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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

immagine Grace è l’unico disco completo che Jeff Buckley ci ha lasciato in sua memoria, prima che un destino dannato lo prendesse con se. Morì infatti, annegato nel maggio del 1997.

Dal padre Tim, uno dei più grandi cantautori del secolo scorso, oltre alla morte prematura, ha preso in eredità la grandissima dote vocale. La voce infatti è una voce speciale, angelica, a tratti, drammatica, sgraziata, disperata. No, non era un vocalist da bel canto, ma un cantante in presa diretta con le emozioni e i sommovimenti dell’anima.

Il disco composto da dieci brani è di forte impatto, non solo vocale ma anche spirituale. La canzone d’apertura “Mojo Pin” è un’alternanza variegata che va dai sussurri alle grida, senza violenza e con sentimento Buckleyiano. “Grace” ci fa sentire le doti musicali di cui il nostro è in possesso. E lo si percepisce soprattuto dalle sue performance vocali. “Last Goodbye” è l’esempio di come un brano “leggero”, cantato da Jeff diventi di spessore. “Lilac Wine” è tra i brani più spirituali del disco, la malinconia e la dolcezza dell’interpretazione lo fa avvicinare allo stile del padre. “So Real” ci porta agli antipodi rispetto alla precedente, un brano “libero” senza schema, un cavallo senza briglie. “Halleluja”, brano di Leonard Cohen, è l’esempio di come la copia superi l’originale. Sei minuti di grande intensità sonora, interpretata come meglio non si può: mistica e profonda. “Lover, You Should’ve Come Over” rimane nei paraggi, la sua malinconia aumenta pian piano fino a coinvolgerti a tal punto che è come vedere una scena di un film, triste. Ulteriore alternanza sonora con “Corpus Christi Carol”, brano spirituale-religioso agli antipodi di “Eternal life” brano rockettaro con forti accenni chitarristici. L’ultimo brano del disco: “Dream Brother”, chiude in bellezza questo grande disco, e ancora una volta il misticismo di Buckley rimane in evidenza regalandoci una canzone carica di poesia e pathos.

“Grace” è un disco magico. L’abilità del mago Jeff è quella di riuscire a trasportarti nel suo mondo, un mondo tutto suo, fatto di sensazioni, emozioni, pensieri. Nel mondo rock pochi come lui, sono riusciti a trasmettere con le parole e la musica “stati” di profondo spiritualismo mai banali.

Il mago Jeff ha avuto il coraggio di aprire una nuova strada tutta personale, il suo canto, i suoi testi, i suoi suoni, hanno creato un suo personale stile, unico e irripetibile. “Grace” rimane uno degli album più importanti della storia del rock. Un disco senza tempo. Un regalo che Buckley ci ha lasciato in eredità.

Il suo testamento artistico-musicale-spirituale.

#millenovecentonovantaquattro

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Into The Wild, primo album solista per Eddie Vedder, cantante e leader dei Pearl Jam, è anche colonna sonora del nuovo film scritto e diretto da Sean Penn dal titolo omonimo.

Del film, tratto dal libro che racconta la storia di ChristopherMcCandless, un giovane studente atleta, che come scelta di vita abbandona tutto e si mette in viaggio nelle zone selvagge degli Usa, da dove non tornerà più, l’unica cosa che vi e mi consiglio è quella di andarlo a vedere, del disco invece non ho dubbi, ascoltatelo.

A differenza dei dischi dei P.J., Eddie in questo disco è assai più acustico. Quasi tutti i brani sono da lui composti ed eseguiti, seguendo una strada più intima e cantautorale.

Non per questo il disco manca di energia e di vitalità, anzi l’intensità e l’emozione a volte sono veramente forti e cariche di trasporto. Le canzoni sono semplici piccoli gioielli in formato folk, anche perchè l’uso della voce e degli arpeggi delle chitarre, hanno la prevalenza sull’intero album. Le liriche marcatamente nude e crude, raccontano della dualità tra la vita e la morte, e sono come sempre cantate in maniera magistrale.

Anche se in questo lavoro, l’aggettivo originale potrebbe andargli stretto, il disco rimane tra i più belli di quest’anno. Vedder, che non fa certamente rimpiangere gli ultimi poco riusciti dischi dei Pearl Jam, merita una lode, per il coraggio, per l’impegno e per l’intensità che l’opera sa trasmettere.

