piagnucolare come un salice piangente. Non sei un albero. Sei una ragazza! Sei una femmina! Le femmine sono forti!” e le ho mostrato il pugno.

E lei aveva alzato la testa, ho scritto su Facebook, aveva tirato su con il naso e mi aveva detto “hai ragione papà” con gli occhi rossi che le brillavano.

[da “badaboom”, work in progress, appunti di ieri, stamattina e sei anni fa]

 
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from 📖Un capitolo al giorno📚

Le dodici pietre commemorative e l’arrivo a Gàlgala 1Quando tutta la gente ebbe finito di attraversare il Giordano, il Signore disse a Giosuè: 2«Sceglietevi tra il popolo dodici uomini, un uomo per ciascuna tribù, 3e comandate loro di prendere dodici pietre da qui, in mezzo al Giordano, dal luogo dove stanno immobili i piedi dei sacerdoti, di trasportarle e di deporle dove questa notte pernotterete». 4Giosuè convocò i dodici uomini che aveva designato tra gli Israeliti, un uomo per ciascuna tribù, 5e disse loro: «Passate davanti all'arca del Signore, vostro Dio, in mezzo al Giordano, e caricatevi sulle spalle ciascuno una pietra, secondo il numero delle tribù degli Israeliti, 6perché siano un segno in mezzo a voi. Quando un domani i vostri figli vi chiederanno che cosa significhino per voi queste pietre, 7risponderete loro: “Le acque del Giordano si divisero dinanzi all'arca dell'alleanza del Signore. Quando essa attraversò il Giordano, le acque del Giordano si divisero. Queste pietre dovranno essere un memoriale per gli Israeliti, per sempre”». 8Gli Israeliti fecero quanto aveva comandato Giosuè, presero dodici pietre in mezzo al Giordano, come aveva detto il Signore a Giosuè, secondo il numero delle tribù degli Israeliti, le trasportarono verso il luogo di pernottamento e le deposero là. 9Giosuè poi eresse dodici pietre in mezzo al Giordano, nel luogo dove poggiavano i piedi dei sacerdoti che portavano l'arca dell'alleanza: esse si trovano là fino ad oggi. 10I sacerdoti che portavano l'arca rimasero fermi in mezzo al Giordano, finché non si fosse compiuto quanto Giosuè aveva comandato al popolo, secondo l'ordine del Signore e secondo tutte le prescrizioni dategli da Mosè. Il popolo dunque si affrettò ad attraversare il fiume. 11Quando poi tutto il popolo ebbe terminato la traversata, anche l'arca del Signore attraversò e i sacerdoti si posero dinanzi al popolo. 12Quelli di Ruben, di Gad e metà della tribù di Manasse, ben armati, attraversarono in testa agli Israeliti, secondo il comando di Mosè; 13circa quarantamila, militarmente equipaggiati, attraversarono davanti al Signore pronti a combattere, in direzione delle steppe di Gerico. 14In quel giorno il Signore rese grande Giosuè agli occhi di tutto Israele. Essi lo temettero, come avevano temuto Mosè tutti i giorni della sua vita. 15Il Signore disse a Giosuè: 16«Comanda ai sacerdoti che portano l'arca della Testimonianza di risalire dal Giordano». 17Giosuè comandò ai sacerdoti: «Risalite dal Giordano». 18Quando i sacerdoti, che portavano l'arca dell'alleanza del Signore, risalirono dal Giordano, nello stesso momento in cui la pianta dei loro piedi toccò l'asciutto, le acque del Giordano tornarono al loro posto e rifluirono come nei giorni precedenti su tutta l'ampiezza delle loro sponde. 19Il popolo risalì dal Giordano il dieci del primo mese e si accampò a Gàlgala, sul confine orientale di Gerico. 20Giosuè eresse a Gàlgala quelle dodici pietre prese dal Giordano 21e disse agli Israeliti: «Quando un domani i vostri figli chiederanno ai loro padri: “Che cosa sono queste pietre?”, 22darete ai vostri figli questa spiegazione: “All'asciutto Israele ha attraversato questo Giordano, 23poiché il Signore, vostro Dio, prosciugò le acque del Giordano dinanzi a voi, finché non attraversaste, come il Signore, vostro Dio, fece con il Mar Rosso, che prosciugò davanti a noi finché non attraversammo; 24perché tutti i popoli della terra sappiano che la mano del Signore è potente e voi temiate tutti i giorni il Signore, vostro Dio”».

