The Life Aquatic

Lo dico chiaro e tondo: tutta la teoria imparata e la (poca) esperienza sul campo che ho come insegnante mi hanno fatto capire che i modelli adottati nelle classi di oggi sono vecchi di cento anni. Ogni anno, da settembre a giugno, migliaia di insegnantə nelle varie classi d'Italia lavorano e sperimentano non sapendo fino in fondo quello che stanno facendo anche e soprattutto perché la nostra comprensione di come avviene il processo di apprendimento è essenzialmente come l'astronomia di 2000 anni fa. Vera e propria astrologia. 

Anche in questo momento la ricerche sull'apprendimento tentano con un lanternino di risolvere questo problema complesso, in altre parole siamo esattamente nel mezzo del più grande esperimento sullə studentə mai effettuato. Un compito ancora più arduo se pensiamo che prima del diciannovesimo secolo, nessuna società umana ha veramente provato ad educare l'intera popolazione, ma solo parti di essa (l'aristocrazia, la cosiddetta classe dirigente, o un mix di queste due e perlopiù di sesso maschile). Ancora oggi, malgrado i tentativi dell'accademia, l'insegnante è fisso nel comfort del banking model, che vede gli alunni come delle banche in cui depositare nozioni, continuando lo stile elitario dei licei anche se non è efficace sulla maggior parte dellə ragazzə. Quel che è peggio è che quelle poche strategie cognitive, psicologiche che abbiamo identificato come utili all'apprendimento vengono regolarmente ignorate da una classe politica burocratizzata, orientata a verifiche e test, per registrare l'andamento delle grandi masse.  Il risultato di questo atteggiamento è una sconfitta totale. I professori ogni mese modulizzano i propri saperi perché diventino veri e propri pacchetti da spedire nelle menti degli studenti, i quali molto probabilmente non impareranno niente dai propri supposti mentori, a parte come non diventare come loro. Volendo dare una nota pragmatica alle cose che sto dicendo, ecco una serie di pratiche scolastiche che penso vadano quantomeno rimaneggiate:

  • I compiti non aiutano affatto, specialmente gli alunni più giovani
  • Gli studenti non imparano niente dai test. E neanche la maggior parte dei professori. (Teoricamente i test sarebbero in grado di dargli indicazioni, ma succede raramente)
  • Studiare per troppo tempo le materie in cui ci sentiamo in difficoltà è nocivo.

E allora cosa si fa? come possiamo cambiare questo andamento?

Chiaramente lavoriamo su due ordini di problema. Il primo è un problema di tipo burocratico che costringe il docente a riportare allo stato l'andamento della propria classe e dei propri alunni, fornendo loro delle prove documentali (compiti, scrutini, pagelle ecc..) e questa cosa molto difficilmente cambierà e, se lo farà, sarà al lento ritmo della legislazione italiana. Quello su cui a mio avviso vale la pena soffermarsi è il secondo ordine di problema, e cioè quello prettamente pedagogico e metodologico. Premettendo che la pedagogia non è una scienza esatta che fornisce soluzioni idonee a tutti i tipi di apprendenti, sicuramente cambiare il nostro modo di fare, ricercare, sperimentare, con cognizione di causa potrebbe essere una soluzione più immediata e potente di qualsiasi voto e pagella. 

vogliamo che ə ragazzə imparino? Ecco qualcosa che ho scoperto: i ragazzi imparano cose di cui gli importa.  A volte perché si appassionano genuinamente alle cose che studiano, altre volte perché percepiscono ciò che studiano come strumenti per emancipare se stessi e le loro comunità. Mantenere lo status quo? non funzionerà mai più (se ha mai funzionato)

Lə ragazzə sono fortemente consapevoli delle ingiustizie, sono per natura ribelli ad ogni sistema autoritario che preclude loro l'autodeterminazione. Certo, potremmo sfiancarli. Questo è quello che è successo a molti di noi quando eravamo studentə. ci siamo avvicinati a questo mestiere perché abbiamo visto l'orribile ipocrisia della nostra società e volevamo guarirla in qualche modo. ma anno dopo anno, ci hanno fatto interiorizzare questo sistema fino a farci diventare automi. Ed ora stiamo spezzando gli spiriti dellə ragazzə, proprio come sentivamo che i nostri professori facevano con noi.