#duemilasette

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Van è stato estremamente geloso della sua vita privata. Si sà che in quest’anno il suo matrimonio entrò in crisi e presto giunse al divorzio. Come tutti i libri su Van raccontano, i dolori d’amore lo fecero tornare quello di Astral Weeks. D’altronde certe composizioni e certe esecuzioni non le puoi costruire a tavolino, devono venire da sole. Dal ’72 al ’74 Van calerà sul mercato un poker di capolavori, di cui questo è il primo.

Tre lunghe composizioni, reminescenti quelle di Astral Weeks, dominano l’album. Rispetto a quel disco, il suono qui è più spoglio, poggiando su chitarre acustiche e piano. Questo ne diminuisce il carattere onirico e ne sottolinea quello drammatico. Il testo di “Listen to the Lion” è chiarissimo: l’autore, distrutto dalle pene d’amore, deve guardare nel profondo della sua anima, per ascoltare il leone che vi è racchiuso. Il leone gli dice che i suoi antenati lasciarono la Danimarca per incominciare una nuova vita in “Caledonia” e che lui, quale loro discendente, ha dentro di sè la forza per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà della vita.

Quanto ci impieghereste per dire queste quattro frasi? Van le centellina in ben dieci minuti. La performance vocale è letteralmente… ruggente! Con questa canzone Van smette di comporre con l’inconscio e smette di emulare Dylan. C’è sempre lo stream-of-consciousness, ma è diverso da prima. Prima erano i ricordi ad affiorare da soli, ora è la volontà che, lucidamente, esplora e guida la mente. Questo stile non sarà mi abbandonato, ed avremo tanti seguiti a questa canzone. Più spesso, al posto della storia dei progenitori, vi sarà la propria infanzia.

Nel brano “Saint Dominic’s Preview” c’è un lunghissimo giro di parole e immagini prima di dire di aver visto, davanti ad una chiesa, la gente che marciava per la pace in Irlanda del Nord. Che io sappia, è l’unico brano da lui dedicato all’argomento. In “Almost Indipendent Day” si racconta invece di una serata felice passata in giro con la moglie. Se qualcuno legge il testo senza ascoltare il brano pensa che si tratti di una canzone serena e felice, perchè il racconto si svolge nel presente. Solo la musica e l’interpretazione fanno capire che si tratta del ricordo di un passato che non tornerà più.

E’ illuminante sapere come nacque la canzone. Squillò il telefono in casa Morrison e la centralinista disse che c’era una chiamata dall’Oregon da parte di un suo ex-compagno dei Them. Quando la telefonata fu passata, dall’altra parte non rispondeva nessuno. A Van vennero in mente i versi: “I can hear Them calling way from Oregon/ And it’s almost Independence Day”. Vien da ridere pensando al tempo perso da qualcuno nel tentativo di scoprire il significato nascosto delle canzoni!

Questo disco è l’esatto contrario del concept-album. E’ una raccolta di canzoni eterogenee, registrate in momenti diversi, con stili e con musicisti diversi. Le capacità canore di Van danno prova di essersi affinate con passaggi di canto “scat” ultrarapido.

C’è da dire, a proposito della Caledonia, antico denominazione della Scozia, che Van dà questo nome alla sua orchestra accompagnatrice del periodo ed al suo nuovo studio di registrazione privato. Caledonia è anche il secondo nome della figlia Shana, del negozio di dischi dei genitori di Van…

#millenovecentosettantadue

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La nomenclatura ufficiale della critica, non ha accolto trionfalmente l’ultimo lavoro di Springsteen e, per amor del vero, le stelle attribuite a “Magic” certamente non illuminano il cielo. Effettivamente questo era nell’aria e nelle settimane precedenti all’ascolto del cd, ho avuto come una sorta di premonizione: i dischi meno osannati dalla critica a lungo termine sono quelli che ascolto di più: Human Touch, LuckyTown e soprattutto Tunnel of love , mi hanno accompagnato per molte volte in questa terra a volte acida.

