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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Oggettivamente questo disco è passato alla storia per due motivi: ha sancito la nascita “ufficiale” della world music ed è uno dei simboli del passaggio del Sudafrica alla democrazia. Per quel che mi riguarda c’è un terzo motivo: è grazie a questo album che è nata la mia passione per la musica africana.

Non è retorica dire che lungo le canzoni di “Graceland” è passata la storia, e non quella della musica, ma proprio la storia del Sudafrica. Oggi si comincia a dimenticare, almeno guardando da lontano, che è esistito un Sudafrica non libero e non democratico e, per chi non lo sa o non lo ricorda, questo è solo un disco di un cantautore americano con musicisti africani.

Ma allora no, allora nel 1986, Graceland suscitò passioni, rabbia, polemiche. Paul Simon ha sempre amato la musica di mondi diversi dal suo. Lo aveva già fatto anni prima insieme a Art Garfunkel, facendo scoprire a milioni di ascoltatori le malinconie andine aggiungendo parole alla melodia tradizionale di “El condor pasa”. Successivamente nel 1984 grazie a un disco scoprì per caso la musica dei ghetti neri di Johannesburg.

Ne fu talmente affascinato che volle andare sul posto per registrare qualcosa insieme ai musicisti locali. Ma nei confronti del Sudafrica era in atto un embargo e suonare significava appoggiare indirettamente il regime segregazionista. Ci fu poi la polemica che dipingeva Simon come il bianco ricco che si può pagare tutti gli sfizi che vuole sfruttando la musica altrui. Il dibattito diventò caldissimo, diversi musicisti inglesi attaccarono senza mezzi termini il collega americano e qualcuno notò come nei testi mancasse il minimo accenno alla situazione sudafricana.

Oggi la storia ha dato ragione a Simon; Graceland è tradizionalmente considerato l’inizio ufficiale della world music nonché uno dei simboli del passaggio del Sudafrica alla democrazia. Musicalmente parlando è un bel disco, pieno di melodie nitide e a volte memorabili, rese intense dalle voci pirotecniche dei Ladysmith Black Mambazo e scintillanti dai riff chitarristici di Ray Phiri.

#millenovecentoottantasei

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Folk Singer è stato uno dei momenti più intensi della straordinaria e imponente storia artistica di Muddy Waters. Fu un disco “unplugged” quando questo termine non era certo in voga.

Fu un’esperienza che permise all’uomo dalle grandi mani, dalla voce tonante e dal sorriso contagioso di ritrovare e trasmettere la forza libera e impetuosa del blues. Un viaggio attraverso le radici, giù nel delta del Mississipi, dove era nato e dove aveva incontrato per la prima volta quella che sarebbe diventata la sua musica.

All’inizio Waters non era per niente convinto, fu infatti la sua casa discografica; la Chess, ad avvalorare il progetto, l’esito fu sbalorditivo. La Chess voleva ampliare il pubblico di Waters, e legarlo al termine “folk” (che in quel periodo riscuoteva grande successo in America).

Fu così che Waters lasciò a casa le chitarre elettriche, gli amplificatori e soprattutto i musicisti del suo gruppo. E, anche se non venne fuori quello che esattamente voleva la Chess, venne fuori qualcosa di vibrante che confermava quanto Waters fosse padrone della sua arte.

Senza il pulsare degli strumenti elettrici, senza quel suono che aveva caratterizzato le incisioni precedenti, la sua voce era più che mai profonda e prepotente.

Il repertorio è composto da brani familiari per Waters, ma con qualcosa in più, qualcosa di nuovo, più Canto & Chitarra, è il risultato è sorprendente. Waters racconta i suoi problemi, ricorda le sue donne e la sua solitudine diventa quella di tutti, in fondo il Blues è questo, Folk Singer è questo.

#millenovecentosessantaquattro

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Dopo sei anni di silenzio torna in studio Mr. Billy Bragg, classe 1957.

Se la caratteristica principale di B.B. sono le canzoni marcatamente “sociali”, è infatti, uno dei songwriter più politicizzati della scena musicale inglese, in questo lavoro Bragg predilige brani più intimi e personali.

Sembra, infatti, che in questo album voglia volgersi indietro per trarre alcuni bilanci della sua vicenda umana e artistica. Billy ha preparato una dozzina di canzoni veramente interessanti, nello stile a lui più congeniale quello “bragghiano”; il suo personale stile caratterizzato da tre elementi fondamentali: brevità, testi chiari e arrangiamenti assolutamente semplici.

L’iniziale “Keep faith” è il puro esempio di quanto detto, ed è la canzone-manifesto di un nuovo corso della carriera del musicista inglese. Anche “You make me brave” e “If you ever leave”, sembrano rivelare l’aspetto più intimo e riflessivo di Bragg.