Gli obiettivi, le competenze, le unità didattiche, i voti e le verifiche sono solo specchi per le allodole, tutto fumo negli occhi.

A malapena conosciamo i meccanismi fisiologici dietro la memoria ma sappiamo, ed anche da molto tempo, che i ragazzi non sono frigoriferi da riempire con quelle che crediamo siano le nostre specialità. Sono già pieni fino a scoppiare di pensieri, emozioni ed opinioni.

Volete sapere l'ultima e più stomachevole realtà?  L'educazione al giorno d'oggi è densa di ideologia capitalista e serve solo a rinforzare questo sistema. 

«Perché dovrei imparare a leggere?». «Hai bisogno di imparare per ottenere un buon lavoro»,

ovvero per essere un buon lavoratore. Per aiutare i ricchi a generare più ricchezza, mentre tu ti becchi le briciole. 

E invece dovrebbe essere:

«Perché leggere è magico. rende la vita degna di essere vissuta. E sapendo leggere, puoi conoscere le strategie dei tuoi oppressori e fermarli con le loro stesse armi».

Non c’è l’ombra di dubbio che questi siano anni molto complicati. Delle tante crisi, sociali, economiche, sanitarie, ambientali ed umane, devo purtroppo aggiungercene una strettamente personale, certo minuscola se comparata al quadro generale, ma che ha messo in crisi il mio modo di vedere e di agire.

Tutto è cominciato con un libro, il più interessante che ho letto quest’anno, “Miti d’oggi” di Roland Barthes; un saggio in cui si analizza la società di massa degli anni cinquanta. Sotto la lente dell’autore, gli oggetti della vita quotidiana e dei media diventano la chiave di lettura per capire il suo tempo e la società a lui coeva. Sintetizzando all’estremo, per Barthes, il mito non sta nelle cose in sé ma nel modo in cui esse vengono comunicate, un principio tipico della cultura di massa che tende a “trasformare il culturale in naturale”, l’opinione in fatto, il discorso in certezza. Ciò che è artificialmente costruito diventa, attraverso la comunicazione di massa, qualcosa che ci appartiene indissolubilmente.

Così un’automobile assume la potenza di una cattedrale gotica, Charlot diventa una riflessione sul senso del socialismo, la copertina di una rivista riassume l’imperialismo colonialista francese, e così via…

È proprio Barthes che, con il suo libro di semiologia e di discorso, mi ha messo in crisi, soprattutto quando parla del mito come parola politica, come discorso ed azione:

Se sono un boscaiolo e mi trovo a nominare l’albero che abbatto, qualunque sia la forma della frase, io parlo l’albero (corsivo mio), e non su di esso. Ciò significa che il mio linguaggio è operativo, legato al proprio oggetto in maniera transitiva: tra l’albero e me non c’è niente oltre al mio lavoro, cioè un atto. Esso rappresenta la natura solo nella misura in cui mi accingo a trasformarla, è un linguaggio mediante il quale agisco l’oggetto: per me l’albero non è un immagine, è semplicemente il senso del mio atto. Ma se non sono un boscaiolo non posso parlare l’albero, posso solo parlare di esso, su di esso; il mio linguaggio non è più lo strumento di un albero agito […] Con l’albero ho solo un rapporto intransitivo. (R.Barthes)

Ho sentito il dubbio scendere a valle come una valanga pronta a travolgere ogni cosa sulla sua strada. Di cosa ho scritto nei miei articoli? Di cosa posso parlare per risultare operativo? Quante volte sui social ci capita di parlare di questioni che non abbiamo operato transitivamente, sentendoci il diritto di dire la nostra. Vi faccio un esempio: come posso io, bianco, maschio, cis, etero, parlare di genere, razza e classe e risultare credibile? Sto parlando l’albero o sto parlando sull’albero?

Una parte di me si è data una risposta razionale, una scusa forse, e cioè che è più complicato di così, le questioni di genere, razza e classe riguardano e devono essere masticate non solo dai diretti interessati, anzi, forse è il caso che riguardino molto di più i soggetti egemoni, i cosiddetti fortunati che devono mangiare tutto pensando ai bambini che non possono.