_________________ Note

4,5-8 La terminologia usata è quella propria della catechesi deuteronomistica di Dt 6,20; vedi anche Es 12,26.

4,9 fino ad oggi: frase abituale che accompagna una eziologia. L’autore dice che, quando lui scriveva, si vedevano ancora dodici pietre, che si pensava fossero quelle fatte porre da Giosuè.

4,19 il dieci del primo mese: giorno in cui iniziava la preparazione della Pasqua (Es 12,3). La data serve a preparare la celebrazione della Pasqua di 5,10-12.

4,20 Gàlgala: etimologicamente vuole dire “cerchio” (di pietre); è la località-santuario del tempo di Giosuè, di Samuele (1Sam 11,14-15), di Davide (2Sam 19,16). A Gàlgala Giosuè stabilisce il suo quartier generale (Gs 9,6; 10,6-9). Dalle tradizioni nate intorno al santuario di Gàlgala, probabilmente, proviene il materiale confluito nella prima parte di questo libro.

4,21-24 Seconda catechesi, ugualmente di formulazione deuteronomistica.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Il capitolo è complesso e contiene dati contraddittori. Lo si può leggere nel seguente modo.

I vv. 1-9 rappresentano la prima unità. In essa

  • a) JHWH ordina a Giosuè di scegliere dodici uomini, che trasportino dodici pietre dal Giordano all'accampamento (vv. 1-3);
  • b) Giosuè comunica l'ordine ricevuto (vv. 4-7);
  • c) l'ordine viene eseguito (v. 8).

  • Il v. 9 è di difficile spiegazione.

  • I vv. 10-14 riprendono 3,17, per ribadire che la traversata è avvenuta.

I vv. 15-24 costituiscono una seconda unità, anch'essa in tre momenti:

  • a) JHWH ordina a Giosuè di comandare a sua volta ai sacerdoti di uscire dal letto del Giordano (vv. 15-16);
  • b) i sacerdoti con il popolo obbediscono; Israele si accampa a Galgala, dove Giosuè fa erigere le dodici pietre (vv. 18-20);
  • c) Giosuè parla agli Israeliti (vv. 21-24).

Oltre al parallelismo dei tre momenti (ordine di JHWH a Giosuè – trasmissione dell'ordine – sua esecuzione), balza agli occhi il parallelismo formale e contenutistico tra il punto b) della prima unità e il punto c) della seconda. Si tratta di due catechesi, sullo stile di quella di Dt 6,20-25. Anche Dt 4,9-10 insiste sulla catechesi ai figli; cfr. pure – di origine non deuteronomica – Es 12,26-27 e 13,14-15.

6-7. Le pietre devono servire da memoriale dell'evangelo salvifico che, pur legato a un preciso momento e spazio storico, conserva in sé una validità perenne e sempre attualizzabile nella celebrazione liturgica.

9. È difficile pensare a pietre collocate nel letto del Giordano che siano visibili e resistano all'impeto della corrente.

10-14. Parlano della fine della traversata, riprendendo 3,17. Il v. 13 mette in rilievo il carattere anche militare dell'avvenimento, cosa che avviene solo in questo punto del racconto.

21-24. Cfr. v. 6-7. Si noti la posizione di rilievo data a Giosuè, come mediatore di JHWH, oltre che della tradizione parenetica e catechetica d'Israele.