Non più quindi canzoni dichiaratamente politiche con riproposizioni di canti politici legati alla lotta operaia e omaggi a vari pilastri della politica internazionale, ma canzoni sobrie e rilassate: “La vita non è solo politica ma anche l’amore non lo è, io sto cercando il giusto equilibrio tra amore e politica” dice lui stesso.

Le altre canzoni: “M for me” suona abbastanza piacevole, mentre stimolante è “Sing their souls back home” malinconica è “The Farm Boy”. Non mancano però alcune asprezze del passato, come “I Almost killed you” e “The Beach is Free” dove Bragg ricorda Bo Diddley.

Chi ha invece amato il Bragg ilare, corrosivo, sarcastico e ruvido lo ritroverà intatto in pezzi come “Something happened”, “The Johnny Carcinogenic show” e “O freedom”. Per finire la splendida “Mr.Love & Justice” (che non ha caso titola l’album) nasconde nelle sue liriche una profonda riflessione di Bragg sui poli attorno ai quali è sempre ruotata la sua poetica e, non ultima, la sua vita stessa: Amore e giustizia, appunto.

ps. Mr.Love & Justice (anche) in versione doppio CD con, nel primo disco, le dodici canzoni arrangiate e suonate con la consueta band, mentre nel secondo riproposte in solo-version con Bragg che torna alle origini e si accompagna da solo con la chitarra elettrica.

#duemilaotto

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Sangue indiano nelle vene, il Canada come paese natale e una credibilità conquistata tra le fila della “Band”.

Quando decide di entrare in studio per registrare il “suo” disco, Robbie Robertson aveva masticato rock per quasi tre decenni. Nel 1965 aveva accompagnato Dylan in uno dei tour più discusso della storia. Da allora, la sua vicenda era rimasta strettamente legata a quella dell’uomo di Duluth: insieme alla Band aveva registrato album di capitale importanza come “Music from Big Pink” e preso parte alle memorabili session di “The Basement Tapes”.

Nella Band era punto di riferimento, ma la presenza di vocalist d’eccezione come Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko gli aveva spesso impedito di interpretrare lui stesso le canzoni che scriveva. Dal giorno dell’addio della Band, documentato da un capolavoro musical-cinematografico intitolato “The Last Waltz” (1976), Robertson ha atteso undici anni prima di pubblicare il suo primo, vero lavoro solista. “Non avevo nessuna intenzione di incidere un nuovo disco della Band”, disse all’indomani della pubblicazione del suo esordio “volevo un album che rispecchiasse il mio stato d’animo attuale”.

Un pugno di canzoni luminose come un flash sparati in piena notte sugli immensi spazi americani. Avventure in bianco e nero come film neorealisti, con un protagonista mezzosangue eternamente in bilico tra la spiritualità pellerossa e il furioso realismo del rock.

Grazie alla produzione di Daniel Lanois (canadese anche lui) e a una impressionante lista di ospiti (U2, Peter Gabriel, BoDeans, Maria McKee, Terry Bozzio, Manu Katchè, Neil Young), Robertson riuscì a mettere in scena una credibile e suggestiva rappresentazione del rock di fine anni Ottanta. “Fallen angel”, “Showdown at big sky”, “Somewhere down the crazy river”, “Sweet fire of love”, erano il filo steso sull’America per avvicinare il ritmo di New Orlens e le incotaminate distese del Canada.

In quelle canzoni c’era il rumore della metropoli e il silenzio dei cimiteri indiani. Dove futuro fa rima con memoria.

#millenovecentoottantasette

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“Sono un ebreo americano di origine russe che recita la parte di un afro-giamaicano. Quello che vorrei essere è un indiano, ma finirò per essere un cowboy”

A distanza di quasi sei anni dall’ultimo album “Hard Candy” (2002), sono tornati con un nuovo disco i Counting Crows. Questo quinto album in studio, arriva quindici anni dopo il bellissimo e fortunato “August and evrything after” (1993), si chiama Saturday nights and Sunday Mornings, e ci propone il consueto mix di rock, rock acustico e influenze country, il tutto coniugato dalla voce inconfondibile del leader della band Adam Duritz.

Il disco è fondamentalmente diviso in due parti: quella dedicata al caos dei “Sabati notte” quando “si commettono i peccati”, parte più elettrica e quella più calma, dedicata alla malinconia delle “domeniche mattina” quando invece “si pente”, parte più acustica.

I suoni del disco sono probabilmente ancora un po’ troppo in coerenza con gli ultimi lavori del gruppo a discapito di una nuova sferzata, di una nuova fase sonora, attesa come sempre, dai fans.