Malgrado ciò vivo una difficoltà intellettuale che ha portato ad una pausa di riflessione dalla scrittura e mi ha spinto a rivalutare il modo di operare quelle tematiche che all’università mi entusiasmavano, mi parevano la chiave di lettura del mondo. Ho cominciato a sentire una sorta di frattura tra le mie letture e la mia identità, che ha fatto cadere dalla libreria mentale tutte le informazioni legate a certi argomenti e che adesso vagano senza riferimenti mosse dal vento che soffia dalla finestra aperta del dubbio.

Can the subaltern speak? Si intitola uno di quei testi che adesso vaga nella mia mente, ma a cui ci aggiungerei am I subaltern? How much? If not, can I speak as it? Should I speak for them? With them? Should I just listen?

Spero di poter trovare la mia semiologia operativa e di poterla conciliare con l’intransitività dei miei studi. In questo senso la fotografia mi sembra molto più semplice e genuina.

Sono nato per fare l’insegnante. Almeno così mi dico. Forse è l’unico modo che ho per spiegare quel misto di orgoglio e mania di controllo che provo quando la classe fa quello che dico o capisce qualcosa che ho spiegato. E poi c’è quella parte di me che crede fermamente nel ruolo politico (non partitico) dell’ insegnamento. Perché devo cimentarmi in dibattiti politici astrusi con persone politicamente diverse da me, dove si parla di tutto e di niente, quando posso cercare di plasmare i ragazzi e le ragazze, le cosiddette future generazioni?

Forse il termine “plasmare” non è adatto, perché, da quello che ho capito è che, oltre all’insegnare la materia, l’insegnante porta implicitamente un altro compito. Così come i mass‐media ed i nostri tutori, ho capito che gli insegnanti svolgono quel ruolo fondamentale di mostrare cosa c’è nel mondo, le opzioni percorribili. Opzioni che la nostra società solitamente riduce a due o poco più: centrodestra/centrosinistra, fiocco rosa/fiocco blu, civile/incivile, bianco/nero, borghese/straccione. Ma se ci fossero più opzioni? Vogliamo davvero che le nostre ragazze e i nostri ragazzi vivano tale ristrettezza mentale? Vi faccio un esempio.

Compito di inglese: identikit. Scrivi il tuo nome, il tuo genere, la tua età e presentati. Sulla casella del genere ce n’erano solo due opzioni, male e female. E lì che ho rivelato loro l’esistenza dell’espressione non-binary (espressione che, fortunatamente, ricorre sempre più spesso nei paesi anglofoni).

75 sono i compiti che ho corretto quasi tutti con i soliti errori, prima persona lettera minuscola, terza persona singolare coniugata male, costruzioni della frase forzatamente tradotte dall’italiano. Tutto normale per dei quattordicenni che, pur di raccontare, e raccontarsi, scriverebbero di tutto.

Eppure tra quei compiti ce n’era uno che cominciava così:

nome cognome, 14 years old, N-B.

Magari l’avrà scritto per gioco o per distrazione. Ma mi piace pensare che abbia potuto provare un senso di sollievo nel sapere che oltre a male e female, esiste qualcosa in più, non binary. Solo una parola direte voi, ma magari per lui/lei quella parola è l’approssimazione più vicina alla propria identità, qualcosa di rivelatorio e confortante, seppur non abbastanza, in cui potersi definire.

Oltre ad evidenziare l’ovvia questione che i ragazzi sono pronti capaci ed aperti ad acquisire queste nuove forme di realtà di genere, mi sono chiesto come mai questa cosa, che dovrebbe essere normale, che non dovrebbe suscitare niente, mi abbia reso così fiero; perché la libera percezione del proprio genere debba venire con un misto di protesta sociale e ribellione.

Alla correzione del compito ho nascosto l’emozione. Sette meno.

La regola delle sardine è una e una sola: nessuna bandiera.

