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Capita di tanto in tanto di ascoltare vecchi album di cui si aveva perso le tracce. Quando succede e quando il disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare, quando uno si sente partecipe delle emozioni dell’artista, anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto del disco sarà buono. Ho ascoltato per la prima volta Out Of The Storm di Jack Bruce e mentre la sua voce intonava le prime note di Pieces of Mind mi sono reso conto di fare la conoscenza dei più bei dischi di una certa vena del rock blues inglese al pari di Rock Bottom di Wyatt. Le esperienze, l’ispirazione, la scelta intelligente di certe note, la voce robusta e ricca di soul, rivela che Jack è un musicista di una categoria a parte, quella che Bob Fripp chiamò dei “maestri”. Dopo l’esperienza abbastanza monolitica di Wes, Bruce e Laing, Jack ha lavorato per un anno alla realizzazione di questo album con il solo aiuto di Steve Hunter (abilmente a tutte le chitarre) e Jim Keltner alla batteria meno in tre brani dove suona Jim Gordon. Il resto degli strumenti li suona tutti lui come tutte sue sono le voci e qui si potrebbe aprire un discorso sul cantante perché Bruce dimostra di essere in possesso di una tecnica fuori dal comune trovando timbri diversi per i diversi stati di animo e organizzando cori con armonie inconsuete. Le parole sono di Pete Brown il poeta cantante che aveva già collaborato coi Cream e la sua poesia sensoriale fatta di allusioni malinconiche si sposa benissimo con la musica che, ora è ritmata con anticipazioni jazzistiche, ora va oltre l’esperienza dei suoni contemporanei. Scozzese, connazionale di Van Morrison e come lui con un’anima piena di soul da cantare, Bruce è un musicista profondo e Out Of The Storm ne è la prova evidente.

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Se si escludono le estemporanee night-session di Tonight’s the night, On the beach è il lavoro più drammatico, triste e doloroso di Young, ma anche quello meno negativo. 

Neil Young mette a nudo le sue esperienze facendone un punto di forza realizzando sei incubi agghiaccianti, tetri ed impenetrabili e due rifugi malinconici per il cuore.

Storie di morte raccontate da chi è sopravvissuto, ricordi vicini e lontani che vengono rivisti con significati rivelatori. On the beach è una introspezione esistenziale con evidenti sottintesi psicoanalitici in un misto di irreale e quotidiano, di bisogno-abbandono, dove per la prima volta Neil Young vive la sua vita e le sue esperienze in prima persona.

E’ l’impronta esasperata e vera del suo personale modo di intendere il blues: una musica cruda, chitarre sporche e lancinanti, ritmiche squadrate ed essenziali e su tutto la voce cruda di Neil che tesse frenetiche immagini surreali, suonate e interpretate esclusivamente per sé stesso.

Con queste confessioni autobiografiche On the beach cancella il passato ed esprime una nuova esigenza del musicista che artisticamente e umanamente lascia tutt’oggi stupefatti.

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Tornato in Irlanda nel 1973 e suggestionato nel rivedere i luoghi della propria adolescenza, Van trova l’ispirazione per un album concept estremamente personale.

Non vi sono note di copertina o interviste a spiegarlo, ma si capisce che le varie canzoni sono in un ordine preciso, con frasi che si ripetono da un brano al successivo, in modo da formare la storia di un ragazzo che dapprima sogna una vita fantastica, popolata da eroi e da poeti, poi parte deciso incontro alla vita reale come se andasse incontro ad una avventura (la ricerca di un immaginario vello di Veedon).

Seguono le esperienze e le disillusioni. Alla fine c’è il ritorno al paese natio ed un amore che curerà le ferite.

Ad accompagnare il cantante c’è una versione snellita della Caledonia Soul Orchestra. Il suono è curato, ma rarefatto, ricordando un po’ tutti gli album precedenti. Infatti per ogni canzone c’è uno stile diverso, eppure l’opera conserva un carattere fortemente unitario.

Rispetto ad Astral Weeks, cui quest’opera è stata paragonata, essa è molto più sfaccettata, più costruita e meno originale. L’accompagnamento strumentale è infatti semplice e tradizionalista, più ancora che nei due album in studio precedenti. I testi e le parti vocali sono estremamente personali. E’ un disco che, pur non essendo musicalmente difficile, richiede un ascolto raccolto, al buio, per essere penetrato.