(cf. VINCENZO GATTI, Giosuè – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Caserta: mappati i ruderi del telegrafo borbonico di Chappe

Un'associazione di Calvi Risorta in provincia di Caserta, ha analizzato le varie coordinate di una cartina dei telegrafi ed è andata alla ricerca di quello caleno, scoprendo l’edificio su di un anfratto sulla direttrice Teano – Gaeta. Fino ad allora i resti della struttura, erano ritenuti “delle fortificazioni preromane”. Invece sono i resti dell’edificio telegrafico borbonico di Chappe.
Su questi edifici erano installate le vedette del telegrafo visivo. Da Terracina a Gaeta, passando poi per Sessa, Teano, Capua, Caserta, Napoli fino a Palermo, spesso su delle alture si trovano ancora i resti di piccoli edifici di cui se n'è persa la memoria storica. Sono i punti visivi di contatto dell'antico telegrafo borbonico in uso fino alla guerra civile che ha portato all'annessione del Regno delle Due Sicilie a quello dei Savoia, poi Regno d'Italia. La cartina dove sono state trovate le coordinate, è stata rinvenuta qualche anno fa da un appassionato caleno in una biblioteca di Milano. Dopo averla scannerizzata ha deciso di metterla a disposizione di studiosi e archeo-escursionisti che volessero raggiungere tali luoghi. Il meccanismo telegrafo di Chappe era molto semplice e geniale: in pratica su questi edifici c’era un dispositivo che a seconda della disposizione di tre grandi pale significava una lettera. Così grazie ad alcune vedette, in comunicazione visiva attraverso il binocolo, da Palermo a Napoli e in tutto lo Stato delle Due Sicilie era possibile comunicare in tempo reale. La prima rete di comunicazioni utilizzata per scambiare messaggi in un’intera nazione è stata creata alla fine del 1700 in Francia grazie all’ingegno di Claude Chappe. La rete era formata da telegrafi ottici posizionati su colline, torri, campanile che consentivano di passare messaggi a cascata da un punto al successivo, che a sua volta rimandava al successivo. I telegrafi erano distanti circa 10-20 km e dovevano essere visibili a due a due. In caso di nebbia o di oscurità il servizio si interrompeva. Il telegrafo era costituito da un braccio orizzontale (regolatore) lungo 4m, agli estremi 2 braccio più piccoli (indicatori) lunghi circa 2m, (con contrappesi). Tutto era sostenuto da un palo di almeno 4,5m e posto in cima all’altura. Regolatori ed indicatori erano di colore nero per avere più contrasto nel cielo . Nel 1791 Claude Chappe ed i suoi fratelli iniziarono esperimenti per poter comunicare a distanza in maniera veloce. Dopo diversi esperimenti e proposte, nel 1793 la Repubblica Francese approvò e finanziò l’istituzione di una rete di 15 stazioni tra Parigi e Lille (190 Km a nord al confine con l’impero austriaco) La rete era costituita da telegrafi ottici collegati a vista, all’interno della torre dimoravano due operatori con binocolo che seguivano le procedure di comunicazione. La rete cominciò a funzionare il 15 agosto 1794 e fu adottata da tutto il Regno delle Due Sicilie.

 
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Storia e letteratura. Da una novella poco conosciuta di Verga e da Carlo Levi rileggiamo il periodo dell’Unità d’Italia

Sull'Unità Italiana si sono spesi fiumi di parole e di inchiostro. Il dualismo tra borbonici e Savoia, ancora oggi alimenta il dibattito su quel periodo. I fatti storici ci dicono che dallo sbarco di Garibaldi a Marsala e il successivo in Calabria passarono più di tre mesi. Fu un’occupazione, una guerra. Successivamente ci vollero altri 10 anni per controllare tutto il Sud Italia. Partendo dalla novella “Libertà” di Giovanni Verga sui fatti accaduti a Bronte in Sicilia ripercorriamo quel periodo storico.

Non si sa se Verga nell’elaborazione della novella, che narra dei fatti, abbia attinto in prima persona da fonti reali. La città dista una trentina di km dalla sua Catania. Quando avvennero i fatti, Verga era 20enne e viveva ancora in Sicilia. La novella fu pubblicata nel 1883 a Milano.