C’è un teorema matematico che per me vale più di quello di Pitagora: la somma di quante volte un cd suona nel tuo lettore musicale è uguale alla somma di quanto il disco ti piace. Seguendo questo teorema, il disco ha riscosso un grosso successo nella mia sfera musicale e per me, questo potrebbe già bastare. Analizzando invece il disco con più attenzione mi soffermerei su alcuni punti.

Sembra che la decade che stiamo vivendo sia molto prolifica per il boss, al contrario di altre passate. Viene quindi spontaneo chiedersi se sia frutto di un suo naturale exploud creativo o, al contrario legato a logiche del mercato discografico, vedi impegni contrattuali. Verrebbe da pensare che il disco sia più il frutto di un lavoro su richiesta che non il risultato di un desiderio innato di esprimere in versi e suoni il suo essere musicista. Il fatto che le composizioni siano state concepite innanzitutto per essere suonate dal vivo, avvalora ancor di più questa tesi.

Nonostante tutto questo non mi sento assolutamente di rimandare il disco, proprio per il mio teorema sopraddetto. L’essere umano e romantico del boss alla fine riesce a cancellare qualsiasi disquisizione. Le canzoni di questo disco scivolano via una dopo l’altra, i suoni sono i suoi, sono quelli del Boss, inutili i soliti paragoni come: assomiglia a “The Rising”, ma manca di …, ha un po’ il suono di “Born To Run”, però non ci sono le…, con “Devil and Dust” è accomunato da… però… etc.

In questo disco ci sono i suoni di Springsteen e basta. Dopo un “The Rising”, un “Devils and Dust”, un “WeShall Overcome…”, tre dischi diversi uno dall’altro che confermano quanto egli non sia ripetitivo, anzi aggiungo che, probabilmente sono pochi ad avere queste performance così eclettiche. Ogni comparazione in questo caso mi sembra fuori luogo.

Nelle canzoni affiorano decisamente dei testi rivolti, nel bene e nel male, a un futuro abbastanza vicino. Leggendo i versi e sottolineando quelli che chiudono molte canzoni: “E niente di tutto ciò è ancora accaduto”, “E tu crollerai”, “Questo è ciò che sarà, questo è ciò che sarà”, “Il cammino verso casa sarà lungo”, “Chi sarà l’ultimo a morire per un errore”, “Lavorerò per il tuo amore”, risaltano e testimoniano, da un lato le sue angosce, le sue paure, le sue ferite, la sua reale consapevolezza e dall’altro il suo non voler cadere nell’inerzia che molte volte è preda dell’uomo, il desiderio positivo di andare avanti, comunque sia, con la forza che gli è sempre stata fedele, con la grinta che gli è sempre stata compagna. Non per niente è il Boss! #duemilasette

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immagine La grandezza di un musicista e in questo caso di Neil Young sta nel non fossilizzarsi in stereotipi musicali. Mirror Ball è il disco che conferma questa regola.

L’immagine ancora saldamente radicata nella mente di molti è quella del cantautore triste e solitario di “Harvest” (1972), del cantautore pacato di “Comes a time” (1978), o del vecchio bisonte che combatte la ruggine di “Rust Never Sleeps” (1979). Anche se tuttavia già nel corso degli anni ’70 Young aveva ripetutamente cercato di ridefinire il proprio ruolo e la propria statura umana e artistica attraverso scelte radicali ed estreme, a volte tutt’altro che popolari. Non bisogna dimenticare che all’epoca l’uscita di dischi ora osannati come “Times Fades Away”, “On The Beach”, e soprattutto “Tonight’s The Night” furono salutati come dei funerali artistici del canadese. Negli anni ’80 e successivamente, il compito è stato quello di demolire riuscendoci quella popolarità che gli derivava da un passato così glorioso. E disco dopo disco Neil non sbaglia un colpo, “Freedom”, “Weld”, “Harvest Moon”, diventano sfide personali per dimostrare a se stesso che è ancora in grado di fare buona o meglio ottima musica.

Questo lavoro, potente, elettrico e carico di adrenalina è un’altra ennesima sfida, data soprattutto dal fatto che non si affida ai soliti amici “Crazy Horse”, ma ad un gruppo molto in auge: i Pearl Jam. “Mirror Ball” mette in sintonia due diverse generazioni, incastrandosi perfettamente l’uno nell’altro, come se da sempre la band di Seattle fosse il gruppo di Young.