Gli organizzatori sono stati chiari e, considerando che non hanno un servizio d’ordine così grande, penso che la proposta sia stata largamente accettata. I motivi di questa scelta, io credo, sono i più innocenti possibili: lungi dall’avere chiare connotazioni pentastellate “né di destra, né di sinistra”, credo che il motivo risieda nella trasversalità dell’ insoddisfazione nei confronti della politica leghista e dall’eterogeneità delle idee.

Mi sembra ovvio che Santori e gli altri organizzatori non abbiano niente contro le bandiere in sé. Il problema risiede nella gestione dell’identità delle sardine ( identità che molto spesso si esprime attraverso le bandiere: nazionale, di partito, calcistica, religiosa e così via…). In sostanza l’ idea è quella di contenere l’indignazione nei limiti del proprio corpo cosicché si possa diventare un banco di sardine uniforme ma decisamente più gestibile per veicolare un messaggio semplice e specifico. ( che, tutto sommato, condivido).

D’altronde non è mica obbligatorio per le sardine farsi carico di tutte le identità e le problematiche dei vari gruppi, tanto meno prendersi la responsabilità di riunire la sinistra. La riflessione che hanno suscitato in me è di più ampio respiro.

Quello che mi ha detto Salvatore

Un off-topic veloce. tutto tornerà, ve lo prometto. Io alla manifestazione delle sardine di Napoli ci sono andato e ho potuto vedere con i miei occhi. Lì ho incontrato il signor Salvatore: giubbino rosso, occhiali, un cartello al collo con su disegnato quella che lui chiama una “sardina a rotelle”. È stato facilissimo fare amicizia con lui, un po’perché siamo entrambi estroversi e socievoli, un po’perché nella piazza cercavamo tutti una sorta di confronto motivazionale, uno storico politico e ideologico(è chiaro che eravamo lì per protestare contro la Lega, ma c’erano molti gruppi diversi, inclinazioni politiche differenti), una sorta di “ Ma a chi appartieni” politico che basta agli anziani per capire chi sei.

“Dobbiamo fare un gruppo su facebook, Sardine a rotelle!” – mi ripete Salvatore- “Dobbiamo riunire tutte le sardine a rotelle”.

Popolo, massa, moltitudine

Quello che mi ha detto Salvatore aveva suscitato il mio interesse, ma non avevo ben chiaro cosa significasse. Finché non ho avuto una conferma analoga:il movimento delle Sardine nere. Come quelle a rotelle, le sardine nere condividono la stessa indignazione delle sardine bianche e di quelle a rotelle. La differenza è sostanzialmente il tipo di corpo che si ribella, non è certo come il mio, non implica gli stessi problemi, ma forse richiede soluzioni analoghe.

“Dovremo distinguere concettualmente la moltitudine dalle nozioni rappresentative di altri soggetti sociali, come il popolo, le masse e la classe operaia. Del popolo si è sempre avuta una concezione unitaria. La moltitudine, al contrario, è intrinsecamente molteplice. Anche le masse si differenziano dal popolo, in quanto non possono essere ridotte a un’unità o a un’identità. Anche le masse sono infatti costituite in molti e diversi modi, ma non si può dire che siano composte da differenti soggetti sociali. La loro essenza è piuttosto l’indifferenza. La moltitudine è composta da innumerevoli >differenze interne che non possono mai essere ridotte a un’unità o a una singola identità.”. (Hardt & Negri)

Al di là della trovata intelligente del conferire alla logica delle sardine diverse connotazioni specifiche, la questione delle bandiere (o meglio, quella della moltitudine delle identità) si risolve parzialmente. Perché tutto il dissenso è nei nostri corpi, che più dei nostri pensieri sono soggetti a continue ingiustizie. Una bandiera antirazzista sulla pelle nera di un migrante, una bandiera femminista nella vagina di una donna, una bandiera anticapitalista sulle occhiaie di un lavoratore precario, una bandiera ecologista tra le cellule cancerogene di un malato.

Credo che se la sinistra voglia avere un futuro migliore dell’antiberlusconismo e anstisalvinismo debba fare tesoro della nozione di Moltitudine.

“Nella moltitudine, le differenze sociali restano differenze. La sfida lanciata dal concetto di moltitudine è quella di una molteplicità sociale che è in grado di comunicare e di agire in comune conservando le proprie differenze interne”.