La novella Libertà inizia con l’immagine di un fazzoletto tricolore sventolato sul campanile della chiesa e le campane che suonano incessantemente. Per le strade tutti corrono. E’ caccia all’uomo. Un mare di persone armate di falci, martelli, zappe, vanghe, pale... tutti con in testa la coppola a caccia dei signori coi cappelli. Davanti a tutti c’era una donna che sembrava una strega, coi capelli dritti e armata solo delle unghie. In un vicoletto il primo a morire fu il barone del posto colpevole di aver sfruttato la gente dei suoi poderi, poi viene ucciso un ricco, colpevole di essere ingrassato col sangue dei poveri, muore un gendarme che aveva fatto giustizia solo per i poveri, il guardaboschi… e tutti i “cappelli”. In quei tempi in Sicilia i ricchi, i proprietari terrieri, i preti, per distinguersi dai poveri e dai braccianti portavano al capo dei cappelli, gli altri la coppola (un berretto). Poi venne il turno del prete che predicava l’inferno solo per chi rubava il pane. Mentre moriva implorava di non essere ammazzato perché era in peccato mortale. Quel peccato era una donna che si chiamava Lucia e che a 14 anni era stata venduta dal padre e che in quel momento affollava le strade di Bronte con i suoi monelli affamati. Il popolo ammazzava e basta, come fa il lupo accecato dalla fame che non pensa a mangiare ma a sgozzare quante più pecore della mandria. Morì ancora un giovane accorso a vedere cosa stesse accadendo, morì lo speziale mentre chiudeva frettolosamente la serranda della sua bottega e morì don Paolo sotto gli occhi della moglie che lo guardava arrivare dal balcone in groppa al suo somaro, di ritorno dalle campagne e che pure in testa aveva un berretto da cafone. “Una falce lo sventrò mentre con un braccio si riparava dal martello”. Morì anche Neddu un bambino di 12 anni, il figlio del notaio calpestato mentre fuggiva dalla folla che aveva ucciso il padre. “Beh, sarebbe stato notaio anche lui”, disse qualcuno. Morirono le donne che in abito da sera andavano a pregare in chiesa e schifate non si sedevano accanto ai poveri, morì la moglie del barone che barricatosi in casa diede ordine di sparare dalle finestre, il figlio maggiore 16enne, poi l’altro figlio. Le campane suonarono dall’alba al tramonto. Alla fine i morti furono 11. Solo il buio mise fine alla carneficina. Di notte si sentì solo il rumore delle ossa rotte dai morsi dei cani. La mattina tutti si muovevano con fare circospetto non sapevano cosa fare. Arrivò in paese un vecchio generale borbonico vestito con l’uniforme dei Piemontesi. Sedò la rivolta senza ulteriori spargimenti di sangue e fece seppellire i morti dagli stessi assassini. Quando andò via si disse in paese che sarebbe venuto un altro generale a fare giustizia. I colpevoli, gli assassini fuggirono sui monti quando arrivò Nino Bixio e il suo seguito di militari. Si stabilì nella chiesa entrandovi con il cavallo. Subito ne fece fucilare cinque o sei a caso, chi capitava. Poi vennero dei giudici vestiti da galantuomi, furono imprigionati i primi presunti colpevoli e portati nel Castello della Dulcea. Iniziò il processo che durò anni. Le mogli degli incarcerati prima portavano loro da mangiare, ma poi rassegnate che “non ne sarebbero usciti più”, trovarono altri mariti. Rimpatriarono prima le mogli, poi le mamme. Intanto il lavoro dei giudici continuava e altri venivano incarcerati e condotti alla Dulcea. In poco tempo tutto tornò come prima: i cappelli non potevano lavorare le terre con le proprie mani e la povera gente non poteva vivere senza essere comandata. La novella si conclude con il carbonaio del paese che dopo tre anni dai fatti veniva ammanettato dicendo: “Dove mi conducete? In galera? Perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà”. Ma che cosa stava accadendo in quegli anni? Per capire dobbiamo rileggere il contesto storico dei 10 anni precedenti lo sbarco dei 1000 di Garibaldi e i 10 successivi.