Nel disco ci sono le ballate che gli hanno resi famosi. Nella prima parte denominata “Saturday” le canzoni sono elettriche, veloci, energiche e sempre trascinanti, nella seconda parte denominata “Sunday” le canzoni sono acustiche, lente e sempre melodiche.

E’ questa, una delle peculiarità dei Counting Crows, oltre a quella di curare molto gli arrangiamenti. Il loro lavoro sonoro sta nel saper produrre “intrecci” musicali, sta nel riuscire a fondere decine d’incastri elettroacustici, creando brani impeccabili e raffinati.

Non è facile dare un giudizio complessivo a quest’ultima fatica di Adam Duritz e compagni, il lavoro è ben strutturato, ben suonato, ben cantato, ben arrangiato, ben adattato ad ogni situazione vista anche la doppia personalità dell’album, eppure anche con tutti questi “ben” rimante tutto abbastanza anonimo.

Probabilmente dopo questo lungo inverno ci aspettavamo, perché molto desiderato, un po’ più di “August”. Ben tornati, in ogni caso, Counting Crows.

#duemilaotto

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A dieci anni dal suo esordio discografico arriva il primo live, a cui ne son seguiti altri due, sempre rispettando la scadenza decennale. Se qualcuno compila la lista dei 10 migliori live di tutti i tempi e non include questo, due sono i casi: o non l’ha mai ascoltato o era meglio che stesse zitto.

Vi è più di un motivo per cui questo album rifulge. Primo: il cantante è un vulcano in eruzione. Secondo: il cantante ha raggiunto il pieno della maturità tecnica e artistica. Terzo: la band di supporto è tanto articolata ed affiatata che non si potrebbe desiderare di meglio. Quarto: le diciotto composizioni son tutte valide.

Il titolo origina da una delle pratiche di Van nei suoi concerti: fa crescere in maniera orgiastica l’eccitazione, al cui culmine pronuncia la fatidica frase: “E’ troppo tardi per fermarci ora”. Invece subito dopo la canzone si interrompe di botto. Si può ascoltare tutto ciò in “Cyprus Avenue”, drasticamente diversa dalla versione originaria su “Astral Weeks”.

I brani scelti vanno anche più indietro, comprendendo due hit dei Them e ben sei cover, mai registrate in studio. La Caledonia Soul Orchestra comprendeva undici elementi, cantante escluso: piano, batteria, chitarra, basso, sax, tromba, tre violini, una viola ed un violoncello. Le registrazioni risalgono all’estate del 1973, praticamente l’unico anno di vita della formazione.

Ad un certo punto si era pensato di pubblicare un triplo album, ma alla fine si optò per un doppio. Le canzoni escluse sono ricomparse su bootleg. E’ un vero peccato che non si sia provveduto a recuperarle per la riedizione su CD, perchè lo spazio per inserirle non mancava.

In queste registrazioni si vede solo il lato più esuberante di Van Morrison. Non c’è traccia del cantautore intimista e mistico; c’è un gigante che domina con carisma la platea e la band.

#millenovecentosettantaquattro

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Non vive certamente sugli allori il nostro Nick Cave se nel giro di dodici mesi riesce a pubblicare tre album. Dopo il progetto “Grinderman”, la colonna sonora di “The Assassination Of Jesse James”, è uscito poche settimane fa “Dig, Lazarus, Dig!” assieme ai suoi fedeli “Semi Cattivi”. Tre dischi diversi uno dall’altro.

Se l’estemporaneo “Grinderman” sembrava uscito dall’atmosfera che si crea in una serata tra amici in cui l’alcol fa da padrone, nella colonna sonora di “The assassination…”, Cave sembra smaltire i postumi della sbornia riposandosi e rinunciando alle parole, ai suoi testi che invece in questo “Dig, Lazarus, Dig!” sono molto presenti, forse troppo.

“Volevo fare un disco acustico però grezzo, dove tutti picchiassero sui loro strumenti anziché suonarli semplicemente. Tanti anni fa avevo già cercato una via del genere, ai tempi di Henry’s Dream; ma il progetto mi era scappato di mano, era venuto un album troppo elettrico, troppo rock. Anche stavolta non credo di avere raggiunto lo scopo; ma mi piace quella voragine strana e bella nelle viscere dell’album, scavata da una chitarra acustica, dal basso e dalla batteria su cui pesa un carico enorme di dissonanze. Warren Ellis ha fatto davvero un lavoro incredibile su quest’album.”