Tutti gli undici brani del disco sono scritti da Young. Il brano di apertura “Song X” è di presa immediata, potente e fresco, un valzer tipicamente younghiano. “Act Of Love” splendido brano, è un magma sonoro incandescente, con tre chitarre elettriche che impazziscono inseguendosi e disegnando un suono sporco e ruvido, la voce del canadese è acuta e la parte strumentale dei Jam è semplicemente perfetta. “I’m The Ocean” altro brano elettrico ed epocale, il suono è poderoso, i Pearl sono lanciati come una locomotiva a tutta velocità, la voce di Neil è superba, vibrante, è un brano capolavoro. “Big Green Country” è più morbido dei tre precedenti, scorre come un fiume in piena, trasportato nella corrente dalle chitarre dei Jam che bene sanno fare la band al servizio del canadese. “Truth Be Known” altro grande scenario sonoro. Nostalgica e piena di pathos la chitarra elettrica è quella di Young e si sente nel modo di suonare unico e personale. E’ una ballata vecchio stampo adatta comunque al tempo reale. Unica e secondo capolavoro dell’album. “Downtown” è il brano più stonesiano del disco (non dimentichiamoci che Young è un loro grande fan). La canzone è possente, solida e piena di feeling. La voce esile di Neil lascia spazio alle jam chitarristiche dei Pearl per un altro grande brano. La settima composizione dell’album “What Happened Yesterday” dura appena trenta secondi, è un frammento triste ed intenso, per poi passare a un diluvio sonoro che è “Peace And Love” con la voce di Eddie Vedder (finora relegato ai cori). Il brano è sempre molto elettrico e malinconico, i riff chitarristici danno uno spessore a questa canzone da renderla superlativa e grande composizione. “Throw Your Hatred Down” ricorda le cavalcate sonore chitarristiche che solo il nostro canadese ci ha saputo regalare. L’esecuzione è da manuale, con il motivo centrale ripetuto più volte e quindi più facilmente memorizzabile. Il penultimo brano “Scenery” è un ricamo intrecciato. Le tre chitarre si rincorrono e si incrociano, creando un fondo emozionale prima di lasciarci con l’ultimo brano del disco che porta il titolo di “Fallen Angel”, novanta secondi di organo a canne con la melodia che ci richiama “I’m the ocean”. Finale breve ed intenso che probabilmente è dedicato allo scomparso Cobain.

Un disco di puro rock, esaltante e coinvolgente. Un altro grande disco dell’intramontabile canadese, con i Pearl Jam non come bonus, ma come colonna portante dell’intera opera.

Una collaborazione fra vecchio e nuovo per creare una musica poderosa e sana per le nostre orecchie e la nostra mente. #millenovecentonovantacinque

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immagine Il titolo non tragga in inganno: non si tratta di un omaggio ad Elvis, nativo di Tupelo, Mississippi. Tupelo Honey è una ricercata qualità di miele, a cui Van paragona la sua dolce Janet.

Tutto i testi, qua, vertono sullo stesso tema: miele ed amore. In quanto a “radiofonicità”, questo è il seguito di Moondance, ma è un disco tutto diverso. E’ un tipico prodotto del periodo, sulla scia dei successi di James Taylor e Carole King.

Van si diverte a fare il cantante romantico, e ci riesce incantevolmente bene, circondato da un’orda di validi strumentisti. Il soul lascia lo spazio al country, gli arrangiamenti si sprecano, i coretti femminili non si risparmiano.

Dal punto di vista della musicalità e della produzione, questo disco soddisfa ampiamente. Delle composizioni spicca solo l’iniziale “Wild Night”, una melodia facile su un ritmo contagioso, con la quale Van dimostra la sua abilità nello scrivere pezzi da classifica e la sua incapacità di promuoverli adeguatamente.

Il singolo, infatti, non entrò nelle top ten. Delle altre canzoni si fanno notare quelle più lunghe, organizzate come piccole suite.

La critica italiana ha, per sua tradizione, bersagliato di offese questo lavoro, molto oltre il suo unico demerito, che è quello di contenere troppo miele.

Questo è un disco che nessun appassionato di Van dovrebbe lasciarsi scappare.