La Monarchia dei Savoia e quella dei Borbone Con i Moti del 1948, Re Carlo Alberto di Savoia concesse ai propri sudditi una sorta di Costituzione, lo Statuto Albertino, facendo diventare la propria monarchia costituzionale. Lo stesso re iniziò, subito dopo, una guerra per scacciare gli austriaci dal Lombardo Veneto. Ma fu sconfitto e abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II di Savoia. A Roma i moti del ‘48 portarono il repubblicano e massone Mazzini, con l’aiuto di Garibaldi, alla formazione della Repubblica Romana. Anche se quest’esperienza fu un fallimento dal punto di vista militare con la venuta dei francesi in soccorso al Papa, la costituzione della Repubblica romana un secolo dopo ha ispirato i padri costituenti della nostra e attuale Repubblica. Al Sud i Borbone concessero una costituzione alla Sicilia, nel tentativo di calmare i moti insurrezionali, che poi ritrassero reprimendo le rivendicazione di autonomia dell’isola. Messina fu duramente bombardata da Ferdinado di Borbone, tanto che per quest’azione è ricordato dalla Storia anche come il Re Bomba. Ad eccezione della costituzione repubblicana di Mazzini, si trattava di carte che miravano più a calmare il popolo che ad essere vere costituzioni.

Negli anni successivi ai moti del ‘48 il dibattito politico pubblico in Italia, vedeva la borghesia, l’aristocrazia, le monarchie, i proprietari terrieri, la Chiesa preoccupati della possibilità che potessero venire meno i privilegi acquisiti e consolidati da anni. A ciò si aggiungeva l’esigenza di vedere fatto uno stato unitario italiano, in tutta la penisola. Ma come doveva essere questo Stato: repubblicano, federale, ancora monarchico? Quale monarchia avrebbe dovuto guidare il percorso di unità della nazione? Nel 1859 il figlio di Carlo Alberto fu più fortunato del padre e riuscì a liberare dagli austriaci il Lombardo Veneto. Così il piccolo stato dei Savoia governato dalla destra storica di Cavour divenne abbastanza grande da mirare ad occupare tutta l’Italia. Si estendeva ora dal Piemonte al Veneto comprendendo tutta l’Italia Nord-Occidentale e l’isola della Sardegna. La capitale era a Torino. Il Sud e la Sicilia erano governati da Francesco II, da poco succeduto al padre, con capitale Napoli. La cessione della città di Nizza e la provincia di Savoia ai Francesi, con il trattato di Torino del 24 marzo 1860, diede avvio al processo di unificazione della penisola italiana. Cavour con l’appoggio di forze straniere come l’Inghilterra, assicurandosi una sorta di neutralità della Francia con la cessione della città sulla costa azzurra, iniziò a pensare la possibile occupazione militare del Regno borbonico di Napoli e Sicilia. L’occupazione fu preparata abilmente nei primi mesi del 1860 con l’invio di avanguardie patriotiche, incursori, con azioni di propaganda unitaria, con la promessa della concessione dei terreni ai contadini e acquisendo la fedeltà alla causa unitaria di funzionari pubblici e militari borbonici. Cavour si assicurò il non intervento di Francia e l’appoggio dell’Inghilterra che da anni era in rotta di collisione con i Borbone per lo sfruttamento dei giacimenti minerali di zolfo della Sicilia. Per il diritto internazionale i Savoia non potevano occupare uno stato sovrano, peraltro una delle monarchie più in vista d’Europa. Utilizzò quindi Giuseppe Garibaldi per le prime operazioni militari in Sicilia. La fama di Garibaldi, che era stato un abile marinaio e comandante in America Latina era accresciuta con la parentesi mazziniana della Repubblica Romana. Aveva saputo ben costruire la propria immagine, tanto che era stato eletto più volte deputato del Regno dei Savoia al Nord, in quel momento lo era nel collegio collegio di Nizza, la sua città natale. Nella spedizione dei Mille che verrà si fece seguire da un giornalista di guerra di fama internazionale quale Alessandro Dumas padre. Il 5 maggio del 1860 si avviarono le operazioni militari.