Viviamo in una società decisamente più frammentata di quella della sinistra storica, alla categoria di classe (che comunque si è di per sé complicata) si aggiungono quelle del genere, della razza ed altre. A volte agiscono molteplici nello stesso corpo.

Massa è riduzione a uno, massa è nessuna bandiera. Moltitudine significa fare spazio alla protesta del mio vicino, moltitudine è tutte le bandiere.

Ci sono delle volte in cui mi sembra di vivere in un ghetto, e non solo perché dove abito io, la stereotipata Forcella, abita una grande quantità neri, migranti, proletari; non è neanche perché una sera si e una sera no io e la mia compagna sentiamo i fuochi d’artificio e facciamo il gioco “santo, droga o scarcerazione?”. È l’immondizia. C’è immondizia ovunque, sempre.

Circa un milione di persone vive a Napoli, senza contare i turisti e i pendolari delle varie Circum-flegrea/vesuviana che, in tempi normali, vanno e vengono quotidianamente. A queste condizioni è difficile non immaginare una grandissima quantità di immondizia prodotta. Ma quando mi capita di attraversare il centro per andare al cinema, alla mostra d’arte (o qualsiasi servizio non degno per un quartiere come il mio), quando arrivo al quartiere di Chiaia con i suoi bar, le sue gioiellerie e le gelaterie artigianali finissime, mi rendo conto che non c’è la minima traccia di immondizia per le strade. Lo stesso numero di persone vive in questi luoghi rispetto al quartiere dove abito e, presumibilmente, in questi luoghi si crea la stessa quantità di rifiuti, ma le loro strade pulite ci dicono tutt’altro.

Un osservatore casuale potrebbe pensare che le persone che vivono nel mio quartiere, perlopiù poveri, perlopiù migranti, sentano meno l’orgoglio cittadino; che gettino la carta della caramella, il fazzoletto usato, le bottiglie di birra mezze vuote, i cartoni della pizza e gli scontrini a terra perché a loro non importa mantenere i loro marciapiedi puliti e vivibili. E questo, lo stesso osservatore potrebbe aggiungere, è per via di un deficit culturale: in poche parole si tende a pensare che gli abitanti di Forcella non diano valore al posto dove vivono, la loro casa, perché questo valore non gli è stato inculcato in alcun modo.

Se ci pensiamo bene, ci rendiamo conto che non abbiamo molti strumenti per guardare il problema dell’incuria urbana, se non uno: una narrazione che, a partire dalle scuole, le associazioni giovanili, fino ai gruppi su Facebook [nome della tua città] indignata, si limita a risolvere il problema dell’immondizia secondo la dicotomia civiltà/inciviltà. Io stesso devo ammettere che sono cresciuto in un contesto che mi ha insegnato che l’azione politica su questo tema, oltre al mettersi la carta della caramella in tasca, si basa esclusivamente sull’indignazione; un educazione che mi offre uno spettro di scelte che si limita a “giudizio morale civile” oppure “inciviltà omertosa”. Se c’è troppa immondizia per le strade di un quartiere allora la colpa è dell’inciviltà dei suoi abitanti che non hanno il buon senso, se non le capacità intellettive o l’educazione, di capire l’importanza dell’igiene e della pulizia delle strade.

Quando ci capita di assistere ad un fatto del genere, la nostra mente immediatamente isola il gesto di gettare una carta a terra dal contesto in cui lo si vede, se non visivamente, quantomeno concettualmente: siamo programmati a concepire un tale atto come un episodio di inciviltà senza domandarci quali siano le cause personali, materiali e sociali.

Poca o nessuna considerazione viene data al fatto che nel mio quartiere non c’è il ritiro “porta a porta”, non ci sono bidoni condominiali non ha abbastanza campane rispetto al quartiere Chiaia. La città avrebbe potuto installare più recipienti qui, se solo mantenere un quartiere fatto di neri, migranti e poveri fosse importante. Avrebbe potuto pagare qualcuno di questi neri, migranti e poveri per raccogliere l’immondizia, anziché incrementare le ronde dei carabinieri e la polizia che passa cinque o sei volte al giorno.