#millenovecentosettantuno

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immagine Ci sono musicisti che a vent’anni hanno già detto tutto quello che potevano dire. Ce ne sono altri, invece, che a cinquanta suonati incominciano a dire le cose più importanti della loro vita.

Il caso dei fratelli Neville di New Orleans è quanto mai sintomatico di quanto detto sopra. I Brother’s, hanno percorso in silenzio e dignità la china di una fama ardentemente e meritatamente ricercata. Il successo del loro penultimo album, “Yellow Moon”, è la testimonianza di una fede nella musica che va al di là delle mode o dei generi.

Tra le altre cose, hanno il pregio di non poter essere facilmente catalogabili per genere. La loro musica non è mai stata inserita perfettamente in alcuno dei tanti compartimenti in cui è divisa la musica americana. Sembra infatti che, i negozianti non sappiano mai esattamente dove mettere i loro dischi. E’ capitato di trovarli nei posti più impensabili: nella sezione country, in quella gospel… Questa confusione ha indubbiamente danneggiato la loro promozione radiofonica e non solo.
Che “Brother’s Keeper” sia il prolungamento di “Yellow Moon”, sembra fin troppo ovvio, e questo depone comunque a suo favore. Ma forse si tratta di un disco ancora più vario e più bello del precedente. I Neville Brothers, sanno mischiare tutto il loro vasto sapere musicale in un unico sforzo sonoro che conta R&B, rock, blues, jazz, gospel, funky, reggae, folk-rock, ecc…

Le prodezze vocali di Aaron, Re Mida della voce, inebriano il loro sound dilatato e rarefatto. Il suo canto nero, profondo africano, crea un legame di sangue con la madre Africa.

Il titolo “Brother’s Keeper”, racchiude in sé il tema centrale del disco: ognuno di noi è il guardiano del proprio fratello. Le canzoni, attraverso un “talking” suggestivo, parlano del loro credo (sono ferventi discepoli della chiesa Battista), con un reggae solare, ci parlano della libertà d’espressione. Con atmosfere quasi epiche, si preoccupano di dire che, ogni uomo deve rispettare il proprio fratello, l’espressione del suo modo d’essere e di ciò che vuole fare con la propria vita. Attraverso un sound caraibico, cantano dell’importanza della responsabilità individuale. Tra antiche polifonie sonore e la stridula melodia araba, ci fanno notare che l’apatia è distruttiva ma che la politica può spesso appannare la verità. Con un parlato solenne, ci fanno capire che, la sofferenza di ogni uomo, donna, bambino oppresso, tocca profondamente le vite di ciascuno di noi.

I Neville si preoccupano di tutte queste cose e vogliono essere d’aiuto in qualunque modo possibile. La musica, in questo caso, può essere una forza potente, una grande fonte di aiuto, di guarigione. La loro è una musica calda, suggestiva. Il suono entra dentro di noi, in profondità, per cercare di sensibilizzare quella parte non facilmente raggiungibile, dove i sentimenti e le emozioni cercano di proteggersi da agenti esterni, per evitare scossoni, responsabilità, e vivere latenti, nel loro oblio.

Questo è un disco che non lascia indifferenti, i loro testi e la loro musica riescono a scaldare anche gli animi più gelidi, per la gioia della mente, del corpo, dell’essere. Questo è il loro motore trainante, che li rendono “grandi”.

Con questo disco i fratelli Neville, hanno finalmente ricevuto l’attenzione che si meritano, il pubblico si è reso conto che non è necessariamente vero che a quarant’anni si sia meno coraggiosi che a venti. #millenovecentonovanta

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immagine Finalmente un po’ libero dalle continue richieste di comporre colonne sonore per film, Cooder si prende una pausa, se così si può dire, per incidere un album finalmente di canzoni.

Questo disco è un po’ la sommatoria dei precedenti album suonati dal nostro Ry, siamo nell’87, e Cooder ha quarant’anni. Alla maniera dei vecchi cercatori d’oro, il chitarrista californiano è tornato a setacciare i filoni musicali che in passato gli hanno procurato non poche soddisfazioni, convinto di poterci trovar ancora qualche luccicante pepita.