La propaganda unitaria, la Spedizione dei Mille e la conquista della Sicilia Garibaldi partì da Quarto in Ligura, con un esercito iniziale di 1000 uomini, a cui si aggiunsero altri volontari presenti sul territorio. Sbarcò a Marsala l’11 maggio 1860 nella Sicilia orientale senza essere intercettato dalla flotta borbonica. I Mille riuscirono a sconfiggere una prima resistenza dell’esercito borbonico a Calatafimi. Ne seguì una guerra di conquista durata tre mesi, città dopo città: Trapani, Palermo, Catania, Messina caddero. Nei grossi centri la popolazione civile si mantenne fuori dai combattimenti, ma nell’entroterra come a Bronte nel catanese il 2 agosto parecchi contadini, coppola in testa, che avevano equivocato la venuta dei Mille con una insurrezione contro il potere, si ribellarono. Vennero appiccate le fiamme a decine di case dei ricchi, al teatro e all'archivio comunale. Ci furono ben sedici morti fra nobili, ufficiali, il barone del paese. Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi fu chiamato per la rappresaglia con processi sommari e fucilazioni. Iniziava quello che negli anni successivi sarà una costante per il controllo del territorio in tutto il Mezzogiorno: la repressione col sangue.

L’episodio di Bronte oltre a essere narrato nella novella “Libertà” di Giovanni Verga (1883) è stato ripreso brevemente da Carlo Levi, nel libro “Le parole sono pietre” del 1955: “...qui a Bronte, nel 1860, dal 2 al 5 agosto il popolo si sollevò per la divisione delle terre, spinto dalle promesse di Garibaldi e dall'antica speranza. Naturalmente, come sempre avviene in queste esplosioni contadine, la rivolta fu feroce, molti i morti tra i signori borbonici, molte le case bruciate. Agli occhi dei contadini di Bronte la conquista garibaldina non poteva avere che un senso: il possesso delle terre, la libertà dal feudaulismo; e in nome di Garibaldi si misero a trucidare i signori. Erano più avanti dei tempi. Garibaldi, pressato dal console inglese di Catania timoroso per le sorti della Ducea, il complesso residenziale dell’ammiraglio inglese Nelsen mandò Nino Bixio a rimettere ordine. Nino Bixio giunse a cose già calme, dopo che un altro garibaldino, il colonnello Poulet (disertore borbonico passato con Garibaldi) con una compagnia di soldati era già pacificamente entrato in Bronte. Bixio fu feroce. Con una parvenza di processo fucilò immediatamente i capi della rivolta, fra cui un avvocato, Nicolò Lombardo un liberale che aveva già guidato in Bronte i moti del '48”.

In tre mesi la Sicilia fu completamente occupata chi si arrese a marzo dell’anno dopo con l’onore delle armi fu lasciato vivo, ma chi non volle passare con l’esercito dei Savoia fu deportato, in una fortezza ad alta quota a 2000 metri a Fenestrelle in Piemonte. Il 20 agosto Garibaldi sbarcò in Calabria e inarrestabile, proclamandosi dittatore dei territori occupati marciò facilmente fino a Napoli la capitale. Grazie alla sua fama e alla promessa di terre ai contadini, non venne ostacolato dalle popolazioni locali. A settembre il Re Borbone fu deposto e costretto a ritirarsi nella fortezza militare di Gaeta che fu assediata via mare e via terra, per oltre 100 giorni. Intanto l’esercito dei Savoia guidato in prima persona dal Re Vittorio Emanuele mosse da nord con 80.000 uomini. Dalla dorsale adriatica valicò gli Appennini e raggiunse Garibaldi nei pressi di Teano, siamo al 26 ottobre 1860. Furono organizzati dei plebisciti per sancire l’annessione dei territori occupati dalla monarchia dei Savoia in tutta la Penisola nel nome dell’Unità d’Italia. A marzo del 1861 il Re napoletano si arrese e guarda caso l’Inghilterra per prima riconobbe la vittoria ai Savoia. Ad aprile del 1861 a Torino si riunì per la prima volta il parlamento italiano in seduta comune. La discussione verteva sul destino dei garibaldini: arruolarli nell’esercito regolare o rispedirli a casa con una pacca sulla spalla e un compenso simbolico. La seduta si chiude con un nulla di fatto. Garibaldi usò parole dure, parlò di una guerra fratricida, “provocata da questo stesso Ministero”. Il 5 maggio 1861 fu proclamata l’Unità d’Italia facente capo alla monarchia dei Savoia. Cavour, che ne era stato l’artefice improvvisamente morì agli inizi del mese di giugno. Il repubblicano Mazzini, che viveva in esilio a Londra ma era rientrato clandestinamente in Italia, ad agosto del 1861 raggiunse la Sicilia via mare per un estremo tentativo di vedere un’Italia Repubblicana. Sperava in un movimento insurrezionale, ma a Palermo prima ancora di scendere dalla nave, fu dichiarato in arresto dai Savoia e portato al forte di Gaeta. Dopo due mesi di carcere fu liberato con un’amnistia e lasciato libero di tornare a Londra a patto che non svolgesse più attività politica. Morì 10 anni dopo.