Tutto questo potrebbe suonare come una critica alla morale politica e all’etica in generale. Tutt’altro, sono convinto che un’etica cittadina ecologica, un’etica cittadina di vivibilità sia importante, se non necessaria, non solo per quel che riguarda l’ambiente, ma anche il lavoro, la turistificazione, il diritto abitativo ecc. È necessario però, affinché una politica che si basi esclusivamente sull’etica sia efficace, che tutti i cittadini, anche quelli del mio quartiere, abbiano le stesse possibilità e condizioni materiali di partenza. L’etica senza questa cruciale condizione resterebbe solo mero moralismo.

Se abiti nei pressi di Via dei Tribunali, all’incrocio con Via Atri e Via Nilo, allora anche tu come me vivi nel purgatorio, perché sei abbastanza vicino al balcone più famoso di Napoli. Il balcone della canzone. (lo conoscete tutti, è quel tipo che con il panaro calato canta le canzoni napoletane a tutto volume).

sarà che per tutto il lockdown non si è proprio sentito, o forse perché non dovrò ascoltarlo ancora per molto, ma fatto sta che ultimamente le sue esibizioni non riesco proprio più a sopportarle. E allora, appena comincia i suoi prova-sa, decido di andare a prendere un caffè lungo almeno un’ora e mezza.

E proprio mentre stavo tornando mi sono accorto di non essere l’unico insofferente. Un altro abitante del purgatorio ha deciso, nel delirio generale di esternare la propria insofferenza verso il performer.

Non mi soffermerò sui dettagli della discussione, né sui modi in cui è avvenuta. Vi dirò che quella persona che ha aspramente protestato contro il balcone della canzone sarei potuto essere io, se solo fossi stato poco più nervoso, se non fossi andato a prendere un caffè.

La verità è che lo stile di vita del centro storico è già perduto, è già unicamente orientato al turista e non più al cittadino. E questa ne è solamente l’ennesima prova. Risultato: la persona che ha protestato si è ritrovata sola contro il fantomatico cantante, ma anche contro i turisti.

Il colmo è arrivato quando un turista di una località del nord non ben definita dall’accento, ha inveito contro la manifestante, perché questo tipo di protesta va contro “Lo spirito di Napoli”.

Io stesso, che che vivo in questo incrocio da ormai due anni, mai mi sognerei di avere la pretesa di aver capito qual è lo spirito di Napoli, varia, poliedrica e con un milione di culture.

L’atteggiamento del nordico turista mi fa riflettere su una questione che mi è già apparsa davanti altre volte. Il suo comportamento ricalca una piega del rinnovato interesse dei cittadini del Nord verso Napoli.

Tra le rovine antiche di Pompei l’arte antica e i musei, il turista viene qua per soddisfare un’immagine mentale di Napoli che è quella dell’eterno pulcinella, il lazzarone e pacione, che vive la strada e vende il pane urlando per i vicoli. C’è di più che se una cosa simile nei suoi quartieri residenziali della città del nord, ordinata e rispettosa, non sarebbe mai stata accettata. Ecco che si svela l’arcano: si vuole a Napoli il caos che si detesterebbe nella propria città, si vuole provare l’esperienza esotica del paese sconosciuto; e sono sicuro che vivono nel piacere di tornare a casa soddisfatti di poter dire che i napoletani, svogliati ed edonisti, passano tutto il giorno a cantare e mangiare pizza. Venuti con il cappello coloniale ed il binocolo e e si godono il safari nella giungla.

Dal canto mio, ho pensato che vivere in centro, promuovere una vita civica, lavorativa e sociale autentica in questi quartieri fosse una sorta di resistenza civile a quel processo; che fossi, come ancora qualcuno da queste parti, ribelle a questa economia unica che fornisce al turista l’immagine più sterile di Napoli.

E invece due anni in questo quartiere mi hanno solamente imbruttito e mi hanno dato una certa repulsione verso quella cultura Napoletana che, dalle radici meravigliose e profonde, è diventata il brand di un parco a tema chiamato “Napoli centro”.

“Che me fa fa’ st’ammore Seguire Napoli fino in fondo Andare a scuola di contrabbando Rubare e vendere la sua arte”. (E.Bennato)