Cooder anche in questo disco si fa accompagnare dai soliti fidati e inseparabili musicisti quali: Jim Keltner alla batteria, Van DykeParks alle tastiere, il poco fortunato e compreso fisarmonicista Flaco Jemenez, Miguel Cruz alle percussioni, Steve Douglas al sassofono, Jorge Calderon al basso elettrico e lo stravagante jazzista Buell Niedlinger al contrabbasso. Grazie al gruppo ma soprattutto alla sua sempre geniale creatività, Ry setaccia i generi a lui prediletti; rhythm and blues, rock and roll, tex-mex, delta, shuffle ecc… contaminati comunque dalla passione suprema che è il gospel.

ll suo modo di suonare è così unico e originale che può permettersi di affrontare qualsiasi tipo di musica. Rimanendo il già affermato e finissimo artigiano che conosciamo, Cooder rivisita alcune composizioni di Chuck Berry, Raymond Quevado, Johnny Cash, Walter Davis, Elvis Presley, oltre alla conosciuta è meravigliosa “Across the borderline” scritta in collaborazione di Jim Dickinson e John Hiatt.

Get Rhythm è un bel disco suonato ottimamente, trasuda suggestioni sonore in ogni suo “solco” (logico è il riferimento all’LP dell’epoca). Riesce a trasmetterci sensazioni uniche, che credo ormai appartengano a un suo marchio di fabbrica. Il Tag, per usare un termine dei giorni nostri è proprio la “Musica di Ry Cooder”.

Ry è in grado di suonare qualsiasi genere musicale, e nel contempo, riesce a tirar fuori sempre se stesso, il suo cuore, la sua anima. Get Rhythm è appunto la conferma di questo stato di cose. #millenovecentoottantasette

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immagine Tutti i critici reagirono entusiasticamente ad Astral Weeks. La rivista Rolling Stones lo nominò album dell’anno. Tutte belle parole, intanto Van era costretto a chiedere i soldi in prestito per mangiare. Infatti le vendite erano di appena 15.000 copie ed i discografici, forti di contratti capestro, bloccavano i pagamenti dei suoi diritti. Ancora oggi Van aspetta le sue royalties di “Brown Eyed Girl”!

Passarono due anni prima che arrivasse il disco successivo. Van era pieno di dubbi e diffidava del mondo dell’industria discografica. Scoprì che, se le sue canzoni fossero state trasmesse per radio, avrebbe ricevuto le royalties direttamente dalla BMI (l’equivalente della nostra SIAE). Abbandonò le sperimentazioni e decise di fare della semplice musica soul, dove le canzoni avrebbero mantenuto la canonica forma strofa-ritornello. La svolta sarà sbalorditiva, ma non si può dire che Van si svende. Non è il tipo di fare qualcosa che non senta suo o qualcosa di cui si possa in seguito vergognare. Decise di fare a meno di un produttore, perchè non si fidava più di nessuno. Aveva inoltre bisogno di una band stabile con cui poter sia incidere che esibirsi.

Scelse Jeff Labes al piano, John Platania alla chitarra, Garry Malabar alle percussioni Jack Schrorer a guidare i fiati. Come è troppo facile notare, quest’ultimo doveva ancora imparare a suonare. Questi quattro musicisti suoneranno con lui, ad intermittenza, per i successivi 4–5 anni. Il suono di Moondance, rispetto al contemporaneo soul di Aretha Franlin e Otis Redding, è molto più morbido e rilassato. Van si ispirava al soul gentile del defunto Sam Cooke, comunque in maniera del tutto originale. Il suo potrebbe essere chiamato “soul celtico”, ma la definizione non aiuterebbe a capire. In confronto ad Astral Weeks tutto è più levigato, pulito, meno emozionale. Gli arrangiamenti dei fiati sono mosci e noiosi, a volte irritanti.

Le composizioni abbracciano più stili. Il pezzo che dà il titolo al disco è puro jazz, come composizione e come esecuzione. “And It Stoned Me” sembra uscita del disco precedente. “Crazy Love” è una tenera nenia sussurrata in falsetto. “Brand New Day” è un gospel appassionante, con piano e coriste in primo piano e sassofonisti in castigo (per fortuna!). “Caravan” e “These Dreams of You”, registrate dal vivo tre anni dopo, saranno perfette, ma qui sono troppo fredde. “Into the Mystic” è una sognante ballata rovinata, come al solito, da un breve intermezzo dei sassofoni. Nulla di personale, credetemi.