Prima che Veedon Fleece arrivasse nei negozi, era stato già ultimato ed annunciato il suo successore, dal nome “Mechanical Bliss” e dal tono opposto, gaio e spensierato. L’album non fu mai pubblicato.

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Con una splendida immagine di copertina esplicitamente dedicata a Magritte, l’album spinse al top la cosiddetta arte del riflusso. Il canzoniere dei disillusi della contestazione trova in Jackson Browne un interprete perfetto, che racconta la fatica di vivere con malinconica credibile vitalità.

‘Late for the sky’ esce nel dicembre del 1974. Non è un momento particolarmente fortunato. Jackson ha appena passato qualche guaio con “Redneck friend”, una canzone tratta dal suo precedente lavoro, ‘For everyman’, in cui si parla di masturbazione. Sua moglie però aspetta un figlio. E, infatti, nel retro della copertina di ‘Late for the sky’, Jackson dedica il disco a quell’Ethan (“che sta per arrivare”).

Il disco riceve i complimenti della critica, ma commercialmente è un piccolo disastro. Il suono morbido che viene offerto, le ballate profonde, il senso di vaga ma cosciente disperazione sociale attraggono e respingono allo stesso tempo. Di sicuro non sono “cosa immediata”. I singoli del disco (“Walking slow” e “Fountain of sorrow”) naufragano nei bassifondi della classifica. Jackson va in tournèe, anche da solo, a volte con il solo David Lindley, che col suo violino dà una svolta al timbro del classico suono da cantautore chitarra e pianoforte, cui anche Jackson era legato.

‘Late for the sky’ ha cambiato tanto nella musica rock. Forse troppo o troppo presto. Ha rimpastato le vecchie idee sulla cultura dell’immagine. Cantando canzoni senza tempo e trovando, dopo una serie di tentativi un suono che appariva perfetto per gli anni difficili che gli “individui” stanno vivendo, abbandonati dai loro stessi sogni e costretti a dire sì ad una società sporca. Jackson infila nel disco le osservazioni di una vita, guardando dentro ai propri cassetti, cantando la solitudine e la stessa desolazione di una generazione.

Quasi un capolavoro. #millenovecentosettantaquattro

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A dieci anni dal suo esordio discografico arriva il primo live, a cui ne son seguiti altri due, sempre rispettando la scadenza decennale. Se qualcuno compila la lista dei 10 migliori live di tutti i tempi e non include questo, due sono i casi: o non l’ha mai ascoltato o era meglio che stesse zitto.

Vi è più di un motivo per cui questo album rifulge. Primo: il cantante è un vulcano in eruzione. Secondo: il cantante ha raggiunto il pieno della maturità tecnica e artistica. Terzo: la band di supporto è tanto articolata ed affiatata che non si potrebbe desiderare di meglio. Quarto: le diciotto composizioni son tutte valide.

Il titolo origina da una delle pratiche di Van nei suoi concerti: fa crescere in maniera orgiastica l’eccitazione, al cui culmine pronuncia la fatidica frase: “E’ troppo tardi per fermarci ora”. Invece subito dopo la canzone si interrompe di botto. Si può ascoltare tutto ciò in “Cyprus Avenue”, drasticamente diversa dalla versione originaria su “Astral Weeks”.

I brani scelti vanno anche più indietro, comprendendo due hit dei Them e ben sei cover, mai registrate in studio. La Caledonia Soul Orchestra comprendeva undici elementi, cantante escluso: piano, batteria, chitarra, basso, sax, tromba, tre violini, una viola ed un violoncello. Le registrazioni risalgono all’estate del 1973, praticamente l’unico anno di vita della formazione.

Ad un certo punto si era pensato di pubblicare un triplo album, ma alla fine si optò per un doppio. Le canzoni escluse sono ricomparse su bootleg. E’ un vero peccato che non si sia provveduto a recuperarle per la riedizione su CD, perchè lo spazio per inserirle non mancava.

In queste registrazioni si vede solo il lato più esuberante di Van Morrison. Non c’è traccia del cantautore intimista e mistico; c’è un gigante che domina con carisma la platea e la band.

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