Dopo aver riascoltato Henry’s Dream, la prima sensazione che si ha nell’ascoltare Dig, Lazarus, Dig! é la mancata presenza delle ballate, del piano e di qualche guizzo a cui il nostro Nick ci aveva abituato. Ma com’è giusto che sia, questo è un nuovo lavoro di Cave e come tale la “diversità” dell’opera diventa un punto a favore e va ad aumentare il suo feedback.

Abbandonati in parte i suoi “aspetti” lirici e romantici e se vogliamo anche spirituali, in cui il pianoforte e il violino avevano un ruolo predominante, in questo disco domina la sezione ritmica, il basso e la batteria diventano fondamentali come non lo sono mai stati finora. La sonorità presente nella gran parte di questo nuovo lavoro è rock, mentre gli aggettivi: duro e puro sono a discrezione dell’ascoltatore.

Resta innegabile in ogni caso sul piano musicale la sua genialità e soprattutto l’impegno a mettercela tutta per proporre sempre qualcosa che, anche se non sempre è originale, è in ogni caso lo stesso sempre valida.

A 50 anni compiuti Nick Cave, attraversa un ottimo periodo della sua vita. Il suo produrre “suoni” sembrano come voler ripagare quel debito di gratitudine nei confronti della vita. La musica, infatti, da giovane gli ha salvato la vita, allontanandolo da stili che probabilmente lo avrebbero portato su strade buie e tempestose a volte senza ritorno.

“Comporre canzoni è la mia felicità, quando lo faccio mi sento appagato. Voglio scriverne un pacco e fare più dischi che posso”.

#duemilaotto

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In trenta anni di carriera, De Ville ha inciso 15 album (antologie escluse), e dopo quattro anni da “Crow Jane Alley” incide questo lavoro “Pistola” (chissà perché in italiano) confermando ancora una volta il suo personale stile musicale.

L’album anche se con qualche discontinuità, e quindi imperfetto, conserva lo spirito del musicista misterioso, enigmatico e sorprendente.

De Ville, pirata metropolitano non solo nella fisicità ma soprattutto nella sua musica, “rapisce” i generi più diversi che sono il blues, il rhythm blues, il cajun, il rock’n ‘roll e li mischia allo stesso tempo con il soul e il sound gitano, sonorità che indiscutibilmente gli appartengono e che sono diventate il suo marchio di fabbrica.

I dieci brani che compongono l’album anche se tra loro eterogenei, sono legati da un filo conduttore che è: la sua profonda voce e l’ arrangiamento geniale, entrambi dimostrazione della sua grande personalità.

Willy a cinquantatre anni continua a fare grande musica e anche se non raggiunge gli alti livelli sonori di “Backstreet of Desire” (1993) e di “Miracle” (1987), riesce comunque a inventarsi grandi ballate, a rileggere classici brani del passato, a fare un bel disco di rock e blues, musica latina e gospel, sempre creativo e originale.

#duemilaotto

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“Chiudi la porta, abbassa le luci e rilassati”, dice un verso di questo disco e questo è il programma di tutta l’opera. L’atmosfera, oltre ad essere rilassata, è malinconica ed autunnale.

Torna nell’organico Jeff Labes che cura parte degli arrangiamenti e trova spazio in eleganti assoli di piano. Van disponeva all’epoca di un gran numero di composizioni, tanto da pensare di rilasciare un doppio LP. In realtà nessuna di esse era un capolavoro assoluto, e alla fine non soltanto ci sarà un singolo LP, ma ci saranno due composizioni non sue a cui, evidentemente, Van doveva essere affezionato. Come accade in tutti gli album di Van Morrison gli arrangiamenti non sono mai sovraccarichi, anche qui se vi sono tantissimi accompagnatori.

Nella iniziale “Snow in San Anselmo” c’è addirittura un coro sinfonico a dare un effetto inatteso ed affascinante. Nella finale “Purple Heater” c’è un nutrito accompagnamento d’archi che ricrea l’atmosfera di Astral Weeks. Gli stessi archi, uniti ai fiati, danno l’impressione di una orchestra jazz nella spiritosa “Bein’ Green”, ripresa dal programma televisivo dei Muppets.

“The Great Deception” accusa di ipocrisia John Lennon e Sly Stone. “Autumn Song” è il rovescio della medaglia di “Listen to the Lion”. Qui si decantano le piccole gioie della quiete domestica.

Anche se non contiene canzoni di spicco, questo album si fa apprezzare per gli accompagnamenti e le esecuzioni convincenti e riesce appieno nel suo scopo di creare un’atmosfera raccolta e rilassata. Scott Thomas sostiene che la produzione di quest’album sia flaccida. Non posso dire dell’originale, in quanto io possiedo la versione rimasterizzata, che mi sembra fantastica.

#millenovecentosettantatre

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