La colpa io non la dò a Jack Schrorer, io la dò al suo insegnante! Gli ultimi due pezzi son puri riempitivi di nessun valore. I testi sono brevi ed ottimistici: Van era da poco felicemente sposato. Moondance è l’album più sopravvalutato della carriera di Van Morrison. In realtà egli stava ancora imparando a produrre un disco. Comunque sia, dopo questo disco i suoi problemi di sussistenza furono risolti.

#millenovecentosettanta

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immagine Effervescente, vivace, gioiosa è l’aria che ci fa respirare il sound, le note di questo Rei Momo. Ancora una volta il musicista scozzese tira fuori dal suo cappello a cilindro la sua grande creatività.

David Byrne dopo essersi allontanato dal progetto Talking Heads, si getta nei suoni dell’America latina, e più precisamente del Brasile. Questo suo primo disco solista dell’89, è un disco carico di musicalità, pieno di idee, di ironia e di feeling.

La prima cosa che più risalta alle orecchie è il divertimento che riesce a trasmettere, la gioia nell’aver composto questa serie di canzoni e di avercele donate. Divertimento dovuto anche alla carica vitale dei musicisti brasiliani presenti, che lo hanno aiutato e sostenuto in questa prova.

Byrne da ottimo artista, musicista, riesce a prendere gli elementi che compongono il carattere della musica brasiliana e dei paesi dell’America Latina e a modo suo trasforma e reinventa un sound rendendolo unico e originale, creando un suono molto ricco, corposo e molto piacevole.

Nelle canzoni di questo “Re Carnevale”, David oltre agli strumenti comunemente noti, miscela percussioni, fiati, fisarmoniche e violini. I quindici brani che compongono l’album formano un arcobaleno sonoro diverso dal solito percorso musicale a cui il nostro ci aveva abituato. Anche se certi riferimenti ai vecchi “Talking Heads” sembrano inevitabili e difficili da cancellare con un gesto di spugna.

Basti ascoltare “Indipendence day”, ricca di sfumature, allegre percussioni, per renderci conto che i T.H. sono dietro alla porta. “Make believe mambo”, con i suoi ritmi sudamericani, è un brano allegro, con una sezione fiati e un coro mariachi, da renderlo tra i più ascoltati e piacevoli. Una ballata carica di voci per un suono tipicamente brasiliero è “Call of the wild”, che apre la porta a “Dirty Town” ottimo brano ritmato dalle percussioni e guidato dalla voce di Byrne, la sezione fiati con in rilievo i tromboni ne fa di questo brano tra i più riusciti. Con “Rose Tattoo” siamo in pieno ambiente chinano, la sua bella sezione ritmica ci fa da apripista mentre stiamo per entrare al Mocambo. E “Loco de amor” ci dà l’anticipo per poi passare a “The dream police”, brano tipicamente ballabile come si diceva una volta, si vedono i ballerini in pista che si muovono al ritmo che ormai si è scatenato. Breve pausa con “Don’t Want To Be Part Of Your World” soave e leggera, apprezzabile la vena ironica, ottimamente arrangiata, ci mette in attesa di ascoltare “MarchingThrough The Wilderness” brano in vecchio stile mocambo con percussioni voci e ritornello. Lasciamo il mocambo per ritornare ai suoni di strada con “Good and Evil” simpatica e divertente, insieme a “ Lie to me” e “Office cowboy” ci riportano ai ritmi tropicali e sudamericani carichi di brio e di calore. “Women vs men” ci porta verso casa alla fine di questo viaggio sonoro, non prima di averci regalato un “Carnival eyes” dove il titolo dice tutto, la sezione violini la rende unica e le percussioni fanno tutto il resto. Conclude l’album “I know sometimes a man is wrong” un piccolo capolavoro di melodia con un testo ironico e amaro. E la festa è finita.

Inutile dire che questo è un disco per palati sofisticati. La ricchezza sonora degli arrangiamenti, la creatività e l’intelligenza musicale di David Byrne ne esce fuori a testa alta.

#millenovecentoottantanove

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