La Guerra civile e la Questione Meridionale L’Italia era finalmente unita anche se sotto una monarchia guidata dai Savoia. Restava irrisolta la questione romana nelle mani del Pontefice e quella di alcuni territori dell’Italia nord-orientale che ancora non erano stati annessi, come il Trentino; ma c’era pure un’altra questione che stava per arrivare: “La Questione Meridionale”. Al sud scoppiò una guerra civile: italiani, contro italiani: borbonici, repubblicani, papalini, liberali, lealisti, contadini, ex garibaldini... che divenne una guerra di logoramento. Il nuovo Stato non riusciva a controllare i comuni e i territori delle periferie e le campagne; sopratutto nei territori interni della Campania, Lucania, Puglie e Calabria. Il malcontento c’era ovunque. Lo stesso Garibaldi nel giugno del 1862, probabilmente incalzato da Mazzini, si imbarcò da Caprera per la Sicilia per saggiare di persona un'eventuale ripresa delle azioni rivoluzionarie e marciare su Roma. Le accoglienze in Sicilia furono talmente entusiaste, da deciderlo a guidare una nuova spedizione. Ma fu intercettato dai soldati piemontesi, fu ferito in Calabria, costretto a ripararsi in Aspromonte ed ad arrendersi. Intanto il nuovo governo iniziò a vendere i beni demaniali e quelli confiscati agli ordini religiosi che furono soppressi. I terreni invece di essere essere venduti a piccoli lotti per consentire l’acquisto da parte dei contadini che li avrebbero usati per auto sostentamento, finirono nelle mani dei ricchi speculatori. Si aggravarono ulteriormente le condizioni dei ceti più poveri. Ci fu un aumento generalizzato delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità. Il Mezzogiorno fu militarizzato, fu usata la leva obbligatoria per reprimere chi si ribellava al nuovo ordine costituito. I giovani meridionali che non si arruolavano venivano condannati a morte. Si formarono bande armate che dalle montagne scendevano ad occupare i comuni. Furono bruciati ettari di boschi per stanare i “briganti”, furono incendiate le masserie, le case di campagna dei contadini che potevano dare rifugio ai ribelli. I crimini di guerra e le atrocità più orribili da cui si è avuta notizia furono commesse nel Sannio a Casalduni e Pontelandolfo, oggi provincia di Benevento. Un anno esatto dopo i fatti di Bronte in Sicilia, l'11 agosto 1861, in un agguato morirono 45 soldati piemontesi. La violenta rappresaglia militare guidata dal generale Cialdini portò all'incendio dell'abitato di Casalduni lasciato vuoto dagli abitanti fuggiti. Ma i carabinieri e i soldati piemontesi ripiegarono su Pontelandolfo bruciando vivi nelle loro case diversi civili tre giorni dopo. Dopo oltre cento anni nel 1973 i familiari delle vittime lanciarono una prima petizione per chiedere la verità sul massacro. Intanto la guerriglia durò anni e i costi di occupazione furono finanziati con ulteriori tasse, come quella sul Macinato di Quintino Sella.

La fine della Guerra Civile d'occupazione Solo nel 1869 furono catturati i guerriglieri delle ultime grandi bande con cavalleria e a gennaio del 1870 a dieci anni esatti dall’avvio dell’occupazione del mezzogiorno d’Italia, il governo italiano soppresse le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale della guerra d’occupazione. Il 2 ottobre 1870 l’ennesimo plebiscito sanciva l'annessione degli ex domini papali al Regno d'Italia, con una vittoria dei “sì” resa schiacciante anche dal poco strategico invito della Curia romana all'astensionismo dei cattolici. Nel gennaio 1871 la capitale d'Italia divenne a Roma.

 
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